La rivista che vorrei

Impegno, dedizione e passione da parte della monzese Fondazione Franco Fossati ha fatto sì che a Milano nascesse il primo vero museo italiano del fumetto, che oggi compie un anno esatto. Con il presidente abbiamo parlato anche dello stato della cultura a Monza

Per l'ennesima volta, una meritevole iniziativa promossa da un soggetto monzese si è potuta realizzare soltanto al di fuori del capoluogo brianteo. Parliamo del Museo del Fumetto, dell'Illustrazione e dell'Immagine Animata che da un anno la Fondazione Franco Fossati dirige a Milano, all'ex fabbrica Motta in viale Campania. L'uomo che dà il nome alla fondazione e che tuttora ne ispira le azioni è scomparso nel 1996. Fra gli anni Settanta e Ottanta fu uno dei più importanti studiosi italiani di fumetto, autore di un libro dal titolo Superman: biografia di un eroe che all'epoca venne apprezzato perfino dalle alte sfere della DC Comics, editrice statunitense del più grande supereroe. Appassionato di Topolino, lavorò anche come redattore e responsabile delle sceneggiature per il reparto Disney di Mondadori. Fu un divulgatore della cultura connessa al fumetto in tutte le sue incarnazioni, con libri, saggi, iniziative.

Alla sua morte, Luigi Bona e altri amici impegnati nel campo del fumetto hanno voluto raccoglierne l'eredità e proseguire il suo lavoro, prima con una associazione, confluita poi nel 2007 nella Fondazione, che in cinque anni, non senza difficoltà, è riuscita a concretizzare uno dei grandi sogni di Fossati: aprire una "fondazione" in senso asimoviano, un luogo di raccolta e diffusione del sapere su tutto ciò che ruota intorno ai comics, e dove poter rendere visibile e fruibile al pubblico tutto il materiale archiviato da Bona, Fossati e gli altri soci. Con oltre cento mostre, un archivio composto da più di mezzo milione di pezzi fra volumi e oggetti, e la curatela di eventi come Cartoomics, Sloworld e La Ghignata, si tratta di una delle più autorevoli realtà che promuovono la cultura del fumetto. Sia l'associazione che la Fondazione, per correttezza, non hanno mai voluto avvalersi del contributo di persone implicate nel mercato, come negozianti o editori, anche se questo ha significato privarsi della collaborazione di persone del calibro di Sergio Bonelli. Ne abbiamo parlato con Luigi Bona, direttore della fondazione e animatore a sua volta del settore fumettistico con la rivista WOW, che ora dà il nome al museo stesso.

Si può dire che il Museo sia stato l'obiettivo a cui avete finalizzato ogni vostra attività, sia come associazione che come Fondazione?

Sì, anche se gli obiettivi statutari di entrambe erano e sono tuttora la divulgazione del fumetto e del suo intorno. L'idea del Museo così come si è realizzata è venuta però dopo il 2007, quando siamo diventati fondazione. Il nostro concetto di museo, a dire il vero, non è quello tradizionale italiano di luogo in cui ammassi gli oggetti e poi li vai a vedere dietro una teca. È più dinamico: quando abbiamo analizzato tutte le realtà europee più avanzate, come Parigi, Angoulême, Berlino e Bruxelles, abbiamo deciso che il nostro modello sarebbe stato quello. Avremmo cioè puntato anche sulla didattica, e offerto un'attenzione costante all'alternanza di mostre temporanee e permanenti. Doveva essere un luogo gradevole, in cui la gente venisse a trascorrere del tempo immergendosi nell'immaginario: non un posto in cui paghi un biglietto, vedi alcune cose e poi a una certa ora devi uscire per non tornarci mai più o magari dopo tanti anni (e per rivedere sostanzialmente le stesse cose). Noi volevamo un luogo vivo e interattivo.

In quest'ottica rientra anche la divisione del museo fra l'area inferiore ad ingresso libero e quella superiore a pagamento?

Sì. Al piano superiore ospitiamo sempre mostre temporanee, garantendo una costante variazione. Nel nostro piccolo, risponde a una sorta di vocazione alla Centre Pompidou: si va e si scopre cosa c'è. Diversamente da un museo tradizionale, appunto, in cui di solito si sa già in anticipo cosa vi si troverà. Anche al piano inferiore comunque non mancano mostre: ci sarà presto quella permamente, che non siamo ancora riusciti a concludere perché quelle temporanee sono state tantissime e ci hanno impegnati tanto.

Il Museo è anche biblioteca?

Senz'altro. È aperta al pubblico, a scaffale aperto, e non c'è bisogno di tessera. La gente entra, si siede, prende quello che vuole dalle oltre novemila pubblicazioni che offriamo ogni giorno, dalle prime storie di Tex alle ultime di Lupo Alberto o di Rat-Man, e si gode la lettura. Questo crea un ambiente gradevole, abbiamo anche studenti che vengono a studiare lì. Il giorno del nostro compleanno (oggi, ndr) inaugureremo anche il nostro Caffè Letterario, il Gotham Café, che vuole e deve essere un'estensione del nostro approccio all'attività museale, che deve costituire un'esperienza piacevole per i nostri visitatori. La caffetteria avrà un accesso autonomo, e ospiterà a sua volta esposizioni di opere, soprattutto di giovani artisti e disegnatori.

Qualcosa di simile a quello che qui a Monza accade già al Libra, per esempio.

Esatto, l'intento è lo stesso, cioè rompere la barriera che separa artificialmente la cultura, in tutte le sue forme e le sue accezioni, dalla vita quotidiana delle persone. La cultura deve tornare alle persone e le persone devono riappropriarsi della cultura.

Per questo motivo stiamo stringendo forti legami con le biblioteche del circuito milanese e con l'ufficio competente del comune di Milano. Il risultato è una splendida sinergia, che ha portato a risultati come la mostra all'interno della biblioteca dell'Accademia di Brera: portare lì Tiramolla e Bongo è stato qualcosa di fantastico, e soprattutto di molto ben riuscito. Le barriere da rompere sono anche quelle intellettuali, le distinzioni inutili fra l'arte "togata" e tutte le altre. Con il sistema bibliotecario milanese stiamo creando una rete fantastica, una cosa che a suo tempo avevamo provato a fare anche in Brianza, ma la cosa naufragò.

Come si mantiene il Museo?

Buona domanda. Per realizzare il nostro museo, noi siamo partiti dalla fine. Come ogni vero imprenditore, culturale o non culturale, prima ci siamo domandati che cosa bisogna produrre perchè quella è la cosa giusta da produrre, poi man mano ci siamo inventati come mantenerla. Noi abbiamo pensato che un museo tradizionale non sta in piedi se non è mantenuto dal pubblico, e abbiamo voluto partire dal concetto privato della cosa: creiamo qualcosa che funzioni. Se viene la gente, se piace, se viene incontro alle esigenze del pubblico, allora un modo per mantenersi lo troverà, come sponsor, servizi a pagamento particolari. In aggiunta, ci sono e si stanno sviluppando le forme di ingresso più tradizionali, come il bookshop e la caffetteria, e ovviamente i biglietti delle mostre a pagamento. La scommessa è nel creare un ambiente gradevole, creando servizi che il pubblico paghi volentieri: è meglio, per esempio, mangiare un primo in un bel giardino potendosi leggere qualsiasi fumetto di cui si abbia voglia piuttosto che in bilico su uno sgabello di un qualunque locale. Abbiamo ad ogni modo sponsor tecnici e privati che ci sostengono, anche fornendoci materiali e strumenti utili per il nostro lavoro. A breve, comunque, lanceremo una campagna di raccolta fondi.

Come si è giunti a fondare a Milano il Museo del fumetto?

Il problema vero era la difficoltà di "vendere" un'idea di museo come la nostra, ancora neanche realizzata. Il nostro è un museo unico in Italia, e forse anche nel mondo, perché la nostra filosofia e la nostra progettualità, adeguata al tessuto in cui operiamo. ci distingue persino da Parigi e Angoulême. All'inizio, dato che Milano ci sembrava irraggiungibile, abbiamo tentato di coinvolgere comuni nell'hinterland, da Sesto San Giovanni a Baranzate a Paderno Dugnano, ma anche Monza e Muggiò, tra gli altri. Purtroppo in nessuna realtà siamo riusciti a far capire che per far funzionare il nostro progetto non era sufficiente avere un posto dove mettere della roba (e già era difficile avere quello). Soprattutto ci siamo trovati un'impostazione del tipo "abbiamo spazi, se li volete ve li affittiamo per farci ciò che volete". Non siamo però mai stati messi in contatto con le realtà che avrebbero potuto essere interessate a investire su un progetto di questo tipo, come gli imprenditori. Spesso accadeva, come a Baranzate, che il comune pretendesse di trattare direttamente con questi soggetti, senza coinvolgerci, facendo naufragare tutto.

A Milano siamo arrivati in modo un po' buffo, forse. Tutto nacque quando la sezione di Milano di Italia Nostra ci invitò qualche anno fa ad una conferenza alla Statale sulle varie realtà museali. Noi fummo invitati per esporre il nostro Museo del Fumetto. Io obiettai che era difficile parlare di qualcosa che esisteva solo in termini di progetto, di idea, ma la risposta del presidente di Italia Nostra fu "allora facciamo la conferenza sul museo che dovrebbe esserci". Fatto sta che in seguito a quel convegno sui giornali uscirono articoli a pagina intera sul Museo del Fumetto a Milano, creando forse quel minimo movimento d'opinione che convincesse definitivamente il Comune a fornirci uno spazio adeguato. E così è stato. Ci hanno subito proposto la ex fabbrica Motta, che ci ha convinto fin dalla prima visita.

La collaborazione con Milano è stata avventurosa, ad ogni modo: è stato difficile all'inizio incontrare l'Assessore per definire bene il progetto e abbiamo dovuto vincere due bandi, perché il primo proponeva condizioni per noi impossibili. Anche per i tempi di apertura abbiamo dovuto correre, perché la giunta voleva che avvenisse prima delle elezioni, mentre a noi avrebbe fatto comodo avere più tempo: eppure, ce l'abbiamo fatta, grazie soprattutto al lavoro dei ragazzi che componevano lo staff della Fondazione e che ora lavorano al Museo. E in tutto questo l'unico contributo che abbiamo visto finora dal Comune di Milano è quello di cinquemila euro che ci ha dato l'Amsa per la prima mostra, a fronte di un impegno di qualche centinaia di migliaia solo per mettere su il museo. Altri contributi tardano ad arrivare, la partenza ce la siamo pagata con le nostre forze. La cosa che ci rassicura, ad ogni modo, è che la giunta milanese attuale persegue una politica culturale che coincide con la nostra. Speriamo quindi di poter ridiscutere il capitolo affitto: secondo il contratto attuale, dobbiamo pagare trentamila euro l'anno, ma spero che capiscano che non si può chiedere così tanto a chi a tutti gli effetti sta effettuando un servizio alla comunità. Con il Comune, ad ogni modo, intendo con le persone che ci lavorano, abbiamo ottimi e proficui rapporti, in termini di progettualità e di coordinazione. La Regione, per contro, è del tutto assente. È scomparsa. Tanto che ormai ci scordiamo di chiederne il patrocinio per le attività che svolgiamo.

State lavorando pensando anche all'Expo?

Noi operiamo in un tessuto culturale orientato nella nostra stessa direzione. Anche quando abbiamo lavorato a Monza o a Muggiò, lo abbiamo fatto sempre in vista del 2015. I temi della Ghignata degli ultimi anni sono stati gli stessi dell'Expo. Ci sembrava logico, giusto. Ci interessa essere sinergici a una cosa che deve essere di tutti, che tutti devono sentire, altrimenti rimane solo a vantaggio di qualcuno. È naturale che anche a Milano continuiamo su questo solco. Addirittura, la Fondazione Milano 2015 è venuta da noi per presentare il primo progetto legato all'Expo, che coinvolgeva il Togo. Ci è piaciuto molto, soprattutto perchè lo presentavano con il fumetto, mostrando peraltro l'intelligenza di capire che costituisce un ottimo veicolo di comunicazione.

A un anno dall'apertura, che bilancio si può fare sulle attività del Museo? Qual è stata la risposta del pubblico milanese?

Una risposta forte, notevole, crescente. Al nostro primo anno abbiamo avuto circa ventitremila presenze. Duemila derivano dalle attività didattiche svolte durante le mattinate con studenti di ogni ordine e grado, che effettuano visite guidate alle mostre e poi partecipano a laboratori con artisti e professionisti. Non sono solo di Milano, ma anche di altre città: ci contattano da Torino, Como, Lecco. C'è da dire che ormai il Museo ha raggiunto una visibilità superiore a quella di qualsiasi altra realtà culturale milanese a livello di stampa e comunicazione. Secondo me è perché riusciamo a svolgere attività che interessano a tanta gente. Ogni nostra esposizione, d'altronde, non è mai banale: quelli esposti sono spesso pezzi di grande valore artistico e storico, come tavole o schizzi originali, storyboard autografi.

Il vostro pubblico di riferimento è generico o è costituito principalmente da appassionati e studiosi?

Da noi vengono appassionati, addetti ai lavori, ma anche famiglie, ragazzini, anziani. Un giorno sono rimasto affascinato da una coppia di ottantenni, che hanno fatto il giro del museo come ogni visitatore, ma alla fine del percorso è stato una scena deliziosa vedere lui che fotografava lei in posa di fianco alla statua dell'Uomo Tigre. Quando abbiamo avuto come ospite Simon Tofield, l'autore di Simon's Cat, abbiamo dovuto chiudere le porte perché non potevamo più far entrare nessuno, il museo era stracolmo.

Che cosa si può trovare nel vostro archivio?

Abbiamo materiali di tutto il mondo e di tutte le epoche, dai fumetti cinesi di Mao in originale al fumetto africano, canadese, australiano. Ci interessano molto le origini del fumetto, per cui abbiamo protofumetti, materiali dell'Ottocento, stampe popolari, qualcosa anche dello svizzero Rodolphe Töpffer, da molti considerato l'inventore del fumetto, per aver intuito il rapporto fra sequenza narrativa, linguaggio iconico e linguaggio testuale, con i suoi disegni effettuati attorno al 1827. Tra i suoi estimatori ebbe anche un tale di nome Goethe. Proprio su di lui vorremmo organizzare una mostra, in collaborazione con il Museo di Ginevra che dispone degli originali. Avevamo provato a farlo a Monza, questo discorso, cercando di coinvolgere anche l'autodromo, ma non se ne riuscì poi a far nulla.

Come è visto il fumetto all'interno del sistema delle arti? Si può dire che sia tramontato il pregiudizio con cui i detentori del gusto lo bollavano come "genere minore d'intrattenimento"?

A Milano è già tramontato. Collaboriamo con docenti universitari, abbiamo realizzato una mostra dentro l'Accademia di Brera. Non esiste nessun tipo di barriera. Non solo chi fa cultura, ma anche e soprattutto la base, il pubblico. Mi viene in mente un incontro che organizzammo più di vent'anni fa in piazza Duomo a Milano, una sera di fine agosto, con gli autori di Dylan Dog, che all'epoca aveva appena iniziato le pubblicazioni: fu un successo enorme, le persone non finivano più, tanto che i librai che ci ospitavano non si capacitavano che un fumetto potesse attirare più di un autore di best-seller. E la preparazione del pubblico! Ragazzini di dodici o tredici anni che interloquivano con gli artisti citando Lovecraft o Poe. Questa fu la risposta della città per un evento pubblicizzato sì e no su un trafiletto di giornale.

Nel corso dei decenni, è cambiato il pubblico dei lettori? Ciò si riflette sulle vostre iniziative?

È decisamente cambiato, perché manca un vero pubblico di adolescenti, come c'era una volta. I ragazzi oggi si accostano al fumetto cominciando a leggere opere rivolte agli adulti, come i manga o Dylan Dog, o buona parte della produzione statunitense attuale. I bambini delle elementari e medie, a parte Topolino, non hanno una produzione espressamente dedicata a loro. Il vecchio Corriere dei Piccoli, o il fumetto d'avventura più semplice, e soprattutto meno costoso, non ci sono più. Manca quindi quel livello intermedio, l'anello di congiunzione tra la Pimpa e Dylan Dog, ed è tragico, perchè così facendo non crei nuovo pubblico, ti fossilizzi sui lettori che hai già conquistato anni o decenni fa. Hanno alzato il target, selezionando quello che può permettersi di spendere anche due o tre euro in più per un albo, cioè l'adulto, mentre il ragazzino non spende sopra certe cifre. Il prodotto povero di una volta non esiste più, anche per ragioni di distribuzione: l'edicolante non te lo espone, perché non gli conviene.

Può incidere sul futuro del fumetto come forma d'arte?

Inciderà moltissimo, perché c'è il grosso rischio che il fumetto perda la dominanza che oggi ha nel mercato rispetto al libro, per diventare un testo scritto come ogni altro. Quello che voglio dire è che rischia di essere inglobato nella stessa crisi di vendite che caratterizza il libro. Diventando per certi aspetti affine alla "letteratura colta", tanto prestigiosa ma di scarse vendite: è questo che non vorrei accadesse, perché significherebbe restringere l'accesso alla cultura per una grande massa di lettori. Perché il fumetto deve perdere questa sua capacità di penetrazione culturale, e soprattutto perché deve rinunciare ad acculturare la gente?

Un altro grave problema è che non esistono più gli editori, gli editori veri intendo. Ormai le case editrici sono soltanto gruppi economici, consigli di amministrazione che decidono in base a criteri di marketing creati in Bocconi da gente che non vive davvero il mercato ma sa cosa insegnare perché il mercato venga visto in una certa maniera, e applicano al fumetto o al libro lo stesso concetto della patatina. Ecco allora che le cose importanti diventano la copertina e il disegno a scapito del contenuto e della storia, ma soprattutto ecco che la gestione del prodotto viene visto unicamente in base a quanto mi costa e cosa mi rende. Piuttosto che imbottire di pubblicità il tuo fumetto per fare soldi, meglio quello che è accaduto con Diabolik: crea un personaggio efficace, e al massimo vendi quello come marchio. La qualità delle storie non ne risente, e le tue finanze saranno a posto. Per riuscire, ovviamente, l'operazione deve essere condotta da chi conosce davvero il fumetto, da chi lo vive.

La creatività non ha più spazio, non nelle case editrici, almeno. Vai a proporre una storia alla Rizzoli, vai alla Mondadori: ma dove vai? Da chi? Non c'è una vera persona che ti segua, non c'è un vero settore creativo. Ci sono questi consigli di amministrazione che seguono il marketing e solo in base a quello valutano la fattibilità di una cosa. Il loro unico interesse è ridurre i costi, magari prendendo carte e inchiostri di minore qualità, oppure facendo "largo ai giovani autori". Perché li possono pagare di meno. Così mandano a spasso autori bravissimi perché costano troppo, mandando allo sbaraglio giovani che non hanno la possibilità di apprendere davvero il mestiere seguendo il lavoro degli artisti più esperti. Il giovane va coltivato e seguito, non sfruttato per fare cassa.

Il compleanno del Museo è il primo di aprile: si tratta di una data simbolica o è soltanto una coincidenza?

Era una coincidenza, in realtà. Al Comune anzi dissero "meglio di no, quel giorno", e noi invece cogliemmo l'opportunità di inaugurare il nostro museo in una data tanto particolare e simbolica come il primo di aprile. Doveva suonare come uno scherzo scanzonato, rispecchiava lo spirito con cui volevamo dare inizio alla nostra gestione. Noi con queste date ci andiamo a nozze: venerdì 17 il museo era pieno per la mostra sul Gatto nero nel fumetto e nella letteratura.

Cultura in Brianza.

Con Luigi Bona abbiamo parlato anche della fase di stallo che vive la cultura a Monza, dal punto di vista di una realtà attiva e propositiva come la Fondazione Franco Fossati.

Perchè a Monza non è stato possibile fondare il Museo?

Monza è una città che non ha nulla. Non ha un museo, se escludiamo il museo privato della Corona Ferrea, non ha una pinacoteca. Chi viene a Monza, dopo il Duomo, la corona e la gallina con i pulcini non ha molto altro da vedere. Prima di mettere un Museo del Fumetto a Monza, mi sembra che si debbano creare molte altre cose. Ci sono mostre al Serrone, per carità, ma non mi sembra abbastanza per essere la terza città della Lombardia. Tentammo di organizzarne una anche noi al Serrone, ma le lungaggini burocratiche e altri contrattempi ci hanno fatto cambiare totalmente idea. In tempi più recenti ci avevano offerto anche di realizzare un evento in Villa reale, ma quando abbiamo visto le condizioni in cui versavano gli spazi che ci volevano concedere ci siamo messi le mani nei capelli: tra insufficienza dell'impianto elettrico e barriere architettoniche... Insomma, volevano offrircelo come se fosse un capannone, e non ce la siamo sentita. Alla fine, sarebbe stato solo per dire che avevamo organizzato un evento in Villa Reale, e non ne valeva la pena. Senza contare che le domeniche erano "riservate ai matrimoni"!

A proposito di eventi a Monza: Sloworld ci sarà quest'anno?

No, perché non ci sono le premesse. Non abbiamo avuto nessun tipo di sostegno, se non pacche sulla spalla, ma con quelle non copri i costi. Stiamo ancora finendo di pagare i conti delle passate edizioni, per cui non ci imbarchiamo in un'altra edizione con cui dare visibilità a enti pubblici che in realtà non fanno niente per aiutarti e supportarti. Nelle precedenti edizioni di Sloworld c'erano stati anche problemi a livello di organizzazione e comunicazione: non si riusciva a comunicare alla gente come fare a raggiungere l'autodromo una volta giunti a Monza! La città è davvero arretrata su tantissime cose. Bisogna prendere atto che ha bisogno di svilupparsi in questo senso, nell'ambito comunicativo, creando un tessuto che faccia vivere la città e la faccia conoscere anche all'esterno. Bisogna far conoscere le attività di Monza a Milano, fare pubblicità negli aeroporti. Come succede a Parigi, dove trovi pubblicità di eventi interessantissimi che si svolgono nei comuni limitrofi. Qui non esiste il concetto di rete comunicativa, non si dà alcuna informazione su quello che accade in città dal punto di vista culturale. Abbiamo dovuto realizzarla noi una cartina di Monza da mandare ai nostri disegnatori per spiegare come arrivare dalla stazione alla Biblioteca Civica. È la terza città della Lombardia e a fatica si è riusciti a segnalare la Galleria Civica con un cartello. Vediamo quanti soldi sono spesi per la cultura a Monza rispetto a quello che viene speso per la sicurezza. È pazzesco. Eppure, con i conti che ha, l'assessore alla Cultura ha fatto miracoli.

Monza è una città che deve ancora capire cosa farà da grande. Per adesso affoga nel cemento, nel traffico e nelle scelte più demenziali che si possano prendere. Forse deve farsi male ancora per un po' prima di capire che bisogna intraprendere un'altra strada. È impraticabile, fisicamente e culturalmente. Quelle poche iniziative di avanguardia prese sul piano culturale, come quella dell'ex assessore Bemporad sulle biblioteche dei ragazzi, stanno rapidamente perdendo terreno, Milano si sta per riprendere l'egemonia anche su quell'aspetto, che prima poteva essere un fiore all'occhiello per questa città. Noi comunque a Monza ci teniamo, la nostra sede rimane qui e non abbiamo voglia di andarcene. Certo, a volte sembra che facciano di tutto per farti andar via. La cosa che disturba è la consapevolezza che la città ha un potenziale enorme che non si riesce a sfruttare, soprattutto in ambito turistico. Ma per riuscirci devi puntare sulla comunicazione. Invece tutto ruota solo intorno a quella settimana in cui c'è il Gran Premio, e quindi intorno ad affari di quel tipo. Finito quello, è finito tutto. Se io fossi un imprenditore direi che è disastroso, perché mi crea sovrapresenza in un periodo limitatissimo e nulla nel resto dell'anno. Cosa faccio, apro un'attività stagionale di una settimana? Se l'altra attività prevalente è il cemento, ecco che hai la città dormitorio.

Gli autori di Vorrei
Simone Camassa
Simone Camassa

Nato a Brindisi il 7 maggio del 1985. Insegnante di Italiano, Storia e Geografia nella scuola pubblica, si è laureato in Lettere, in Culture e Linguaggi per la Comunicazione e in Lettere Moderne, sempre all'Università degli studi di Milano. Suona la chitarra elettrica (ha militato in due gruppi rock, LUST WAVE e BLACK MAMBA) e scrive poesie.

Appassionato di sport, ha praticato il nuoto a livello agonistico fino ai diciotto anni, per un anno ha anche giocato a pallacanestro. Di recente, è tornato al cloro.
È innamorato della letteratura in tutti i suoi aspetti, dalla poesia fino al fumetto supereroistico statunitense. Sogna di realizzare un supercolossal hollywoodiano della Divina Commedia, ovviamente in forma di trilogia e abbondando con gli effetti speciali.

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