20161116 cultura in trasformazione

Che fare e Minimun fax pubblicano “La cultura in trasformazione”, saggi – fra gli altri – di Christian Raimo, Vincenzo Latronico, Jacopo Tondelli e Alessandro Bollo. L'innovazione culturale e sociale fra le miserie delle precarietà: «bisognerebbe dedicarsi anima e corpo a una sorta di New Deal culturale»

 

Le pubblicazioni intorno al lavoro culturale non sono moltissime. Ci sono, è vero, i rapporti che Symbola e Federculture pubblicano ogni anno e che fanno il bilancio delle industrie creative e culturali in Italia, ma — seppur molto utili e interessanti — non riescono ad andare oltre una certa rigidità da convegno, quella fredda liturgia caratterizzata dall’alternarsi di cifre, slide e interventi variamente autorevoli in cui ognuno legge le proprie pagine e i propri dati per poi tornare a casa col cuore in pace.

Per fortuna è arrivato La cultura in trasformazione a smuovere un po’ le acque dello stagno. Il volumetto curato da Che fare per Minimun Fax, ha come sottotitolo L’innovazione e i suoi processi e conta, oltre alle presentazioni di Bertram Niessen e Marco Liberatore, 3 parti: Raccontare l’innovazione culturale (con interventi di Christian Raimo, Vincenzo Latronico e Jacopo Tondelli), Riflessioni sullo stato della cultura (Gianfranco Marrone e Roberto Casati) e Nuove mappe per nuovi mondi (Paola Dubini, Ivana Pais e Alessandro Bollo).

È stata la prima a stuzzicare maggiormente il nostro interesse perché sia Raimo, che Latronico e Tondelli hanno — grazie al cielo — smesso i panni dei convegnisti incravattati e raccontato come stanno realmente le cose nel “favoloso” mondo del lavoro culturale, a partire dai rispettivi ambiti professionali, quello editoriale soprattutto.
Christian Raimo, scrittore e giornalista (scrive su Internazionale e su Minima&Moralia, l’ottimo blog della Minimun fax, casa editrice di cui è anche editor) è uno degli autori più attenti e puntuali nel raccontare l’oggi. Il suo capitolo I diritti e i suoi desideri è, fra l’altro, il ritratto della generazione di mezzo, quella dei trenta-quarantenni cui egli stesso appartiene. Un ritratto — come si usa dire — impietoso di una generazione sconfitta senza aver mai combattutto: «La maggior parte dei miei coetanei sono sconfitti, penso, sebbene non abbiano ingaggiato nessuna battaglia. È gente implosa. Quarantenni, sono tornati a vivere a casa dei genitori, si imbottiscono di psicofarmaci. (…) Non sono servite leggi speciali, è bastata la fragilità della tenuta psichica». Una fragilità generazionale per una generazione-non-generazione, composta da individui con moltissimi elementi in comune ma incapace di reale condivisione «cosa vuol dire condivisione o partecipazione oggi se non ho imparato che cos’è l’uguaglianza, se per me l’uguaglianza non è un valore? Come faccio a rispecchiarmi? Come penso di poter combattere una battaglia insieme a qualcun altro?»

Una fragilità generazionale per una generazione-non-generazione, composta da individui con moltissimi elementi in comune ma incapace di reale condivisione

Solleticata da media e uffici marketing, la generazione di mezzo non pare neppure trovare vendetta in quella che la segue «Se noi quarantenni è come se non ci fossimo ancora ripresi dalla ferita di Bolzaneto, Diaz e Carlo Giuliani, per quelli che hanno dieci o vent’anni meno di noi non c’è stato, pare, nemmeno un processo di disillusione. È come se il disincanto fosse già la condizione originaria». Come direbbero i CCCP: post senza essere mai stati niente. Impreparata a tutto, non è neppure capace di confrontarsi sul serio, di agire e farsi protagonista degli strumenti della democrazia: «Il discorso sulle nuove forme di democrazia è tutto da costruire, oggi come cinque anni fa. I social network o la rete in generale danno da sé la possibilità di rendere più democratico il discorso pubblico?  Non sembra,  anzi. (…) Quando negli ultimi anni ho ricominciato a partecipare ad assemblee politiche, ho visto che molte persone non avevano neanche la capacità di stare a sentire senza parlare addosso, ho visto conflitti personali che non riuscivano a trasformarsi in contrasti di idee... A fare politica si impara col tempo».

Lo scrittore romano, come si intuisce da questi brevi estratti, si guarda bene dal rimanere nella comfort zone del proprio contesto, delle professioni culturali, delle case editrici, delle redazioni come della ricerca universitaria. Perché — proviamo a leggere le intenzioni di Raimo — la cultura per essere viva e rilevante non può accontentarsi di restare entro i confini delle terze pagine, di un ghetto fintamente dorato, lastricato di pubblicazioni (mai pagate) e citazioni, dotte quanto si vuole. E infatti la chiusura dell’intervento è un auspicio, anzi di più, un appello: «Per questo mi piacerebbe che (…) facessimo un piccolo esercizio di consapevolezza, riconoscendo che c’è un’emergenza molto grave qui in Italia, e che se si vuole fare politica bisognerebbe dedicarsi anima e corpo a una sorta di New Deal culturale: un progetto di alfabetizzazione culturale su larga scala. Scuole di strada, recupero dell’abbandono scolastico, volontariato, banche del tempo, militanza intellettuale... Invece di fuggire – a Berlino!, a Londra!, a Toronto! – invece di lasciare questo paese infame in cui scuola e università sono state disintegrate, in cui la cultura del lavoro è vaporizzata, in cui c’è il più alto tasso di dipendenza dalla televisione d’Europa (89%, dati Censis), assumiamoci un compito».

Bisognerebbe dedicarsi anima e corpo a una sorta di New Deal culturale

Vincenzo Latronico (scrittore, traduttore e giornalista) è addirittura chirurgico: «Molti miei compagni di Lettere e Filosofia volevano fare i giornalisti. Alcuni ce l’hanno fatta. E. ha fatto la gavetta, partendo da qualche trafiletto per la redazione milanese di un grande quotidiano e salendo fino al praticantato e quindi a un posto in redazione. Dopo un lungo vagare, B. ha ingoiato le remore e accettato una collaborazione fissa per un giornale di destra, rimpiazzando pian piano la vergogna col Maalox fino ad arrivare al tesserino. M. ha fatto il primo stage recensendo locali a Milano. F. per due anni si è svegliata prima dell’alba per fare i giri di nera per una free press. Alla fine sono stati tutti assunti. Era il 2005, il 2006, il 2007. Per certi versi hanno avuto fortuna: sono stati l’ultima generazione dell’Articolo 1, riusciti a intrufolarsi nella prebenda attraverso l’ultimo spiraglio di portone». Fuori da quel portone vivacchiano i “barboni” dell’editoria, quelli che arrancano fra decine di collaborazioni per mettere insieme quanto basta a pagare l’affitto e il Maalox. Migliaia di pseudo giornalisti, editor, traduttori, copywriter allevati in mille corsi di scienze della comunicazione, accademie della creatività e creativamente sottopagati. Perché questa grande bolla della rivoluzione digitale, significa (dal punto di vista dell’occupazione) soprattutto mancanza di soldi: «(…) gli eventi, i corsi e gli incassi stracciati della pubblicità in rete possono mantenere una testata solo a condizione che abbia pochi redattori interni e paghi relativamente poco gli esterni. E quindi anziché produrre inchieste originali e commissionare analisi, le nuove testate si concentrano perlopiù sulla cosiddetta aggregazione: la pratica di riassumere, confrontare, semplificare e condividere giornalismo e approfondimenti prodotti da altri. E quindi – per differenziarsi, ma soprattutto perché è di qualità migliore in partenza – i contenuti “aggregati” sono in larga misura contenuti americani.»

I “barboni” dell’editoria, quelli che arrancano fra decine di collaborazioni per mettere insieme quanto basta a pagare l’affitto e il Maalox.

Delle redazioni giornalistiche scrive pure Jacopo Tondelli (già fondatore di Linkiesta.it, ora direttore di Glistatigenerali.com) e anche in questo caso non si fanno sconti alla realtà: «E insomma, la redazione per come ve l’abbiamo racconta finora è diventata, per la maggioranza di noi, solo un miraggio. Sono poche le redazioni degne di questo nome, e sono sempre troppi, per loro, gli aspiranti giornalisti. I giornali, poi, più che assumere tagliano, più che cercare nuovi lavoratori licenziano quelli vecchi. È il mercato bellezza, e neanche la stampa può farci niente. Così, il mestiere di giornalista è arrivato a uno status socioeconomico sempre più incerto, e dalla prassi sempre più solitaria. Dalla redazione – fucina di idee, luogo in cui «rubare» contatti e saperi – alla separatezza della propria casa. Dal confronto con colleghi più o meno esperti, o più o meno preparati, e dalle competenze ampie e variegate, al confronto costante con quel che si sa e si è studiato da soli, o con Google». E a chi pensa che sia solo un problema di remunerazione (sindacale, diciamo), Tondelli fa notare che «Le richieste del mercato, poi, fanno il resto: la (quasi totale, quasi generale) dipendenza della resa economica delle aziende digitali dal numero di click ottenuti spinge verso l’alto nella classifica di gradimento di direttori, caporedattori e amministratori quanti sono capaci di generare, appunto, traffico. E non è affatto detto che ciò sia direttamente proporzionale alla capacità informativa dei contenuti prodotti dagli stessi.»

Il mestiere di giornalista è arrivato a uno status socioeconomico sempre più incerto, e dalla prassi sempre più solitaria.

Insomma, Raimo Latronico e Tondelli sgomberano il campo dalle illusioni che ancora montano intorno al lavoro culturale. A nostro parere un sano bagno di umiltà da cui ripartire con senso della realtà. Partendo terra terra per puntare in alto, lì dove volano i draghi cui accenna Alessandro Bollo nell’intervento che chiude il volume: «Il sistema della cultura ha bisogno di nuove favole perché la crisi ha liberato i draghi. I draghi impediscono di continuare a fare le cose come si facevano prima. I draghi sono comparsi in gran numero e hanno agito su più fronti. Incuneandosi nelle inerzie e nelle titubanze dei sistemi di visione e di programmazione politica, prosciugando gli abbeveratoi canonici del finanziamento pubblico, smascherando rendite di posizione e deficit di competenze, seminando diffidenza tra le constituency, nutrendo sfinenti quanto inutili scaramucce ideologiche tra pubblico e privato, profit e no profit, evidenziando, alla fine, come sia difficile per molte istituzioni mantenere una rilevanza nei confronti di una società che difficilmente riescono a penetrare e comprendere nella sua evoluzione».

Bollo (formatore, fra i fondatori di Fitzcarraldo) ha scritto molto riguardo all’audience development, ovvero «(…) un processo, un percorso complesso che ha come finalità allargare e diversificare i pubblici, producendo un miglioramento delle condizioni complessive di fruizione. (…) ovvero una crescita nel rapporto con il pubblico; qui la parola sviluppo è intesa nel senso etimologico di “liberarsi dal viluppo” cioè dalle barriere di natura sociale, economica, psicologica e culturale» (qui la fonte). Nel volume curato da Che fare si concentra sulla necessità di inventare nuovi rapporti fra istituzioni e soggetti culturali per favorire la partecipazione: «Le istituzioni e i nuovi soggetti culturali hanno, quindi, la straordinaria opportunità (e anche responsabilità) di candidarsi a diventare i luoghi in cui si sperimentano nuove strade per riabilitare quell’istinto collettivo alla partecipazione, di cui si sente sempre più bisogno.»

I luoghi in cui si sperimentano nuove strade per riabilitare quell’istinto collettivo alla partecipazione, di cui si sente sempre più bisogno

Istinto collettivo alla partecipazione. Ritorna — in un certo senso — il concetto di insieme, di comunità, di superamento dell’individualità polverizzata (della solitudine) che nelle pagine di Raimo abbiamo visto naufragare fra psicofarmaci e fallimenti. Nell’epoca della superficialità (che si vuole spacciare per leggerezza) c’è una necessità assoluta di approfondire questo tema, così come quello delle nuove rappresentanze e delle nuove classi.

In La cultura in trasformazione si parla di innovazione, in particolare di quella sociale e culturale, si gettano le basi del discorso fotografando l’esistente (e le sue miserie) e si prospettano nuove strade. È già tanto. Lo si fa — inoltre — con un linguaggio comprensibile, aspetto spesso trascurato da chi si occupa di politiche culturali, ambito devastato da abuso di fuffa e da autocompiacimento segaiolo. Infine, mette insieme alcune delle voci e teste pensanti più lucide del paese. Un libro molto prezioso insomma.

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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