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el suo ultimo lavoro Diego Colombo titola con un caso divenuto simbolo: le magliette a strisce, in svendita nei grandi magazzini in un periodo di recessione, in cui la crisi economica e i licenziamenti obbligavano al risparmio, divennero icona dell'impegno civile di una generazione figlia della Resistenza che scese in piazza rischiando il piombo per difendere la Democrazia.

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Odio gli indifferenti, perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani.
Antonio Gramsci

All'indomani delle elezioni del '58, il quadro politico italiano era complesso e influenzato dalla spaccatura interna alla Democrazia Cristiana: da una parte la proposta di un governo di centro sinistra nelle intenzioni di Fanfani e Moro, dall'altra l'anima destra della Dc sostenuta da scelbiani, Andreotti, dalla Coldiretti e dalla Chiesa stessa che il18 maggio su L'osservatore romano espresse la propria ferma opposizione alla collaborazione tra Dc e Psi. Se da un lato la politica di avvicinamento tra i partiti di centro e quelli di sinistra venne premiata dall'elettorato con il successo delle liste di Psi e Dc, d'altro canto, i voti della destra estrema, monarchici ed Msi, confluirono nelle correnti di destra della Dc, rinforzando il movimento contrario all'apparentamento con le sinistre.
La crisi colpì il governo di Antonio Segni, appoggiato da destra, che il 24 Febbraio rassegnò le dimissioni. Il 20 Marzo, il Presidente della Repubblica Gronchi affidò a Fernando Tambroni l'incarico di formare il nuovo governo, che, avendo ottenuto la fiducia dalla destra estrema, suscitò le proteste della sinistra democristiana, che vedeva nell'appoggio dato dal voto alla Camera al governo Tambroni "un significato politico in contrasto con le intenzioni, le finalità e la obiettiva funzione politica della Dc nella vita nazionale". Il presidente Gronchi affidò un incarico esplorativo a Leone, poi a Segni e a Piccioni per verificare se esistessero i presupposti per un governo di centrosinistra. Fallito anche questo tentativo, Gronchi, con un iniziativa personale, quindi senza consultare i gruppi parlamentari, restituì l'incarico a Tambroni.
Il 29 aprile Tambroni ottenne la fiducia del Parlamento con i voti dei missini e dei monarchici per un governo che doveva rimanere in vita fino al 31 ottobre per garantire l'approvazione del bilancio estivo e limitarsi all'ordinaria amministrazione.
L'Italia, da poco uscita dell'incubo nero del nazionalsocialismo, respirava aria di rinnovata minaccia: solo un pazzo non avrebbe letto in quello strano governo che affiancava Dc ed Msi una possibile riedizione del pericolo fascista.
Da qui comincia il racconto di Diego Colombo che nelle sue pagine fa rivivere un'Italia caldissima: la preoccupazione che con una compattezza di forze e di intenti si tramutò in ferma opposizione alla minaccia, esaurendosi poi con l'esaurirsi della minaccia stessa. Ci piace riproporre stralci del bel lavoro di Colombo: parole che, intense e semplici al medesimo tempo, si tramutano immediatamente in immagini per raccontare fatti e passioni.
A cominciare dal clima di turbamento che, in una Genova medaglia d'oro alla Resistenza, si respirava ovunque all'indomani della fiducia al governo: studenti, operai, professori universitari. Nel primo stralcio il vissuto di Eugenio Togliatti di fronte alla lapide ai caduti della Resistenza in quel 25 giugno di protesta contro il sì di Tambroni al congresso dell'Msi a Genova.

Rossi e Neri. La casa delle torture
Il professor Togliatti uscì dall'università alle dieci in punto. Camminava in silenzio, seguito a pochi passi da trecento docenti, ricercatori e studenti dei corsi di medicina,
fisica e scienze. L'anziano preside aveva dato l'ordine di sospendere gli esami, quel sabato mattina, per consentire a chi lo volesse di raggiungere la Casa dello studente.
"Per la commemorazione dei martiri partigiani" spiegò.
Non era comunista, Eugenio Togliatti. A differenza del fratello Palmiro che del Pci era il segretario generale, lui non s'interessava di politica. Preferiva di gran lunga occuparsi di matematica. Per il resto, a chi insisteva a volergli a tutti costi appiccicare addosso un'etichetta, rispondeva: "Sono un liberale, un liberale vecchio stampo". E sorrideva.
Quel giorno, però, a ricordare gli antifascisti massacrati dai nazisti volle esserci anche lui. Non poteva mancare, il professor Togliatti. Durante gli anni della dittatura fascista prima e dell'occupazione tedesca poi, nel convitto di corso Gastaldi erano finite tante persone che conosceva. Persone perbene, diceva. Operai della San Giorgio, dell'Ansaldo, della Siac e delle altre fabbriche del Ponente. Comunisti, socialisti, cattolici, liberali. Intellettuali, insegnanti, impiegati, commercianti. Tutti torturati dagli uomini in divisa del prefetto fascista Carlo Emanuele Basile e dalle Ss, prima di essere deportati nei lager di Dachau, Gusen, Mauthausen. Milleseicento uomini, molti dei quali non tornarono più, uccisi dalla fame, dalle malattie, dai forni crematori. E vivo era ancora il ricordo delle spedizioni punitive delle camicie nere alla Benedicta, in Val Trebbia, a Torriglia, sul Turchino, a Cichero, Pannesi, Sopralacroce. Piccoli paesi, i cui abitanti avevano sofferto le scorribande del "boia" Basile e i massacri, rimasti impuniti, dei suoi camerati. O come le quattro case di Barbagelata, lassù sull'Appennino, nel Comune di Lorsica, che le milizie del Duce avevano dato alle fiamme, non una ma due volte. Per far capire a quella gente chi comandava e che stare dalla parte dei partigiani della brigata "Matteotti" poteva costare caro. Costava caro.
Non amava i grandi discorsi, il professor Togliatti. Si fermò qualche minuto davanti alla lapide dei caduti, vi depose un mazzo di fiori che gli consegnò uno studente e, mentre stava per allontanarsi, gli uscirono, quasi di getto, poche parole.
"Dobbiamo ricordare chi è morto per la nostra libertà. Ma non possiamo rinunciare a difenderla contro coloro che, dopo quindici anni, ce la vogliono togliere di nuovo. Altrimenti il sacrificio di chi è passato per queste camere di tortura è stato inutile".
Gli occhi di tutti si fissarono sull'anziano preside. Lui restò lì, immobile per qualche istante, con lo sguardo rivolto a terra e un pensiero fisso in testa: "Tornano i fascisti".
Poi, piano, alzò gli occhi, si guardò attorno, vide i visi contratti di chi gli stava accanto e sorrise. Quasi per rassicurarli.
"Andiamo in piazza Banchi, adesso. Ci aspettano" disse con un filo di voce. E per primo uscì dalla Casa dello studente. In silenzio, come c'era entrato.

Quel 25 Giugno la protesta aveva un significato più ampio della sola opposizione al Congresso missino, simbolo del pericolo dell'ingerenza della politica destrorsa nel governo Tambroni. Il pretesto era però significativo: la scelta della sede venne ritenuta provocatoria per più motivi: innanzi tutto la presidenza del Congresso sarebbe stata affidata a Carlo Emanuele Basile, prefetto della città durante la Repubblica Sociale Italiana, responsabile di arresti e torture a partigiani; inoltre il teatro Margherita sorge proprio a pochi metri dal Sacrario dei Caduti Partigiani. La città, medaglia d'oro al valore per la Resistenza, reagì con una forza che arrivava direttamente dal dolore delle perdite subite durante il periodo fascista - 2400 morti - e dei 1600 deportati.

Il "boia" Basile
Loro erano già lì. Mille, millecinquecento, forse addirittura duemila. Tanti, comunque, e arrabbiati. Arrivavano dal porto, molti erano operai, molti erano giovani, molti indossavano magliette di cotone, a strisce orizzontali o verticali. Chi bianche e rosse, chi bianche e blu. Riempirono piazza Banchi con le bandiere della Cgil, gli striscioni delle federazioni giovanili comunista, socialista, socialdemocratica, repubblicana, radicale, lo stendardo del centro ebraico, quello del circolo Gobetti, quell'altro del periodico universitario "Il Quarantacinque", quell'altro ancora dell'Azione cattolica lavoratori italiani, quello, infine, degli intellettuali della Società di Cultura. E poi le canzoni partigiane, gli slogan, i tamburi, i fischietti...
Ce l'avevano col governo del democristiano Fernando Tambroni, che due mesi prima aveva ottenuto la fiducia in Parlamento col voto determinante dei missini, i soli a non aver approvato nel 1948 la Costituzione. Ma ce l'avevano anche col ministro degli Interni, l'ex partigiano cattolico Giuseppe Spataro, che aveva autorizzato gli ex fascisti a tenere dal 2 al 4 luglio il loro sesto congresso nazionale proprio a Genova, la città della Resistenza popolare, decorata con la medaglia d'oro al valor militare. E ce l'avevano con il segretario del Movimento sociale, l'ex gerarca Arturo Michelini, che aveva deciso di far svolgere i lavori congressuali al teatro Margherita, a pochi passi dal sacrario dei caduti, aveva proposto alla presidenza niente meno che il "boia" Carlo Emanuele Basile e invitato il principe Valerio Borghese, ex comandante della Decima Mas, il fiore all'occhiello della flotta del Duce. Una provocazione, troppe provocazioni. Inaccettabili per gli antifascisti, che sollecitarono la popolazione a far sentire la propria rabbia.


Il corteo da Piazza Banchi si sarebbe dovuto spostare a Piazza De Ferrari ma le forze dell'ordine lo impedirono causando forti scontri. Fu l'inizio di un'estate caldissima in cui si susseguirono scontri in numerose piazze d'Italia, a cominciare da quelli, durissimi, di Genova durante lo sciopero Cgil del 30 giugno, sciopero generale a cui non parteciparono Cisl e Uil e che letteralmente bloccò la città. In centomila in Piazza della Vittoria per una manifestazione svoltasi, fin qui, in modo pacifico, ma che terminerà con lacrimogeni e 83 feriti.

I centomila
Cominciarono le donne. In migliaia la mattina del 30 non si presentarono al lavoro, si diedero appuntamento in centro e s'incamminarono, una a braccetto dell'altra, verso il sacrario dei caduti. Madri mogli sorelle, giovani adulte anziane, casalinghe operaie impiegate, tutte avevano in mano un mazzetto di fiori da portare ai martiri partigiani e le fotografie dei deportati in Germania, dei torturati della Casa dello studente, di padri, mariti, fratelli e figli, fucilati dai nazifascisti.
Per due ore sfilarono, così, in silenzio, davanti alla lapide, lasciando lì, sotto il Ponte Monumentale, rose, garofani, margherite... Senza comizi, senza discorsi ufficiali, senza cerimonie. Un passaggio veloce, il loro. I fiori deposti alla svelta, il segno della croce, una preghiera recitata sottovoce e via, verso gli autobus. Tornavano a casa, le donne. Il pomeriggio non sarebbero rientrate in fabbrica, alle due iniziava lo sciopero generale, bisognava sbrigarsi.
I pullman erano già pieni di gente, tutti avevano fretta. Non c'era tempo da perdere, un passaggio a casa per il pranzo e subito di nuovo in centro per la manifestazione. Lo sciopero avrebbe bloccato la città per cinque ore. Tutta, senza eccezioni. Dalle grandi fabbriche ai piccoli negozi sarebbe stata la serrata. Totale.
Alle due e mezza piazza della Nunziata era già paralizzata. Sessantamila, settantamila, ottantamila persone. Arrivavano da ogni angolo della città, dai vicoli del porto, dalla cintura dei quartieri industriali, da Sampierdarena, Voltri, Conegliano, Bolzaneto, Sestri Ponente. Alle tre erano centomila.
Ci volle mezz'ora perché il corteo si mettesse in moto. Lento, con in testa i gonfaloni dei Comuni di Novara, Reggio Emilia, Sestri Levante, della Provincia di La Spezia. E il medagliere della Resistenza di Cuneo, i sindaci con la fascia tricolore ai fianchi, il primo presidente onorario della Corte di Cassazione Domenico Riccardo Peretti Griva, con accanto la vedova del generale Perrotti, fucilato dai nazisti al Martinetto di Torino. E i comandanti partigiani, i sindacalisti, i dirigenti dei partiti, tra cui tanti cattolici e democristiani antifascisti, molti militanti della Cisl e della Uil, anche se le due organizzazioni dei lavoratori non avevano aderito allo sciopero. E i cartelli con le scritte "No ai nostri carnefici", "Morte alle camicie nere", "Via i criminali fascisti da Genova".
I centomila risalirono via Garibaldi, percorsero via XXV Aprile, sfociarono in piazza De Ferrari, ridiscesero in via XX Settembre, arrivarono in piazza della Vittoria.
Il segretario della Camera del lavoro Bruno Pigna salì sull'arco, aiutato dai suoi vice Fulvio Cerofolini e Giuseppe Sulas, impugnò il microfono e attaccò: "Genova, medaglia d'oro della Resistenza non può, non deve tollerare che il fascismo ritorni a sbandierare le sue adunate e abbia scelto proprio per questo la nostra città. Tambroni ascolti le nostre proteste e vieti il congresso del Msi".
La folla applaudì. A lungo. Pigna prese fiato, poi ricominciò gridando forte per farsi sentire in tutta la piazza. Parlò dei partigiani uccisi, della lotta di Liberazione, dei crimini delle camicie nere, delle deportazioni degli operai in Germania. E concluse tra uno scroscio d'applausi: "Adesso torniamo tutti a casa, seguiremo da lì lo svolgersi degli eventi".
Così com'erano arrivati, i centomila lasciarono piazza della Vittoria, risalirono verso via XX Settembre, arrivarono davanti al teatro Margherita, presidiato dai carabinieri. Qualcuno fischiò, qualche altro intonò canzoni partigiane, la maggior parte si spostò sotto i portici del Ponte Monumentale, chi a chiacchierare, chi a bere un caffè, chi semplicemente alla ricerca d'un po' d'ombra.
Dieci minuti dopo, in piazza De Ferrari arrivarono gli ultimi manifestanti. Erano in tanti, i più giovani, quelli con la maglietta a strisce. Si sedettero sul muretto della fontana, parlavano, cantavano Bella ciao, ridevano.
"Morte al fascismo" urlavano i più turbolenti, agitando le bandiere rosse.
"Via i fascisti da Genova" gridavano altri.
I celerini erano schierati a poche decine di metri, davanti al palazzo della Navigazione Italia. Stavano in gruppo, dietro le camionette, e avevano l'elmetto abbassato.

Avevano l'elmetto abbassato perchè si preparava lo scontro e loro, le forze dell'ordine, probabilmente lo sapevano. E lo scontro fu durissimo. Poi nella notte decisiva tra il primo e il 2 luglio, venti trattori erano pronti a marciare sul teatro dove si sarebbe dovuto tenere il congresso missino, infine proibito dal Prefetto e spostato a Nervi a poche ore dal suo inizio.
La protesta da Genova, sotto l'egida dello slogan pertiniano "Difendiamo la Resistenza" investì l'Italia tutta. Tra il 4 e l'8 luglio 12 morti da Licata in Sicilia, passando per la capitale, teatro di 600 arresti in una sola notte, sassaiole e cariche a cavallo, fino agli scontri di Reggio Emilia dove una manifestazione contro il Governo Tambroni si trasformò in una carneficina: in piazza cinque giovani ammazzati dai mitra della polizia e un magnetofono che riprese 27 minuti di scontri, ordini della polizia, paura e fuggi fuggi.

Quaranta minuti di sangue. Le pallottole gialle
Paolo s'alzò presto. Voleva sbrigarsi. Da quando non andava più a scuola, doveva aiutare la mamma nelle faccende di casa. Piccoli lavoretti ma che gli toglievano tempo per andare con gli amici in centro, a rincorrersi nei giardini, a tirare i sassi ai pesci rossi nella fontana davanti al teatro Municipale, a sbirciare le locandine del cinema Boiardo. Giochi da ragazzini, di undici, dodici anni.
Quella mattina, poi, di cose da fare Paolo ne aveva più del solito. C'era da mettere a posto un bel po' di vestiti in una scatola, portar fuori il bucato, preparare la tavola... E, in più, doveva anche andar giù un salto dal droghiere, in via Roma.
"Prima fai e prima sei libero" gli aveva detto il padre.
Paolo uscì di casa che non era ancora l'una. Di corsa, come sempre. Passò davanti alla sede del Msi e si fermò a dare un'occhiata. Loro erano già lì, in quaranta, forse cinquanta, con le uniformi grigioverdi. Li aveva notati un paio di giorni prima, andavano avanti e indietro, chiacchieravano, qualche volta li aveva anche visti scherzare tra di loro.
Paolo s'avvicinò a un celerino che stava seduto su un muretto. Aveva le stellette sul bavero della camicia e il mitra appoggiato alle ginocchia. Puliva la canna con uno straccio, lentamente.
"Quanti colpi ha?" gli chiese.
Il poliziotto non gli rispose nemmeno. Con un movimento veloce tolse il caricatore e gli mostrò le pallottole. Erano tante, gialle, con la punta più chiara.
"Hai dei bossoli vuoti?".
"No".
Paolo fece per andarsene ma quello lo afferrò per un braccio.
"Se passi più tardi, magari te ne do qualcuno" disse ridendo.
Il ragazzino fece cenno di sì con la testa e corse via. Era tardi. I suoi amici non l'avrebbero aspettato, doveva muoversi. Via Sessi era piena di poliziotti, chi armato di fucile, chi di mitra, chi di pistola. Bloccavano la strada all'altezza della Banca d'Italia e della Posta, nessuno poteva passare.
Paolo passò, di soppiatto. Scese verso piazza della Libertà, mentre due pullman scaricavano un centinaio di lavoratori che cantavano Bella ciao, e un altoparlante, fissato in qualche modo sul tettuccio di una macchina, invitava i manifestanti a stare calmi e a evitare assembramenti.
Dappertutto c'erano giovani con la maglietta a strisce. Arrivavano dai piccoli centri della provincia, sventolavano le bandiere della Cgil, in molti avevano al collo un fazzoletto rosso. Erano lì per partecipare allo sciopero generale contro il governo Tambroni, in programma da mezzogiorno a mezzanotte in tutta la provincia. L'aveva proclamato la Camera del lavoro, da sola. Cisl e Uil si erano dissociate e fin dal mattino una loro auto aveva percorso la città in lungo e in largo per invitare i propri iscritti a non parteciparvi.
Alle due la piazza era già piena. C'era gente ovunque. Lavoratori, donne, studenti, anziani, Comunisti, socialisti, radicali, ex partigiani. Almeno ventimila persone.
"Scioperate compatti ma evitate assembramenti" gracchiava un altoparlante.
Più in là s'erano assiepati i celerini. Tanti, con il mitra, l'elmetto, i lacrimogeni, gli occhiali antigas, le camionette, le autoblindo e gli idranti. Erano arrivati all'alba da Parma e da Mantova, erano i rinforzi che aveva chiesto il prefetto Domenico Caruso. Per evitare disordini, aveva scritto al ministro degli Interni.
Coi celerini c'era anche il vicequestore Giulio Cafari Panico. Si muoveva come un forsennato, urlava, dava ordini, incitava i suoi a stare sul chi va là. Era nervoso. Niente cortei, erano state le disposizioni del questore Edoardo Greco. E lui doveva dimostrarsi all'altezza dell'incarico, comandava la piazza, non poteva sbagliare. Agitato era anche il maggiore dei carabinieri Gian Maria Giudici, che aveva disposto i suoi uomini a poca distanza dai celerini, pronti a dar man forte ai poliziotti.
Alle quattro era chiaro che i seicento posti della sala Verdi non sarebbero bastati. Fuori dal ridotto del teatro Ariosto la folla si accalcava per entrare, mentre le forze dell'ordine si schierarono tutt'intorno. Fu come un segnale. I negozi abbassarono in tutta fretta le saracinesche, le vetrine furono svuotate degli oggetti di valore, il traffico cessò di colpo. Piazza della Libertà era una grande macchia rossa di manifestanti.
Un gruppo di sindacalisti chiese a Cafari di poter installare degli altoparlanti all'esterno della sala Verdi.
"No" fu la risposta del vicequestore.
"Ma serviranno a tener calma la gente".
"Non sono autorizzati assembramenti".
"Ma così si rischiano inutili incidenti".
"Gli ordini sono ordini" tagliò corto Cafari.
Mancava ancora un'ora al comizio del segretario della Camera del lavoro Franco Iotti ma la tensione era già alta. Da una parte e dall'altra della piazza. C'era anche Paolo tra le migliaia di dimostranti che premevano contro l'ingresso del teatro. Non aveva mai visto una manifestazione, ventimila persone, poi... tutte insieme... quando mai le avrebbe riviste... no, non poteva, certo, perdersi lo spettacolo, pensava mentre si muoveva eccitato tra la folla.
I celerini erano a poche decine di metri, coi moschetti in mano, pronti alla carica. Paolo li vide ma non ci fece caso. Lo interessavano di più gli operai con le bandiere del sindacato e del Pci, i ragazzi che cantavano le canzoni dei partigiani, le ...
Ci fu un scoppio e la folla ammutolì di colpo. Una decina di giovani accesero tutti insieme i motori e attraversarono la piazza con vespe e lambrette, sulle quali avevano attaccato cartelli con scritto "Via Tambroni", "Abbasso i fascisti", "Viva la Resistenza", "Vogliamo il rispetto della Costituzione". I manifestanti cominciarono ad applaudire i motociclisti, mentre dall'altro lato della piazza il maggiore Giudici si avvicinò ai suoi uomini. Disse qualcosa e quelli impugnarono i moschetti.
Paolo uscì dalla ressa dei dimostranti e si diresse verso i portici della galleria San Rocco. Aveva visto abbastanza per oggi, era sudato, voleva starsene per un po' all'ombra, a riposarsi.
C'era il sole giovedì 7 luglio a Reggio Emilia. E faceva caldo, molto caldo.


Le pagine di "L'estate delle magliette a strisce" colpiscono ancor di più quando oltre alla storia di tutti, fanno parlare quella dei singoli: ragazzi normali con in mente "macchina, mestiere e moglie", ma cresciuti a pane e cultura resistenzialista. Giovani che lungi dal mettere in discussione tutto per il gusto un po' adolescenziale dell'opposizione, si organizzarono in una "protesta vera", nata da un problema reale che minacciava la democrazia e l'impegno dei padri della Resistenza. Un movimento che si esaurì, come è giusto che accada quando le proteste sono motivate, con la caduta di Tambroni e del suo Governo il 19 luglio. Uno di questi giovani era Farioli.

Il compagno del "bollino"
"Assassini, vigliacchi".
Urlava e piangeva, Marino Serri. S'era affacciato oltre l'angolo di via Sessi, dove s'era nascosto con un gruppo di manifestanti per sfuggire alla cariche della polizia, e l'aveva visto a terra in una pozza di sangue. Non conosceva Farioli, forse non l'aveva neppure mai visto in vita sua, ma era un compagno, era ferito, gli avevano sparato. Era morto sotto i suoi occhi e lui non riusciva a trattenere la rabbia.
"Assassini" gridò un'altra volta, mentre scendeva i tre gradini della chiesa di San Francesco. Aveva le lacrime agli occhi e un mitra puntato contro.
Non piangeva spesso, Marino. Non l'aveva mai fatto, neppure da bambino. Non poteva permetterselo, non se l'era mai permesso. Scorza dura, la sua. In casa erano sette fratelli, tutti piccoli. Conosceva la miseria, aveva imparato a conoscerla fin troppo presto. Viveva in una casa poverissima a Casina, sull'Appennino, famiglia di mezzadri, soldi non ce n'erano ed era già un miracolo riuscire a mettersi a tavola una volta al giorno.
D'andare a scuola, non se ne parlava nemmeno. A sei anni pascolava le pecore, toglieva i sassi dai campi, zappava, falciava l'erba. Dieci, dodici ore al giorno, col padre e coi fratelli più grandi. Poi era arrivata la guerra, la divisa da bersagliere, il fronte jugoslavo, la fuga a casa dopo l'Armistizio, con addosso i segni della malaria. Ancora vita grama, in montagna, da partigiano, lui che i fascisti proprio non riusciva a sopportarli e aveva cominciato a farci a pugni a diciassette anni. E lì, sulle montagne dietro casa, di morti ne aveva visti tanti, compagni e camerati, i corpi straziati dalle bombe e martoriati dalle pallottole, quei corpi violati che non riusciva più a dimenticare.
Neppure dopo il 25 aprile le cose gli erano andate bene. S'era sposato con una ragazza delle sue parti, Clotilde, che aveva conosciuto in chiesa ai vespri, erano nati Otello e Oldano, s'era costruito una casetta di pietra a Rondinara, faceva il magazziniere in una fabbrica di compensati a Scandiano. S'era anche iscritto al Pci, era diventato un attivista, per i colleghi era "quello del bollino", il compagno che raccoglieva le quote per la tessera del partito, le sottoscrizioni per le cooperative, i contributi per la casa del popolo.
"Se vi decidete a fare qualcosa per i giovani, io sono pronto a metterci il mio lavoro gratis" ripeteva nelle riunioni in sezione. E gratis aveva sempre lavorato, per il partito, per la casa del popolo, per il sindacato, anche se faceva fatica ad arrivare alla fine del mese con il suo stipendio.
Vita dura, ancora, sempre. S'era messo anche il cuore a dargli qualche grattacapo. Ogni tanto impazziva, lui doveva starsene a letto per settimane e i soldi cominciavano a mancare. Toccava allora a Clotilde pensare a tutti, di giorno nell'acqua putrida delle risaie per poche lire, la sera ad occuparsi del marito, dei figli e della casa.
"Vigliacchi" urlò ancora una volta Serri, mentre avanzava verso il poliziotto che dall'altra parte di piazza Cavour lo teneva sotto tiro col mitra.
"Bisogna dare l'ultimo colpo al fascismo, altrimenti che ne sarà dei nostri figli?" aveva detto alla moglie prima di uscire di casa per andare alla manifestazione.
Lei l'aveva guardato ma non aveva detto niente. Non serviva dirgli di lasciar perdere, di pensare un po' di più alla sua salute, di non stancarsi. In piazza della Libertà ci sarebbe andato comunque, era un militante, aveva degli impegni, doveva andarci.
"Se tutti facessero così, dove andremo a finire" disse, quasi avesse letto nei pensieri di Clotilde.
Adesso era lì. Aveva quarant'anni, Serri, un cane di nome Flok che portava a caccia d'estate, un piccolo orto davanti a casa e una passione: il giovedì sera e la domenica pomeriggio le passava in cooperativa coi figli e i compagni di partito. Non parlavano di politica, giocavano alle busche.
Fece un passo, poi un altro, poi un altro ancora. Il poliziotto era inginocchiato davanti a lui, trenta, forse quaranta metri più in là. L'aveva ancora, il mitra, puntato ad altezza d'uomo.
Serri aprì appena le labbra ma non disse niente, non fece in tempo. Andò giù un istante dopo la raffica, senza un lamento, a pochi passi da Farioli, crivellato di colpi.
"Sembra un colabrodo" si disperava un giovane operaio, il primo che aveva tentato di soccorrerlo.

I fatti del luglio 1960 determinano le dimissioni di Tambroni e il nuovo Governo di Fanfani, un monocolore democristiano definito da Moro governo delle "convergenze parallele", ebbe l'appoggio di liberali, repubblicani e socialdemocratici.
Ma questo non può essere il balsamo che allevi il dolore della perdita di tutte quelle vite: "Infelice è la terrra che ha ancora bisogno di eroi" diceva Galileo, il sangue non può essere un mezzo, nemmeno quando il fine è la salvaguardia di un diritto acquisito come la democrazia. Arrivare a rinunciare alla propria vita per difendere un diritto acquisito significa aver toccato il fondo, e in questo nostro periodo vale davvero la pena di rifletterci ancora.

L'estate delle magliette a strisce si può trovare su www.sedizioni.it o alla libreria Novantadue di Arcore (Via Gilera 110).

Gli stralci presentati sono pubblicati per gentile concessione dell'autore e dell'editore.
"L'estate delle magliette a strisce" di Diego Colombo. Sedizioni editore, Milano 2008.

Gli autori di Vorrei
Manuela Montalbano