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Il dialogo ha come fine la conoscenza. Ma nessuno ha né potrà avere definitivamente, come si suol dire, “la verità in tasca”.

 

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ella mia passata attività di docente, rivolta prevalentemente ad imprenditori (o aspiranti tali) e dirigenti, ho sempre cercato di seguire un metodo basato sul dialogo. La maieutica socratica è stata il mio modello di riferimento.

Sono stato sempre convinto che l’istruzione, l’insegnamento, la formazione non consistono in un trasferimento di nozioni dal docente al discente, ma nella costruzione in comune del sapere. Le migliori scuole nel mondo, dalle materne dell’Emilia Romagna alle università più prestigiose, sono migliori perché capaci di fare questo.

Il vieto concetto, secondo cui l’attenzione verso un docente o un conferenziere cala dopo un certo tempo, ha fondamento solo se la comunicazione è a senso unico. Se s’instaura il dialogo, l’attenzione è senza fine.

Ho anche sempre tenuto presente la differenza tra il dialogo e la discussione/dibattito: il primo ha come obiettivo la crescita della conoscenza, i secondi sono una tenzone - lo dicono le stesse parole - in cui ognuno dei contendenti cerca di far prevalere la propria idea. Nel dialogo il potere è estromesso, nella discussione/dibattito domina incontrastato. Nel dialogo l’apprendimento è un processo continuo, nella discussione/dibattito tende a zero, perché ognuno resta prigioniero dei propri modelli mentali.

Alcune letture di Richard Norman, esperto di strategie d’impresa, di Daniel Kahneman, psicologo premio Nobel per l’economia, e del nostro Piattelli Palmarini, docente di scienze cognitive negli USA, mi hanno fatto comprendere come il dialogo sia essenziale per rompere i modelli mentali, inesorabilmente tendenti a incrostarsi in preconcetti e luoghi comuni, che lavorano incessantemente per irretire il nostro pensiero,

Che poi instaurare il dialogo sia una cosa facile, è un altro discorso.

Lo si vede fin dai dialoghi socratici: l’incombere del filosofo sugli allievi è rilevante, tanto da indurre a chiedersi se veramente Socrate era, come egli sosteneva, una levatrice che faceva nascere il sapere dalla mente degli allievi, o li usava come sparring partner per sviluppare il proprio pensiero.

Il docente spesso si aggrappa alle sue conoscenze - magari tradotte in slide - per essere sicuro di svolgere fino in fondo il suo compito. Quanto più si rifugia in questo fortino mentale, tanto più il dialogo tende a morire e l’apprendimento langue.

Un grande insegnamento mi è venuto da un mio professore di latino e greco (anni 1946-47, liceo Giulio Cesare di Roma, Professor Marani), che impiegava tre quarti delle sue due ore a farci conversare su tutto, soprattuto sull’attualità, sia pure tenendo in mano un sottile filo rosso sulle materie d’insegnamento. Solo l’ultimo quarto del tempo a disposizione era dedicato direttamente alla lettura e commento dei classici, con l’ordine categorico di studiarli poi bene per conto proprio e di imparare rigorosamente a memoria lirici greci o poesie di Orazio o Catullo. Ho sperimentato questo metodo, e ho visto che funziona.

Con questo retroterra sostanzialmente razionale mi sono trovato a leggere un libro sulle religioni (cedendo a una tentazione frequente di letture per lo più rimosse) dal titolo: L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, di Raimon Panikkar. Jaka Book, 2001.

20120125-panikkarPanikkar era (nella foto, è morto nel 2010) un personaggio complesso: di padre indiano e madre spagnola, laureato in chimica, filosofia e teologia, conoscitore sia delle culture occidentali che delle orientali, delle religioni buddista, indu, cristiana (è stato ordinato sacerdote), scientifica e umanistica, ha insegnato nelle maggiori università del mondo. Occupandosi di religione, sostiene che “le cosiddette religioni non hanno il monopolio sulla religione” (p.29).

La sua idea del dialogo va al di là e al di sopra di una concezione razionale. Per lui il dialogo non è un processo semplicemente a due, ma è triplice. E inoltre non è solo “orizzontale”, ma anche verticale, profondo.

Triplice: perché non basta dialogare con l’altro, ma occorre anche dialogare con l’universo di cui facciamo parte. “Entrambi i dialoganti sono trascesi da un terzo, che lo si chiami Dio, Verità, Logos, Karman, provvidenza, compassione o in qualunque altro modo” (p.73).

Profondo: perché per poter dialogare con l’altro e con l’universo, dobbiamo prima di tutto dialogare con noi stessi (come non ripensare alla frase posta all’ingresso dell’Oracolo di Delfi, dedicato ad Apollo, il dio tramite tra Giove e gli uomini: “Conosci te stesso, e conoscerai l’universo”?) . E non potremo dialogare con l’altro se non cerchiamo di comprenderlo a fondo. Lo stesso vale per l’universo, con il quale il dialogo, almeno per i credenti, prende la forma della preghiera.

Il dialogo si colloca così a un livello anche soprannaturale, come “avventura cosmica”, a cui l’essere umano può partecipare attraverso l’amore che ne costituisce il legame. Il comandamento fondamentale enunciato da Gesù Cristo, in risposta alla provocazione dei farisei, interpreta perfettamente questa concezione: “Ama il signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. E amerai il tuo prossimo come te stesso” (Matteo, 22, 38-39). E a chi gli chiede chi sia il prossimo, risponde: “Colui che ti usa compassione” (Luca, 12, 25-37), Compassione ha la stessa radice delle più moderne, ma forse meno intense, “simpatia” o “empatia”.

Quale rapporto può esserci tra il dialogo nella mia concezione terrena, laica, e il dialogo nella concezione cosmica di Panikkar? Come ho detto prima, dialogare non è una cosa facile, anche nella semplice ricerca di una verità filosofica, razionale. Non è facile perché è continuamente insidiato dalla spinta, consapevole o no, a difendere i propri interessi contro quelli altrui, a seguire la logica del potere, della forza. Ma soprattutto, dal timore di dover abbandonare la propria visione del mondo, di esporre in pubblico i propri panni (magari un po’ sporchi), di perdere i propri punti di riferimento consolidati, di essere costretti a navigare in mare aperto.

Ed è proprio questo ultimo aspetto che dimostra come il dialogo non possa essere limitato alla ricerca della conoscenza razionale.

Panikkar lo dice chiaramente: “Il dialogo avviene tra persone, e non tra idee” (p.43). E quanto al timore di mettere a repentaglio le proprie convinzioni, dice: “Il dialogo rappresenta senza dubbio un rischio reale. Potremmo perdere il nostro punto di appoggio, potremmo perfino capovolgere la nostra posizione. La conversione è possibile ma anche la confusione. E’ in gioco tutto” (p.30).

Il dialogo ha come fine la conoscenza. Ma nessuno ha né potrà avere definitivamente, come si suol dire, “la verità in tasca”. Questa è una delle tesi fondamentali di Panikkar (che peraltro respinge l’accusa di relativismo). L’apertura mentale di Panikkar è, a mio parere, espressa in questa frase: “La verità non può essere ridotta né all’unità né alla molteplicità... La verità è sempre relazione, comunicazione, e non ammette né singolarità né pluralità”. (p.31) Coerentemente con questa enunciazione dice che “Il dialogo è continuo. Rimane sempre inconcluso e, tuttavia, ogni vero dialogo ha in sé una genuina completezza - un fine in sé” (p.72). Anzi: “Il dialogo rappresenta un fine in sé” (p.71).

Quanto all’uomo, esso non va considerato come un individuo scisso da ciò che lo circonda, una monade, ma “è una persona, un fascio di relazioni: E le relazioni umane richiedono il dialogo” (p.22).

Nel suo anticonformismo, Panikkar dice la sua anche sul rapporto tra religione e politica, affermando che “La religione non può essere separata dalla politica. E ciò non riguarda solo le istituzioni religiose, che sono necessariamente strutture politiche, ma la religione stessa nella sua dimensione antropologica” (p.46).

Tornando all’inizio, cioè al mio più modesto discorso sul dialogo applicato al mondo delle imprese, dirò a mia volta qualcosa che va contro l’opinione comune: gestire una impresa non è un compito meramente economico, ma comporta necessariamente anche un ruolo politico ed etico.

La lezione di Panikkar ha un valore universale. Coinvolge tutti e ovunque, obbligandoci in particolare, nei purtroppo ristrettissimi limiti delle nostre possibilità, alla ricerca di chi ha perso i contatti e naviga nella solitudine.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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