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Beni culturali pubblici e profitto privato, pensando alla Villa Reale. Tomaso Montanari «Io non conosco una istituzione culturale che produce profitto. Un privato che gestisca un sito pubblico per fare profitto e che attraverso questo produca anche cultura, io non lo conosco»

 

Su Vorrei, in questi anni abbiamo ampiamente trattato la questione del restauro e della gestione della Villa Reale di Monza. Come i nostri lettori sanno, il Consorzio proprietario del complesso Villa-Parco ha affidato ad un privato non solo il recupero ma anche la completa gestione (quindi anche tutta l'attività culturale) per 22 anni, una eternità. Ma una volta restaurata, che cosa succederà al suo interno? Nessuno sa dirlo. Sarà prevalente la funzione museale o quella commerciale con negozi, ristoranti, nani e ballerine? Per il momento è chiara solo una cosa e cioé che chi ha vinto la gara d'appalto e che terrà le chiavi della Villa Reale non è né un mecenate, né un benefattore ma un'azienda il cui fine principale è il profitto. Legittimo, aggiungiamo. Ma come si concilia il patrimonio culturale pubblico e il profitto privato? Ce lo spiega Tomaso Montanari, storico dell'arte e docente alla Federico II di Napoli, in una intervista rilasciata a 404 not found (che — sia chiaro — non parla direttamente della Villa Reale e degli attori in campo a Monza. (AC)

 

“Il museo è un luogo di produzione del sapere”

Intervista a Tomaso Montanari

 

I

l conflitto tra la gestione pubblica o privata del patrimonio storico e artistico è uno dei temi cardini della tua riflessione attorno al ruolo della storia dell’arte nel discorso pubblico. Gestione pubblica e privata sembrano essere due interessi necessariamente in collisione e in antitesi. Non esiste, secondo te, neanche a livello teorico la possibilità che un privato prenda in gestione un bene culturale, lo renda più fruibile al pubblico e lo conservi meglio di quanto riesca a fare lo Stato ricavandoci  al tempo stesso un profitto?

Non si tratta di teoria, si tratta di pratiche. Non esiste, al mondo, un esempio di privato che funzioni meglio del pubblico. I musei americani sono in passivo, non in attivo; il Metropolitan di New York non produce reddito e, come tanti altri musei, vive sugli interessi di enormi capitali lasciati in eredità da grandi magnati dell’industria americana che per legittimarsi e lavarsi la coscienza hanno fatto come Cosimo il Vecchio, cioè si sono detti: “questi soldi tornino a produrre utili sociali in termini culturali”. Ma io non conosco una istituzione culturale che produce profitto e poiché l’obiettivo dei privati è quello di produrre profitto, un privato che gestisca un sito pubblico per fare profitto e che attraverso questo produca anche cultura, io non lo conosco. Non si tratta di gestire un sito come si gestisce un locale, si tratta di produrre cultura, ovvero di investire sulla ricerca e questo non crea un ritorno immediato di denaro. La cosa curiosa è che la comunità politica, lo Stato comunità, lo Stato cittadini, dovrebbero avere un fine che non è quello dell’utile e non riescono, molte volte, a causa della cattiva organizzazione, invadenza e lottizzazione politica, a produrre questi dividendi. Perché dovrebbe riuscirci un privato che ha il fine del lucro? È legittimo, ma non conosco esempi validi.

Quindi non è un problema esclusivamente italiano, ma generalizzato. E l’unico modello che può sussistere sembra essere quello del mecenatismo, come nel caso di Ercolano [dove la conservazione e tutela del sito archeologico sono finanziate dal magnate americano dell'informatica David Packard, NdR] ma appunto, in termini di profitto, in perdita.

Non credo che il mecenatismo sia il mezzo. Il punto è questo: noi permettiamo attraverso l’evasione fiscale più grande dell’occidente un’enorme creazione di ricchezza privata che in realtà è drenaggio della ricchezza pubblica attraverso l’evasione fiscale. E poi chiediamo ai privati, a cui consentiamo di non pagare le tasse, l’elemosina ‒ defiscalizzandola, quindi perdendoci due volte ‒ del mantenimento del patrimonio di noi tutti. È molto curiosa come idea: ci sottraiamo dei soldi come comunità per lasciarli a un privato, consentendogli di non pagare le tasse per poi chiedergli di sovvenire il bene comune del patrimonio, ma con ridotti margini di azione, per esempio nella scelta della direzione di questo patrimonio. È un suicidio collettivo notevole. La leva non è il mecenatismo, è una politica culturale e fiscale che prenda le tasse di tutti e le usi per il bene comune. Con il 5% dell’evasione fiscale nazionale si mantiene il patrimonio senza alcun bisogno di mecenatismo.

Qual è, dunque, il ruolo della politica nella gestione, conservazione e promozione del patrimonio?

Il ruolo della politica è quello di gestire la complessità intorno a un progetto di comunità. La politica dovrebbe indicare il ruolo del patrimonio, non in senso partitico e tantomeno in senso spartitorio, ma nel senso di un progetto di comunità; i musei, il patrimonio, non nascono come evasione estetica del singolo, ma nascono come strumento di un progetto comune. Non è un caso se il patrimonio italiano sta attraversando uno dei momenti più bassi della sua gestione in un momento in cui non c’è un progetto di nazione. Ci sono progetti di associazione, ci sono criminalità organizzate crescenti, ci sono grandi interessi privati al governo dell’Italia, ma non c’è un progetto di nazione. La politica deve fare questo: dare un orizzonte alto, condiviso. Ma credo che, in questo momento, la visione politica più promettente sia quella dal basso: la cittadinanza attiva e l’azione in prima persona.

Il discorso della gestione dei beni culturali è assimilabile a quello della riforma dell’università proposta dal ministro Gelmini che, in uno dei suoi punti, prevedeva l’intervento dei privati negli organi dell’amministrazione delle università. All’interno del movimento studentesco, ma anche all’interno dei vari organi che compongono lo stratificato tessuto della rete universitaria, questa riforma ha prodotto una spaccatura profonda e forse insanabile tra chi sostiene che l’università, in quanto pubblica, deve rimanere tale in qualsiasi settore, e chi invece favorisce e non demonizza l’intervento dei privati, portando l’esempio positivo di un modello estero efficace.

Questo fatto è curioso. Si viene accusati di demonizzazione e di ideologia se si sostiene che il pubblico non deve passare in mano al privato. Non voglio nazionalizzare le industrie private, questo sarebbe ideologico, ma credo che ciascuno debba fare il proprio mestiere; in una società complessa e stratificata i privati svolgono dei ruoli e il pubblico ne svolge altri. Naturalmente il ruolo del pubblico cambia attraverso i paesi: mentre il presidente Obama, negli Stati Uniti, crea la sanità pubblica, noi vogliamo buttare in mare l’istruzione pubblica. In una organizzazione complessa queste cose, secondo me, competono ai cittadini. L’istruzione che fornisce, tramite l’educazione, la possibilità di esercitare il proprio diritto di cittadinanza e di sovranità, cioè di concorrere al governo della cosa pubblica, deve essere affidata al pubblico, come del resto è nel nostro modello basato su scuola, università e sanità.

Esistono una scuola e una sanità privata.

Esistono, ma non credo che saremmo d’accordo con l’affidare la gestione di tutti gli ospedali ai privati, con criteri di lucro. Inoltre per come la sanità è impostata in questo paese, in realtà anche i privati ricadono sulle spese del pubblico, tramite laute regalìe. Anzi, se è per questo siamo un paese in cui la più grande industria, la Fiat, che è privata e appartiene sostanzialmente a una logica di mercato, è stata tenuta in vita e alimentata dal denaro pubblico. Siamo di fronte a una privatizzazione dei guadagni e a una socializzazione delle perdite; il patrimonio che è di tutti deve – si dice ora – iniziare a generare reddito privato, ed è curioso che si pretenda una tutela che è pubblica (e si fa con le tasse) e una valorizzazione privata (che cioè genera reddito privato). A me pare una gravissima perversione.

In questi giorni si sta discutendo della chiusura del complesso del Santa Maria della Scala, a Siena. Hai scritto (qui) che non è sufficiente che la regione finanzi con 400.000 euro questa struttura per impedirne la chiusura senza un progetto culturale serio. Ciò che serve è una “rivoluzione”. Di quale rivoluzione parli e quale deve essere il ruolo dei cittadini?

La rivoluzione è quella di pensare che un luogo come il Santa Maria della Scala non è un luogo di intrattenimento, ma un luogo per fare cittadinanza. Pensare in questi termini è una vera rivoluzione perché vuol dire chiudere con le mostre sul male e altre baggianate mediatiche, chiudere con le mostre format, chiudere con gli eventi, il che vuol dire chiudere con le logiche guida del patrimonio per come oggi è pensato in Italia. Non guardare verso Venaria, Rivoli o il Museo Egizio di Torino, ma guardare a modelli che in Italia quasi non  ci sono. Il Santa Maria della Scala ha la particolarità di essere un enorme monumento, che si vorrebbe riempire con un museo statale, con un museo diocesano, con musei di tipo comunale. Per mettere insieme tutte queste realtà occorre che si attivi ciò che raccoglie queste realtà, ovvero la città. Si parla molto del Santa Maria della scala come “museo di Siena”. Questa espressione va intesa non tanto come museo della storia di Siena, come è invece il Museo Carnavalet di Parigi, ma come luogo di progetto culturale della città.

Intendi un “consorzio” per la gestione del patrimonio.

Quando penso al consorzio intendo un tavolo in cui siedono le istituzioni, le quali mettono dei fondi, dei soldi, ma fanno un passo indietro nella gestione. Mentre nel caso del Santa Maria della Scala c’è sempre stato un discorso di soldi investiti in cambio di potere nella gestione. L’assenza di un direttore era la più eloquente spia del fatto che si voleva un’istituzione debole per sottometterla meglio alle logiche del sottobosco politico.

Qual è la soluzione?

Io credo che la soluzione non sia né la fondazione con dei capitali privati, perché si finisce a conferire la Pinacoteca di Siena a una fondazione privata, come successo a Brera, con il rischio di ritrovarci Simone Martini e Lorenzetti amministrati come un’azienda. Credo che la rivoluzione sia quella di tornare a un progetto di città che si rispecchia in un museo, in uno spazio culturale. Siena in questo momento è una città che ha molte difficoltà: il comune è commissariato, il Monte dei Paschi è sull’orlo del fallimento, l’università è già fallita. Proprio per questo occorre un progetto di città nuova e non ha senso continuare a difendere un modello che è alla catastrofe. E mi chiedo: come è possibile che chi ha prodotto questo sfascio continui a pontificare? Chi ha creato il problema ora vuole anche imporre la soluzione? Ma via! C’è bisogno di un ricambio radicale di persone e idee. La rivoluzione che occorre è questa: una rivoluzione di progetto culturale che intenda fare del Santa Maria della Scala non un luogo di intrattenimento collettivo, ma un luogo di produzione del sapere critico, per esempio trasferendovi il dipartimento di storia dell’arte e ripensando il museo come luogo di produzione e di liberazione, non come un ulteriore tempio dell’alienazione.

 

Intervista tratta da: 404: file not found

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