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Il futuro del complesso architettonico e la convivenza con l'Istituto d'Arte (Gelmini permettendo)

 

Riceviamo e pubblichiamo

Ma la scuola no….

In un’intervista sul futuro della Villa reale di Monza appena pubblicata da Vorrei, Carlo Vittone - studioso che ne ha approfondito le vicende - dopo aver espresso considerazioni e critiche condivisibili sui progetti di riuso e gestione, conclude rispondendo alla domanda se possano convivere, in quel luogo, una scuola a indirizzo artistico e una valorizzazione dell’edificio.

Vittone ritiene che l’Istituto d’arte che attualmente occupa l’ala sud ed è destinato con la riforma Gelmini a diventare dal 2010 un Liceo artistico, potrebbe essere una presenza compatibile se trasformato in un Istituto d’eccellenza. Si chiede, però, se la legislazione vigente renda possibile una simile soluzione.

No, non credo che allo stato attuale questa scuola, dove insegno da tempo, possa esser formalmente istituita come “scuola secondaria superiore d’eccellenza”.

La formalizzazione di un simile status richiederebbe una pratica didattica innovativa di livello assoluto, caratterizzata da totale continuità nel tempo intercorso tra la sua fondazione e oggi: il che non è, sebbene alcune esperienze interessanti vi trovino ancora espressione.

Non è neppure ipotizzabile che, allo stato delle cose e considerati tutti i fattori in campo, il neoliceo gelminiano - che ha stravolto annullandoli i caratteri identitari dell’ISA - possa svolgere il ruolo trainante che quest’ultimo seppe assumere per decenni rispetto alla riforma dell’istruzione artistica e alla riconsiderazione dei possibili utilizzi della Villa.

Tra l’altro, il parere positivo per la costituzione in scuola d’eccellenza è oggettivamente condizionato dalla contrattazione tra le lobby politico culturali, che - di questi tempi - mi pare abbiano già molto da fare per accontentare altri referenti, infilandone le prebende clientelari negli anfratti della finanziaria in periodo di scarse risorse economiche.

A ben vedere, la constatazione di quest’improbabilità odierna di veder riconosciuto all’ISA uno statuto d’eccellenza e, conseguentemente, di trovar collocazione stabile in Villa suona certamente strana, poiché risulta oggi assai diffcioltoso ottenere da istituzioni che dovrebbero esser democratiche ciò che una monarchia, quella sabuada, ritenne invece perfettamente logico e attuabile, al punto da promuovervi l‘insediamento, negli anni ’30, dell’Istituto superiore per l’industria artistica (ISIA).

Una monarchia, insomma, sostenne l’utilizzo pubblico, culturale e scolastico della Villa mentre la democrazia oggi lo limita, privatizzandone ampie parti?

Paradossale, ma del paradosso bisogna capire le ragioni che stanno, a mio parere, in elementi di carattere culturale ed economico/sociale propri del territorio brianteo, per come si è sviluppato dal dopoguerra ad oggi.

 

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Atti del Convegno sull’uso culturale e sociale della Villa reale di Monza, 1977.

 

Pregiudizi

Io vedo, anzitutto, all’opera due pregiudizi.

Il primo è proprio quello che, implicitamente, è espresso involontariamente nelle considerazioni di Vittone: lì ci potrebbe stare una scuola, purché sia di eccellenza.

Il presupposto, condiviso del resto da tanti politici, architetti, intellettuali, è dunque che chi vuol “entrarci” si debba porre preliminarmente - in un qualche modo - al pari dell’eccellenza preesistente di un edificio che, se depurato dalla sua origine nobiliare, mi pare oltretutto da dimostrare.

Perdura, nell’immaginario più o meno conscio sulla Villa, un imprinting aristocratico che, in realtà, è quasi da teleromanzo e che poi, anche involontariamente, la legittima come sede ideale per matrimoni, soiree, manifestazioni tipo “ballo delle debuttanti”, con cadetti e giovani damine immerse in una atmosfera retrò…

Occasioni nelle quali la Villa - e non potrebbe esser altrimenti dato il suo estesissimo stato di abbandono - funziona da set parziale, da scenografia da inquadrarsi stando attenti a non andare fuori quadro. Per intenderci: come se al ballo di Capodanno viennese, appena usciti dalla sala dei concerti, ci si potesse imbattere in immagini da periferia suburbana degradata.

Accanto a questo pregiudizio, ce n’è uno più prosaico, riassumibile nella domanda “quanto rende, quanto costa”, che è stata sovente un alibi per far altro di culturalmente sconveniente o per non fare, piuttosto che per considerare davvero la fattibilità di progetti organici, unitari.

In qualche modo, anche chi ha sostenuto la possibilità di presenze formative nella Villa è stato costretto a misurarsi con i due pregiudizi citati e, generalmente, ha dovuto soccombere, perchè da una parte non si è mai ritenuti all’altezza della “nobiltà” dell’edificio; dall’altra le risorse da mettere in campo sono sempre esorbitanti, richiedono l’intervento di soggetti facoltosi (dove sono?) e un’ipotesi progettuale dimensionata sia alle risorse che ai soggetti che le possono erogare che, nel loro insieme, non paiono particolarmente disposti ad un uso di tipo formativo della Villa, magari anche solo residuale. Il bando di concorso di cui il progetto Carbonara risultò vincitore, accennava molto vagamente a simile presenze, che solo una limitatissima parte dei concorrenti fece propria esplicitamente, probabilmente più in ossequio alla memoria storica dell’edificio - e dunque anche al suo genius loci - che ad una intenzione convinta. Il progetto Carbonara stesso, peraltro, non esclude la presenza di istituti di formazione in Villa, ma vi accenna molto vagamente e, appunto, relativamente a istituzioni di livello universitario o d’eccellenza.

Eppure se committenti e progettisti avessero voluto misurarsi con ipotesi di utilizzo e gestione che prevedessero insediamenti formativi, avevano qualche precedente solido cui tenersi.

 

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Studenti dell’Isa: lezione in Villa con il prof. A.G.Fronzoni, 1983.

 

1977, il Dipartimento delle arti e spettacolo:
tra Milano e Monza

Infatti, la questione di una permanente e organica presenza dell’ISA in Villa reale che riprendesse rinnovandola la tradizione dell’ISIA, fu posto già in un Convegno del 1977, che vide la presenza di interlocutori qualificati: amministratori regionali, locali, scolastici, ordini professionali, responsabili di facoltà universitarie milanesi, di soggetti finalizzati alla tutela e valorizzazione dei beni culturali (Italia Nostra).

Quella proposta - calata nel mezzo di una perdurante afonia circa il futuro della Villa - auspicava proprio la presenza del ciclo secondario superiore tuttora esistente (ISA, domani Liceo) integrato con forme d’istruzione universitaria o parauniversitaria.

Ci sono atti che documentano la richiesta (in qualche modo ripresa anche nel successivo progetto di Cittadella dell’Arte, dislocata però fuori Villa reale e anch’esso abortito) e fu diversamente modulata da interlocutori e relatori: alcuni ipotizzarono la creazione di un Dipartimento delle arti e spettacolo (un po’ sul modello del DAMS, ma con accentuazioni più operative), altri di una sezione della Facoltà di architettura e design di Milano dedicata maggiormente al design, altri ancora di una Scuola superiore di restauro che utilizzasse la Villa stessa, tutta da restaurare, come laboratorio/cantiere.

Prevalse, negli atti finali, la proposta di un Dipartimento delle arti, comprese quelle musicali e coreutiche, che fu allegata - come una sorta di appendice futuribile ed essenziale - al documento col quale l’ISA richiese e ottenne dal Ministero dell’istruzione lo statuto di istituto a ordinamento sperimentale totale (1978).

Statuto, è utile ricordarlo, equivalente allora al riconoscimento alla scuola di un carattere di eccellenza, possibile punto di partenza di un progetto per la Villa che, accanto alle istituzioni formative, prevedeva ovviamente la valorizzazione delle sue funzioni museali ed espositive (di cui fu fornito qualche esempio concreto, ad es. la Mostra del Werkbund. oppure quella Itinerari di gioco).

A partire da allora, si arriva progressivamente, attraverso le proposte più disparate e frammentarie e di varia origine, alla situazione attuale e non prima di aver cercato nel prolungamento della permanenza della MIA (Mostra Internazionale dell’Arredamento oggi giustamente trasferita altrove) un elemento di continuità con la tradizione delle arti applicate, anche se in versione molto riduttiva e sostanzialmente impropria perchè, nel frattempo, era avvenuto un forte mutamento che aveva ormai indirizzato altrove il cuore del design, dell’architettura, della comunicazione visiva.

Tutto quel che per oltre cinquant’anni era stato condiviso tra Monza e Milano, anche se spesso in modo traballante, si era andato spostando sulla metropoli, in una situazione nella quale, per converso, le amministrazioni monzesi si richiudevano progressivamente in una dimensione locale, rifiutando nei fatti il concetto stesso di gestione integrata dell’area metropolitana e, dunque, di una scala progettuale più vasta che pure era sempre stata propria della Villa.

Andateli a cercare, oggi, nei territori della neonata provincia briantea, i cuori pulsanti della cultura professionale e produttiva che animò la stagione dell’ISIA e delle Biennali!

Non li trovate se non in microscala, per l’operosa iniziativa di alcuni comuni isolati, mentre showroom ed esposizioni (Salone del mobile) sono emigrati altrove, e altrove stanno gli studi della produzione filmica e televisiva (di cui Milano non è interprete residuale, in particolare in campo pubblicitario).

Altrove sta anche il cuore formativo che da linfa a queste attività, mentre in Brianza sono rimasti - sin quando dura - gli insediamenti produttivi.

Dal punto di vista formativo e del merchandising dei prodotti del design e della comunicazione visiva, che sono essenziali per fare mercato, Milano è il Nord e la Brianza il Sud arretrato.

Questa situazione è evidentemente accettata, se le istituzioni locali e le amministrazioni che potrebbero cercar di mutarla quantomeno parzialmente si accontentano, persino nella recente proposta di Piano territoriale dell’offerta formativa, di sancire la presenza di licei artistici monchi di indirizzi (ad esempio l‘audiovisivo multimediale, lo scenografico) che sono parte integrante dello scenario artistico/produttivo attuale.

 

La mini-grandeur briantea:
alibi per non fare o per far cassa subito?

Sono episodi che manifestano, a ben vedere, quanto sia persistente l’inganno che bastano i “sghei” a fare centralità e coltivano ancora l’illusione - utile in quanto il migliore degli alibi a non far bene - di una grandeur briantea, geografica, economica e culturale che la Villa reale ha per breve tempo e in qualche occasione incarnato, quasi sempre poi riducendola a caricatura nei fatti.

Una sorta, insomma, di perenne “vorrei ma non posso”.

Vorrei esser una residenza arciducale, ma ciò fu per poco tempo. Vorrei esser un luogo di sperimentazione agraria, ma presto ciò svanì lasciando solo residui (la facoltà di agraria, qualche percorso botanico ostinatamente riesumato). Vorrei esser la residenza di campagna di una monarchia di caratura nazionale, ma un regicidio fece svanire il sogno, peraltro già compromesso dall’utilizzo da garconniere che un altro re sabaudo ne aveva precedentemente fatto.

Che nel dopoguerra il destino della Villa sia sempre stato caratterizzato dall’occasionalità dei progetti che dovevano ri-nobilitarla è un fatto, riscontrabile sia nella disomogeneità dei progetti stessi (dal museo delle carrozze ad altre inverosimili elucubrazioni da bottega…) che nella loro sostanziale parzialità e inaffidabilità (mancavano i quattrini e i soggetti disposti a sborsarli, l’uso degli spazi evidenziava costantemente la tendenza a disegnare uno spezzatino disorganico).

Il progetto Carbonara era sembrato relativamente più affidabile proprio perché - aldilà del merito - sembrava sincronizzare le disponibilità economiche, i soggetti gestori e contraenti, la praticabilità di un’ipotesi architettonica, indipendentemente che la si condividesse o meno.

Ora, a quanto pare, si ritorna invece ai dilemmi e alla situazione di sempre.

La Villa, in alcune parti, è già sporadicamente aperta per manifestazioni il cui carattere è tutt’altro che organico: si tratta, insomma, di un luogo “affittabile”, percepito come mero “produttore di reddito”.

La domanda è: in questa dimensione psuedo-efficientisca preponderante e già operante in tutto il Parco, la Villa potrà davvero produrre risorse tali da consentirne il risanamento?

La risposta è no, non se si guarda al problema in modo tanto angusto.

Anzitutto il degrado permane e permarrà in ampie porzioni nella sua gravità, tale da trasformarla in una sorta di fabbrica del Duomo nella quale, per poter trovare le risorse per aggiustare un pezzo (inevitabilmente la scelta ricadrà sul più “appetibile” al momento) sarà necessario talmente tanto tempo che se ne ammalorerà qualcun altro altro, come già avviene.

La risposta è no, se il Consorzio partorisce ora il topolino di Infrastrutture Lombardia, con i suoi progetti di utilizzo - spezzatino, che dovrebbero miracolosamente e automaticamente trovare una convergenza automatica.

E però, se si fa attenzione alla storia della Villa, si vedrà che la situazione attuale marca una sostanziale continuità col passato: l’incapacità di predisporre un progetto autonomo forte e di sostenerlo economicamente, tant’è che la costituzione di un ente di gestione compartecipato era apparsa come l’unica logica e realistica conclusione.

Del resto, la dimensione sovracomunale del luogo, dei giardini e del parco che la circondano, era ed è segnata sia nella realtà storica del suo utilizzo che nella sua dimensione.

Oltretutto, la speranza di ritrovar risorse adeguate alla gestione di un progetto minimamente unitario era riposta, in buona parte, nell’Expo milanese, il cui percorso appare ormai in crisi, perché le risorse sono poche e, ancor più, perché i soggetti che se le contendono sono troppi e interessati più agli aspetti speculativi e immobiliari che ad altro.

Cosa può rimanere, allora, se non proprio il topolino? che partorirà a sua volta, molto probabilmente, altri topolini già visti in passato.

Perché questo significa affermare, come fanno i promotori del riuso della Villa che rinnegano persino parte del progetto Carbonara, che è necessario che il bando identifichi “un soggetto privato che restauri e gestisca la Villa per 30 anni, a fronte di un esborso iniziale di 5 milioni di euro (altri 18 li metterà la mano pubblica) e di un canone annuo di 30mila euro”.

I conti non tornano per niente: già il progetto Carbonara, per la sua realizzazione, comportava cifre di centinaia di milioni di euro, che chiaramente attualmente sono pure lievitate a quote notevolmente superiori.

Se ora Infrastrutture prevede di ospitare all’intero piano terra non meglio precisati “negozi” e “laboratori”, mentre il Belvedere verrebbe trasformato in un ristorante (chissà dove finirà la beauty farm…) e il tutto con quel canone d’affitto e con quegli investimenti, vuol dire che siamo tornati all’eterno spezzatino e al vorrei ma non posso, che si concretizza nel tentativo - per intanto - di far cassa, non diversamente da quanto avviene per l’Autodromo o per alti spazi privatizzati che, però, muovono interessi e risorse ben più elevate.

Questo è il futuro che intravedo e, onestamente, non mi pare un futuro, mi pare il passato che ritorna, ma non quello internazionale dell’ISIA e delle Biennali.

Ed è un futuro che mi pare destinato a non cambiare, se chi vuol promuovere la presenza in Villa di istituzioni culturali e formative non riprende il filo passato tessendolo secondo i bisogni e le potenzialità attuali, che ci sarebbero, nonostante gli ostacoli.

 

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“Itinerari di gioco”, mostra organizzata dall’ISA in Villa reale negli anni ’70.
Dedicata a installazioni per il gioco e per l’infanzia.
In quell’occasione le sale abbandonate della Villa furono ripulite da docenti e studenti.

Gli autori di Vorrei
Michelangelo Casiraghi