dylan 2018

Il simple twist of fate che nel 1959 ha fatto di un ragazzino che amava il rock&roll prima il juke box e poi l’erede del padre del folk americano.

 

Stoccolma, 13 ottobre 2016.  
Un  simple twist of fate conferisce a Bob Dylan un anomalo Nobel per la Letteratura proprio mentre il corpo dell'altrettanto anomalo Nobel Dario Fo chiude i suoi conti con questo mondo.

Il re dei giullari è morto! Lunga vita al re dei menestrelli!

Niente da dire  se non che è una gran bella coincidenza. 
Un semplice giro, ma twist è molto più poetico e musicale, dei tanti che il fato riserva a tutti quanti. Segni che in alcuni casi sono chiari come il sole, in altri oscuri da decifrare, in altri ancora dimenticati per il lunghissimo tempo intercorso tra la loro fugace comparsa  e la manifestazione delle loro conseguenze,  e che la maggior parte delle volte scappano via senza che mai ci si accorga del loro passaggio. 

 Se questo simple twist of  fate che lega Dario Fo a Bob Dylan è già stato etichettato come un simbolico passaggio di testimone dal giullare al menestrello,  ce n’è un altro che risulta essere davvero  decisivo nella vita di Bob Dylan. Almeno finora, poiché non è detto che la concomitanza svedese non porti l’infaticabile settantacinquenne ad esplorare nuove "buffe" strade con la stessa passione che i due forever young hanno condiviso nelle loro rispettive vite. Per la verità già nel video Must be Santa, uno dei dodici classici natalizi rivisitati da Dylan nel 2009 per l’album Christmas in the Heart, una certa vena giullaresca aveva fatto capolino nel menestrello il contenuto dei cui testi è generalmente poco “buffo” ma spesso non privo di “mistero”. 

 

Il surreale e divertente video di Must be santa, una delle canzoni natalizie dell'album del 2009 Christmas in the Heart. Dylan ha devoluto gli introiti a lui spettanti ad istituzioni che cercano di alleviare il problema della fame nel mondo.  

 

Quanto al decisivo simple twist of fate in questione, tanto per continuare con la citazione di una canzone di quello stupefacente lavoro musicale e letterario che è Blood on the Tracks del 1975,  bisogna risalire  a quasi sessant’anni fa per andare all’origine di un passaggio di testimone molto più che simbolico. Quello che  il ragazzino  diciottenne amante della chitarra e del rock&roll  di nome Robert Allen Zimmerman riceve dal folksinger più significativo dell’America degli anni ’30 e ’40 di nome Woody Guthrie.

 E’ Woody Guthrie  l’hobo per antonomasia, parallelo bianco del bluesman nero, che racconta le miserie di alcune  delle tante Americhe dimenticate, quelle lontane dalle luci del capitalismo e del consumismo. E’ lui l’emblema del vagabondo, personificazione della mobilità sociale, che nel decennio  della Grande Depressione vive ai margini della società facendo lavori di ogni sorta, viaggiando in lungo e in largo con la sua chitarra  su treni merci iperaffollati di poveracci. E’ lui a testimoniare con le sue Dustbowl ballads la penosa migrazione dagli stati del  Midwest alla California che gli oakies del Furore di John Steinbeck e di John Ford devono affrontare per colpa delle tempeste di sabbia e dell’avidità delle banche. E’ ancora lui  a farsi portavoce delle  lotte operaie e contadine, degli scioperi e delle loro violente repressioni e di così tante cose che, parola di Bob Dylan,  ci si potrebbe riempire un libro.
Noi le riassumiamo qui con un breve passaggio tratto dal libro di Gino Castaldo La terra promessaQuarant’anni di cultura rock (1954-1994),  una bibbia per chi ami e voglia approfondire non solo la storia del rock ma anche quella del quasi sempre  infranto sogno americano (Feltrinelli, 1994).

«Woody diventa il cantore della gente umile e, utilizzando le strutture del folk bianco e del talking blues, diventa in un certo senso il primo cantante ad utilizzare la canzone come strumento di denuncia, in funzione prettamente politica, oltre ad avere sviluppato una versione alternativa, ma ugualmente legittima dell’orgoglio nazionale. Nelle sue canzoni si anticipa un tema, anzi una visione dell’America, che sarà parte integrante dei movimenti giovanili degli anni ’60, ovvero la convinzione che l’egualitarismo, il socialismo non fossero in antitesi con le ragioni della democrazia.»

 

Alcuni frammenti live in cui Woody canta This land is your land, la canzone che ancora oggi negli Stati Uniti è il simbolo e la colonna sonora principale di tutte le lotte progressiste per la libertà, la democrazia, la giustizia, l'uguaglianza, e che l'altro grande erede di Woody Bruce Springsteen ha definito la più grande canzone mai scritta sull'America.

 

 Quanto al momento originario  di  quell’allora indecifrabile passaggio di testimone del 1959,  la situazione è una di quelle feste nelle quali era facile imbucarsi, complice il clima di libertà rivoluzionaria e di fermento culturale che si respirava cavallo tra gli anni ’50 e ’60 e che si andava consolidando sempre più.  
Il mezzo di contatto invece è un giradischi da cui provenivano canzoni che il ragazzino di Duluth, Minnesota, matricola all’Università di Minneapolis, non aveva mai sentito prima ma che gli stavano colpendo quei centri nervosi che è bello chiamare anima. 

Più o meno  quattro  anni dopo quel momento, per la cronaca il 12 aprile 1963, quel ragazzino che nel frattempo aveva  cambiato il suo nome in Bob Dylan e che della musica folk era diventato il re, prima di lasciare il palco del Town Hall di New York dove aveva appena concluso un concerto, rendeva un tributo d’amore all'uomo che aveva impresso una svolta alla sua vita, leggendo il poema  Last thought on Woody Guthrie:

«C’è questo libro che sta per uscire e mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su Woody, del tipo “che cosa significa Woody per te?” in 25 parole. E io non ci sono riuscito, ho scritto cinque pagine e… e ce le ho qui. Le ho qui per caso in effetti. Però mi piacerebbe farvele sentire. Così se riuscite a stare dietro a questa cosa che ho qui… si intitola Ultimi pensieri su Woody Guthrie.

Quando la testa ti va in palla e la mente ti  si annebbia
Quando pensi di essere troppo vecchio, troppo giovane, troppo intelligente o troppo stupido
Quando resti indietro e perdi il passo
E arranchi al rallentatore nella frenetica corsa della vita
Non importa cosa stai facendo se stai cominciando ad arrenderti
Se il vino non raggiunge il bordo del bicchiere
Se il vento ti ha spinto via e ti sostieni con una mano aggrappata
E quell’altra comincia a scivolare e la sensazione se ne va
(…)

E hai qualcosa in mente che vorresti dire
Che qualcuno da qualche parte dovrebbe sentire
Ma è intrappolata nella lingua e sigillata nella testa
E ti tormenta da morire mentre sei a letto
E non importa quanto ti sforzi proprio non riesci a dirla
E sei terrorizzato all’idea di dimenticartela
E gli occhi ti si bagnano delle lacrime che hai in testa
E  (…)

Hai bisogno di qualcosa di speciale che ti dia una speranza
Ma speranza è solo una parola
Che magari hai detto o che hai sentito
In qualche angolo ventoso dietro un’ampia curva
Ma è di questo che hai bisogno ragazzo e ne hai bisogno disperatamente 
E il tuo guaio è che lo sai fin troppo bene
(…)

E dove cerchi questa speranza che insegui
Dove cerchi questa lampada che arde
Dove cerchi questo pozzo che spruzza petrolio
Dove cerchi questa candela che luccica
Dove cerchi questa speranza che sai che c’è
Là fuori da qualche parte
E i tuoi piedi possono solo percorrere due tipi di strade
I tuoi occhi possono guardare solo attraverso due tipi di finestre
E il tuo naso può sentire l’odore solo di due tipi di corridoi
Puoi toccare e girare
E ruotare due tipi di maniglie
Puoi andare a trovare Dio nella chiesa della tua religione
Oppure puoi andare a trovare Woody Guthrie al Brooklyn State Hospital

E per quanto sia solo una mia opinione 
Giusta o sbagliata che sia
Li troverai tutti e due
Nel Gran Canyon
Al tramonto.» 

 

Last thougths on Woody Guthrie, Bob Dylan , New York Town Hall,  12 aprile 1963

 

Woody era ancora vivo quando il suo discepolo leggeva quasi con timidezza quei versi dallo stile ginsberghiano davanti ad un pubblico molto commosso sul finale.  Sarebbe morto nel 1967 a 55 anni,   ormai stremato dalla corea Huntington, una  malattia ereditaria di tipo neurodegenerativo che lo aveva colto poco dopo i quarant’anni e che progressivamente gli aveva causato problemi comportamentali e psichiatrici fino a privarlo lentamente di tutte le funzioni  muscolari e cognitive. 

E' proprio Dylan a raccontare diversi  anni dopo ai microfoni della BBC la storia del suo primo incontro con Woody. La  trascrizione dell’intervista è riportata nel libretto di accompagnamento al disco del 1988, A vision shared: a tribute to Woody Guthrie and Leadbelly, in cui diversi cantanti tra cui  Little Richards, U2, Bruce Springsteen, Sweet Honey in the Rock, Arlo Guthrie, Pete Seeger, Willie Nelson e naturalmente lo stesso Dylan, interpretano alcune tra le più celebri canzoni dell’hobo bianco e del bluesman nero. 

 «La prima volta che ho sentito Woody ero a una festa a casa di uno che faceva l’avvocato e ance il cantante folk. Aveva dei dischi di Woody Guthrie (…) Gran Coulee dam, Pastures of plenty, Pretty boy Floyd, Tom Joad, Vigilante man. Cosa ci fosse di diverso in lui è difficile da dire. Sono così tanti i motivi per cui era diverso che ci si potrebbe riempire un libro. Aveva un suo sound. Certo tutti quanti hanno un sound, ma il suo era particolare, più o meno il tipo di sound della Carter family. E poi diceva delle cose che dovevano essere dette. E tutto ciò era così insolito per le mie orecchie! Di solito si possiede o l’una o l’altra qualità. Lui invece aveva sempre qualcosa da dire. Io dovevo assolutamente scoprire chi fosse quel tipo e sapere tutto di lui. Così ho cominciato ad imparare le sue canzoni. C’è stato un periodo della mia vita in cui non facevo nient’altro che le sue canzoni. E ho letto il suo libro Bound for Glory, che un professore di musica folk dell’università del Minnesota mi aveva prestato perché non era proprio il tipo libro che librerie avevano in vendita. Ho pensato che Bound for Glory fosse il primo On the Road e naturalmente ha cambiato la mia vita. A quel tempo ero completamente preso da lui, dal suo spirito o qualunque cosa fosse. Ascoltando le sue canzoni si poteva imparare come vivere, come sentire. Woody era una guida. Non potevo credere di non avere mai sentito parlare di lui. Non sapevo se fosse vivo o morto, ma stavo cercando di scoprire dove si trovasse. Quando finalmente l’ho incontrato lui non stava bene. Io andavo a trovarlo quasi come un discepolo. Gli cantavo le sue canzoni. Andavo da lui solo per quello. In effetti non gli ho mai parlato molto. E comunque lui non poteva parlare. Era molto disturbato mentalmente, però le canzoni continuavano a piacergli. certe volte me ne chiedeva qualcuna. Io le sapevo tutte, ero come il juke-box di Woody Guthrie. Se Woody Guthrie ci fosse ancora sarebbe molto deluso. Ma ogni cosa succede a tempo debito. Woody Guthrie è stato chi è stato perché è vissuto quando è vissuto. Pr me è stato come un anello in una catena, come io lo sono per altre persone e chiunque di noi lo è per qualcun altro. Siamo tutti anelli in una catena. C’era innocenza in Woody Guthrie, c’era un tipo di innocenza che non ho mai più ritrovato. Se fosse reale o un sogno chi può dirlo? Però era una specie di innocenza perduta. E dopo di lui non c’è stata più.»

 Siamo tutti anelli in una catena e varrebbe la pena soffermarsi un attimo a pensarci,  perché  in un mondo  di apparenza, invidie, bugie si fa in fretta a dimenticarsene, anzi a fingere di dimenticarsene. Come se dire grazie a qualcuno inficiasse l’originalità di una mente creativa soprattutto se arrivata ad un qualche tipo di successo, piccolo o grande che sia.  

Bob Dylan, a dispetto di tutte le sue contraddizioni, delle critiche che spesso si è tirato addosso per il coraggio di  non snaturare chi di volta in volta si sentiva di essere e di aver tirato dritto per la sua strada infischiandosene di essere compiacente  (e come non paragonarlo a Dario Fo?) questa onestà l’ha avuta, anche se forse il termine non è il più appropriato perché l’onestà può essere sì spontanea ma anche ragionata. Ciò che invece ha spinto Bob Dylan a scrivere di Woody fin dagli esordi della sua carriera quando compone Song to Woody, uno dei due soli pezzi originali del suo primo album del 1962 intitolato Bob Dylan, è un moto istintivo dell’anima. Un amore profondo che va al di là della gratitudine  e che ha permesso e  continua a permettere a tanti giovani e giovanissimi che nel corso dei decenni di Bob Dylan si sono innamorati  di innamorarsi anche di Woody. 

 

Una interpretazione di Song to Woody, cantata per la prima volta in pubblico il 6 settembre 1961, durante il Neverending Tour che Bob Dylan ha in corso dal 1988. L'unico rammarico, che speriamo il neo-nobel provveda presto a dissipare,  è sapere che dall'8 maggio 2002 la canzone non è più stata  in scaletta, sebbene sia stata riedita in album retrospettivi del 2005, 2007 e 2010.

 

 Non ci fosse stata  quella festa ci sarebbe stato qualche altro simple twist of fate  a metterlo in contatto con Woody e comunque  a tirargli fuori quell’universo che fin da ragazzino quell’uomo ancora vitale ma dall’aspetto ormai  fragile ed avvizzito ha sempre avuto dentro dentro e che, proprio come l’universo di Woody Guthrie o di Fabrizio De André o di Leonard Cohen o di Bruce Springsteen, appartiene di diritto anche al mondo della letteratura. 

Ma il fato ha voluto così e il Nobel finalmente ottenuto da Dylan dopo anni di attesa dei suoi fan, è un premio anche a quell’hobo mingherlino e potente come lui, a quel cantore dell'altra America che ogni sera all’ora del tramonto diffonde nel Grand Canyon la purezza del suo spirito. 

 

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Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

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