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Intervista a Naska, batterista degli Statuto, in occasione del loro concerto al Carroponte e dei trent'anni di carriera della storica band mod torinese, passata da Sanremo a Plaza de la Revolucion senza mai tradirsi

 

Fotografie di Francesca Pontiggia

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li Statuto portano avanti ormai da 30 anni la loro idea di vita e di musica, legata agli ideali mods, alla voglia di essere proletari e al tempo stesso eleganti, di girare sempre a testa alta in una città, Torino, ogni giorno più lontana da quella che era solo pochi decenni fa. In questo 2013 la band torinese ha fatto uscire un nuovo album, intitolato Un giorno di festa, una raccolta di dodici canzoni in cui si segue il verbo ska mischiandolo con il rock e il cantautorato, ottenendo un ottimo risultato, fresco e movimentato, ma anche in grado di far riflettere.

Incuriositi dal disco e dalla storia degli Statuto, abbiamo deciso di intervistarli in occasione della loro data al Carroponte di pochi giorni fa. Il loro batterista Naska si è quindi prestato alle nostre domande. Ecco cosa ci ha raccontato.

Un giorno di festa, il vostro nuovo album, è uscito in occasione del trentennale della vostra carriera. Pochi altri gruppi in Italia sono arrivati a questo traguardo. Quali sono gli elementi che vi hanno fatto durare così a lungo?
Se quando abbiamo iniziato ci avessero detto che trent’anni dopo saremmo stati ancora qui a suonare e a parlare degli Statuto ci sarebbe sembrata un’utopia. Mai e poi mai avremmo immaginato di riuscire a vivere della nostra musica e andare avanti per così tanto tempo. Il segreto per riuscirci è quello di fare sempre le cose con molta umiltà, con molta professionalità, senza montarsi la testa e senza prefiggersi obiettivi di fama, di successo immediato, perché se ti poni questi obiettivi ai primi sacrifici tosti che devi fare ti cadono le braccia e lasci stare. Noi siamo partiti con l’obiettivo di suonare alle feste mod in giro per l’Italia: questo era già il successo, l’apoteosi per un gruppo di ragazzini di sedici anni. Poi siamo arrivati anche sul palco dell’Ariston, che avrebbe potuto essere per molti un punto di arrivo e invece per noi è stato più che altro un punto di lancio, perché non era un palcoscenico o una ribalta a cui noi avevamo mai ambito. Ci è capitata questa occasione, l’abbiamo sfruttata e dopo Sanremo siamo riusciti a sopravvivere grazie alla nostra musica. L’abbiamo affrontata anche con molta incoscienza perché se adesso dovesse capitare di nuovo l’opportunità ci sentiremmo molto più responsabilizzati da questo tipo di esposizione mediatica.

 

 

Nel disco le canzoni parlano di molti temi diversi, ad esempio la title-track affronta in modo particolare il tema della crisi e della disoccupazione. Come è nata quella canzone? Ed è basata su una storia vera?
Non è basata su una storia specifica di qualcuno che conosciamo, però purtroppo negli incontri acustici che abbiamo fatto per presentare il disco, dove ci si può confrontare di più con il pubblico, un paio di persone sono venute a dirci che la storia della canzone è la stessa che stanno vivendo. Una volta trovare il lavoro era difficile per chi usciva dalla scuola, mentre ora si possono trovare ad avere lo stesso problema sia i figli che i padri. Nella canzone cerchiamo di affrontare la cosa in modo leggero, per esorcizzare un problema che invece è inquietante.

Un altro pezzo che parla della nostra società è Colpevole di essere giovane. Secondo voi è così anche nel mondo della musica? E rispetto ai vostri esordi, credete che sia più facile o più difficile farsi strada nel mondo della musica?
Ho notato per esempio che a Sanremo Giovani ci sono spesso musicisti di oltre trent’anni, quindi chi riesce ad avvicinarsi a un certo establishment musicale deve farsi anni ed anni di gavetta. Boyband di ragazzini in Italia non ne ho mai viste, né cose assimilabili. Quindi sì, c’è anche nella musica il problema per i giovani. Bisognerebbe responsabilizzare di più i giovani, in questa società dove i posti di potere sono ormai occupati completamente dai vecchi. Questo è un discorso extra-musicale, ma è valido anche lì. Con più potere ai giovani la prospettiva potrebbe essere davvero più nuova, ma sarà molto difficile, viste anche le ultime vicende.

 

 

Uno dei pezzi migliori del disco è Non sperarci, con le collaborazioni di Ezio Bosso e Alessandra Contini de Il Genio. Come sono nate queste collaborazioni?
Ezio Bosso era il nostro bassista storico, sul primo album dell’88 suonava lui. Poi è diventato un compositore di musica classica contemporanea, ha fatto le colonne sonore di alcuni film di Salvatores. Ora vive a Londra ed è molto acclamato, ha avuto diversi riconoscimenti a livello internazionale. Non Sperarci è un pezzo dell’87, era la b-side del nostro secondo singolo. Allora era arrangiata diversamente, e per questo disco abbiamo pensato di farne un arrangiamento solo orchestrale, quindi abbiamo pensato a lui, che si è prestato volentieri a questa reunion, perché da allora non avevamo più lavorato assieme. Alessandra invece l’abbiamo conosciuta a un nostro concerto in Puglia due/tre anni fa, abbiamo stretto subito amicizia. Le abbiamo proposto di partecipare come ospite protagonista a un nostro videoclip, quello di Troppo lontana. Poi per questa canzone c’era la necessità di avere una voce femminile che facesse da contrappunto a quella di Oskar e abbiamo pensato subito a lei. È una persona splendida, disponibile e professionale, con cui speriamo di collaborare anche in futuro.

Pedalando elegante invece è dedicata a Bradley Wiggins, vincitore dello scorso tour. Lo conoscevate già come ciclista mod o lo avete scoperto anche voi in occasione della sua grande impresa?
Si è sentito parlare molto di lui a livello mediatico quando ha vinto il Tour, quindi abbiamo scoperto la sua attitudine mod in quell’occasione. Purtroppo poi al Giro di quest’anno non è andato bene e quando abbiamo fatto un concerto all’arrivo della tappa di Ivrea lui si era già ritirato 3/4 giorni prima. È stato un peccato non poterlo incontrare, perché tramite il suo manager gli avevamo fatto avere il pezzo e a lui era piaciuto. Inoltre lui suona la chitarra e magari poteva unirsi a noi… teniamo aperta questa possibilità per il futuro.

la fede calcistica univa la classe operaia ai borghesi, quindi definirlo come oppio dei popoli è sbagliato

Il Capitano invece è dedicata a Giorgio Ferrini, la bandiera del Torino. Avete dedicato molte canzoni al Toro e al calcio in generale. Come vi ponete verso chi invece vede il calcio come un moderno oppio dei popoli?
Siamo a favore del calcio come era una volta, quello senza sponsor, non esasperato dalla tv e dai soldi, dai petrolieri e dagli stranieri che arrivano per investire. Si perdono le bandiere, si perdono i simboli, come era appunto Giorgio Ferrini. Il calcio è uno degli sport più popolari, uno sport che è sempre stato trasversale, perché la fede calcistica univa la classe operaia ai borghesi, quindi definirlo come oppio dei popoli è sbagliato. È però chiaro che adesso la strumentalizzazione e i troppi soldi hanno rovinato lo spirito genuino e popolare del calcio, tant’è che una delle nostre bandiere, a cui abbiamo dedicato una canzone, Paolo Pulici, si è rifiutato di andare a fare il commentatore delle partite in tv, perché non era interessato e il suo vero e maggiore interesse era insegnare calcio ai bambini, dove c’è ancora lo spirito e la voglia di fare senza essere contaminati da altri fattori.

Il rapporto con la città di Torino come va invece?
Adesso bene. Se me lo chiedi probabilmente sai che ci sono stati sette anni di esilio, dal 2004 al 2011. Noi eravamo abbastanza esasperati per un embargo nei nostri confronti, siamo stati tagliati fuori da una certa scena musicale torinese, da un cartello che gestiva i concerti e i festival. Noi per dare un segnale forte e per continuare a parlarne abbiamo deciso di non suonare più nei confini di Torino finché le cose non fossero cambiate. Poi nel 2010 c’è stata una riappacificazione ufficiale, abbiamo suonato al Traffic Festival con Paul Weller e gli Specials in una serata a tema mod e da allora le cose sono andate molto bene.

Avete suonato spesso anche all’estero, arrivando fino a Cuba per esempio. Com’è il pubblico estero nei vostri confronti, rispetto anche a quello italiano?
Nello specifico la data di Cuba, nel 97-98, era all’interno di una rassegna, di un meeting dei popoli italiano e cubano. Prima ancora che noi andassimo a suonare la tv cubana aveva proposto dei passaggi televisivi nostri, presi da videocassette che avevamo inviato, quindi c’erano alcuni pezzi che erano già conosciuti. Poi il concerto fu a Plaza de la Revolucion, c’erano centomila persone, un pubblico immenso, quindi è andata benissimo. Recentemente, nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo suonato due volte a Madrid, dove abbiamo avuto un’accoglienza strepitosa dai mods madrileni e dai tifosi del Rayo Vallecano, tant’è che abbiamo dedicato anche una canzone a Madrid nell’ultimo disco, come omaggio, tributo e riconoscimento agli amici che abbiamo lì.

 

 

Qualche anno fa avete collaborato con un altro gruppo storico italiano, i Gang, per una canzone, In fabbrica. Com’è nata la canzone, che riesce a unire le radici popolari dei Gang al vostro suono?
Abbiamo chiesto a Marino Severini, che era già nostro amico da tempo, di darci una canzone per il nostro disco del 2005. Lui ci ha mandato un demo di questa canzone, arrangiato in modo un po’ diverso; noi l’abbiamo rielaborato nel nostro stile. Quando ci capita con Marino condividiamo il palco volentieri, perché è una persona splendida oltre ad essere un musicista straordinario. Quando abbiamo fatto il concerto di ritorno a Torino nel 2011 abbiamo invitato anche lui e abbiamo suonato anche Bandito senza tempo, il pezzo storico dei Gang. È stato un onore suonare i suoi pezzi con lui.

Come non mi sarei mai aspettato di arrivare a trent’anni, ora non mi pongo obiettivi a lunga scadenza

Quindi, come saranno i prossimi trent’anni degli Statuto?
Come non mi sarei mai aspettato di arrivare a trent’anni, ora non mi pongo obiettivi a lunga scadenza, però chi può dirlo. Finché c’è la voglia di divertirsi, la voglia di dire delle cose andremo avanti. Il nostro motore, lo diciamo sempre, è quello di divulgare e far conoscere il verbo del movimento mod in Italia. Quindi senza montarci mai la testa, spero che gli Statuto abbiano ancora vita lunga.

Gli autori di Vorrei
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi

Nasce nel 1984. Studi liceali e poi al Politecnico. La grande passione per la musica di quasi ogni genere (solo roba buona, sia chiaro) lo porta sotto centinaia di palchi e ad aprire un blog. Non contento, inizia a collaborare con un paio di siti (Indie-Eye e Black Milk Mag) fino ad arrivare a Vorrei. Del domani non v'è certezza.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.