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Riceviamo e pubblichiamo.

Ho letto con curiosità gli interventi sul '68 monzese nella scuola e nelle fabbriche, che ho vissuto da studente milanese pendolare.
A Monza la prima scuola ad occupare - nel disinteresse generale delle altre - fu l'Istituto d’arte, che frequentavo. 
Non rivendico un primato, cerco di far capire, di seguito, come nel ’68 ci fosse un’articolazione di situazioni più ampia di quelle che cataloghiamo sommariamente e, di conseguenza, come ci fossero “diversi sbocchi possibili”.
Su quest’iniziativa dell’ISA influì la composizione dei suoi iscritti: metà affluiva da Milano per trovare un’alternativa alla formazione artistica soporifera dei licei artistici; l’altra metà proveniva dall’area cittadina per sperimentare l’occasione di una formazione in ambito artistico altrimenti assente, e da quella circostante, nella quale artigiani del mobile e dell’arredo cercavano un imprimatur culturale per i propri figli. 
Il mix che ne uscì fu un curioso carico di domanda d’innovazione e di concretezza.
Anzitutto, la contestazione non vi aveva trovato eco per ragioni prevalentemente ideologiche, ma concrete e culturali. 
Sistemati com’eravamo in un'ala di Villa reale nella quale non c'erano neppure termosifoni, il primo obiettivo fu quello di ottenere spazi più decenti. 
Riguardo la didattica, la dialettica aspra ma fruttuosa avviata con i docenti (ma anche dai docenti) verteva tutta sulla esigenza di innovarla, visto che era ancora attestata sull’insegnamento artigianale o accademico, proprio mentre si andava sempre più affermando, in area lombarda, l’italian style che ora tutti ci invidiano e le stesse cristallizzate Triennali milanesi e Biennali veneziane venivano contestate.

Il tutto, mi perdoni Rovelli, avvenne senza mai arrivare alla generalizzazione caricaturale assai diffusa che descrive il ’68 come agente della deresponsabilizzazione personale, della ricerca della scuola facile. Laddove ciò è successo, più che altro all’università, non credo sia stato per causa prevalente dei giovani allievi di allora: nessuno mandava, come Mao, i docenti che sostenevano le proprie ragioni a lavorar in massa nelle campagne e gli spari degli anni di piombo erano ben lontani dal venire. 
Nella gran parte delle scuole e nel ’68 più tardo e universitario furono spesso i docenti più neghittosi delle generazioni precedenti, invece, a coltivare facili connivenze e ad assecondare anche le imbecillità palesi, pur di sottrarsi alla fatica del confronto concreto.
Quanto a quel che scrive Perego, il collettivo dell’Isa ebbe sempre forti legami con le associazioni dei lavoratori. Pur se su posizioni critiche rispetto a taluni eventi specifici e, anche, alla burocratizzazione e poca democrazia che già caratterizzava i partiti, ci fu sempre confronto, disponibilità reciproca, anche supporto scambievole alle iniziative condivise.
Uno dei momenti più alti e partecipati fu proprio una grande manifestazione (migliaia e migliaia in piazza Trento, chi ne ha più viste così, a Monza?) con studenti e operai, soprattutto della Singer e della Philips, i consigli di fabbrica allora più attivi.
Riguardo la violenza, anche a costo di rinchiuderci in una sorta di isolamento rispetto alla frammentazione settaria di gruppi e gruppuscoli dei quali affrontammo spesso l’invadenza e subimmo l’influenza - che però attraversammo rapidamente disconoscendola - all’Isa ci riuscì di stare alla larga da ogni forma di violenza, anche da quella caricaturale e grottesca che vedeva l’Arengario clone di San Babila, territorio di destra conteso dall’estrema sinistra. 
Sul ’68 nella scuola monzese condivido, quindi, più alcune considerazioni di Bertazzini, che colgono di quegli anni la necessaria carica antiautoritaria, magari ingenua ma che chiedeva risposte in senso democratico che, purtroppo, diedero solo le ali cattoliche del governo e del sindacato (lo statuto dei lavoratori, forse il momento di più alto riconoscimento della dignità del lavoro su cui la nostra Repubblica si dice si fondi).
I partiti di sinistra in generale furono tra i primi a sentirci come competitori nei propri territori e riserve di caccia, fatte salve alcune minoritarie e volonterose eccezioni che anche a Monza trovarono espressione.

Sui giudizi diffusi sul ’68, diventati ormai senso comune, vorrei solo aggiungere che è curioso come parecchi dei protagonisti o delle comparse di allora giochino oggi un ruolo politico o professionale che è assai più di conservazione che di cambiamento: non sono pochi i presidi che si dichiarano di sinistra a farsi interpreti più ossequienti di altri persino delle imposizioni amministrative più dissennate, offensive e impraticabili, che degradano ulteriormente la scuola pubblica. 
Mi chiedo perché, nella scuola e nell’università dell’autonomia, rinunciano persino all’esercizio del dissenso che in taluni casi è, semplicemente, un dovere civile.
Il Privato è Pubblico e viceversa, possiamo e dobbiamo discutere a lungo per trovare l’equilibrio tra i due estremi affermati nello slogan sessantottino: ma se il nodo non si affronta, tutto diventa privato, la ricchezza strabiliante – che ci si trova bene e, anzi, può impunemente esser occultata o ostentata a piacere - come l’indigenza o l’incapacità di sopravvivere, di curarsi, che invece ci si nasconde vergognandosi.
Infine, a Marco Lamperti “Vorrei” dire: il ’68 è una vicenda chiusa, storicamente, ma le domande che ha posto sono tutte lì e a molte di esse si continua a non rispondere.
Il ’68 studentesco, quand’è sorto, chiedeva anzitutto risorse e sostegno per una scuola di massa e innovativa: dov’è questa scuola? Solo il 10% degl italiani si laurea, il 40% degli allievi della scuola secondaria superiore non completa neppure il Biennio.
Il ’68 operaio chiedeva anzitutto diritti e dignità per il lavoro: oggi in parlamento si discute di come rendere il lavoratore ancor più esposto, indifeso. 
Il ’68 di tutti chiedeva una società nella quale fosse messa in discussione la dominazione assoluta di quelli che oggi definiamo poteri forti, palesi ed occulti: spadroneggiano, come sappiamo.
Il ’68 poneva domande che stava ai partiti innovatori e riformisti interpretare correttamente dando loro lo sbocco praticabile PRIMA che si trasformassero e degenerassero in altro. Sono le domande che fanno ancora oggi molti cittadini, che neppure più hanno la forza e la possibilità di organizzarsi in associazione o movimenti, tanto il corpo della società è disgregato in milioni di frammenti e il silenzio e l’impotenza dei partiti riformatori assordano, anche se continuiamo a sperare che cessino.
Le domande sono lì, intatte, ma una società che ad essa non risponde o risponde malamente non fa altro che diventare iatrogena, cercando inadeguatamente e invano di curare su microscala le malattie che essa stessa contribuisce a sviluppare su grande scala.

Gli autori di Vorrei
Michelangelo Casiraghi