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L'arte di strada sa fare la differenza fra degrado e bellezza. Perché anche imporre il grigio di un palazzone di cemento può essere un’azione violenta

 

Camminando per le strade di qualsiasi città, o anche sbirciando le periferie della propria dal finestrino di un treno capita di farsi sorprendere da uno strano fenomeno. Man mano che ci si allontana dal centro abitato, si scorgono scritte e murales che si susseguono sui muri, rincorrendosi con la velocità dei nostri passi. Basta puntare un po’ più in là lo sguardo e concedere attenzione a pensiline di autobus, finestre di scuole, pannelli stradali, treni.

Alcuni scorci diventano più caratteristici così decorati. Basti pensare alla chiesa di Sant’Antonio Abate a Pisa e al suo murales “Tuttomondo”, opera dell’artista Keith Haring. Non riuscirei ad immaginarlo senza i suoi omini radiosi e colorati.

 

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Keith Haring

 

C’è un palazzo all’angolo di una qualsiasi salita in un qualsiasi paese, che è autografato da un “ti amo” sbiadito, scolorito dal sole e dalle intemperie come quell’amore ormai passato.

I muri sono taggati con strani nomi, sparsi un po’ ovunque come se volessero marcare un territorio. Ogni tanto graffiti, più o meno decifrabili di qualche writer improvvisato, colorano le pareti. Li immagino, di notte, a fare la posta ai treni in stazione armati di spray.

Arte di strada, street art, arte urbana, urban art sono diversi modi di indicare una forma espressiva del nostro tempo che si manifesta in luoghi pubblici, per la strada, spesso illegalmente.

L’arte urbana vive senza cornici canoniche, rompe quella caratteristica sacrale che vede l’opera conservata al riparo dai tempi e la mostra nella sua più fugace e fuggitiva bellezza. È questa la parte più importante di questa rivoluzione copernicana: un’arte alla portata di tutti, dal più giovane al più anziano, dal più attento al più distratto, dal più sensibile al più superficiale. La strada è un nuovo museo, un museo a cielo aperto, gratuito ma soprattutto effimero.

È la strada a prendere il posto del museo, e ciò che ne nasce risulta completamente integrato nel tessuto sociale, si riconnette con la comunità, non è più qualcosa di avulso dal contesto, ma dialoga con le persone, racconta le loro storie. E si sa che la storia esiste solo se raccontata. Ne è un esempio il MURo- Museo di Urban Art di Roma che nasce “dal basso”, ovvero non è imposto ai cittadini e al territorio da amministrazioni, curatori finanziatori ecc. Le opere vengono proposte e discusse coi rappresentanti dei comitati di quartiere e con i cittadini stessi. Sono sicura che se si chiedesse a ognuno degli abitanti di quel quartiere di fare da guida al “proprio” museo, sarebbero in grado di descrivere ogni opera.

Negli ultimi anni la street art (o urban art) da piccolo fenomeno di nicchia è diventata un vero e proprio movimento culturale.

Trae le sue origini dal graffitismo (o writing) che, contrariamente alla street art vera e propria, è più incentrato sullo studio e sull’espressione della lettera. Il writing nasce in un contesto sociale metropolitano di competizione, dove gang di vari quartieri devono affermare la propria presenza e, per farlo, utilizzano il tag, pseudonimo che definisce la propria identità, ricalcando determinati concetti o caratteristiche personali. La street art, che, a differenza del graffitismo, non è legata necessariamente all’uso della lettera, vede come protagonisti animali e soggetti spesso accompagnati da slogan. Le motivazioni che spingono gli artisti a praticare la street art sono le più svariate: dal desiderio di abolire la proprietà privata rivendicando strade e piazze, alla necessità di contestare politica e società. Altri semplicemente vedono la strada come un luogo in cui esporre con la possibilità di avere un pubblico vastissimo.

 

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Blu

 

Recentemente ho chiesto a delle persone che conosco e che hanno viaggiato, di portarmi un souvenir dai posti visitati. Ho chiesto loro di raccontarmi il loro viaggio in immagini, quelle immagine rubate alla strada raffiguranti quelle opere uniche ed effimere. Ho raccolto fotografie di Berlino e dei graffiti realizzati sui resti del Muro, degli stencil di Bansky a Londra o nella Striscia di Gaza e della sua guerrilla art; dei personaggi malati, goffi, impacciati e indifesi di NemO’s a Milano, critica al senso di perfezione e immortalità al quale ci ha abituato la società di oggi; degli umanoidi dai connotati sarcastici di Blu a Modena; dell’Orlando Furioso di Ozmo; della street art al femminile di Alice Pasquini con le sue opere che dialogano con l’ambiente; dei segnali stradali di Clet a Firenze.

Ma questi sono solo alcuni dei nomi degli artisti che decorano le strade delle nostre città. Anzi, sono solo i più famosi che devono parte della loro fama, sicuramente alla bravura, ma anche al fatto di lavorare in panorami culturali di ampio respiro come Bologna, Roma e Milano, (centri principali della street art italiana).

Basterebbe andare in una di queste città per avere una visione globale dell’arte urbana del nostro Paese. L’Italia, nella sua storia, ha dato i natali a grandi artisti, basti pensare al medioevo o al rinascimento. Lo stesso Michelangelo decorava le pareti dei più celebri palazzi architettonici dell’epoca. Suo (cioè fatto da lui) è il profilo abbozzato su un mattone di palazzo vecchio a Firenze (secondo la leggenda eseguito con lo scalpello, di spalle) realizzato per farsi beffa del suo rivale Leonardo per decretare la sua bravura e superiorità artistica. Più arte urbana di così!?

 Ma non serve fare un salto all'indietro di 5-600 anni per arrivare alle origini delle cose. E non serve (da buoni italiani) decantare le nostre origini e i nostri illustri natali sepolti da secoli. Le cose nascono dall’animo umano in ogni tempo, e dal desiderio di quest’ultimo di lasciare il segno. Che sia fatto con uno scalpello o con una bomboletta poco importa, quello che importa è che abbia un messaggio chiaro e semplice.

Se il fine di tutti questi interventi è quello di rendere un posto più bello e buono (come i greci chiamavano la bellezza), allora tale fine sembra essere pienamente raggiunto. Nel momento in cui le strade iniziano a somigliare ai corridoi di un museo (seppur lontanamente), si comincia quel ripristino della bellezza di cui abbiamo tanto bisogno, ma soprattutto si percepisce l’intenzionalità di rendere migliore il posto in cui si vive.  

Ho raccolto anche la poesia di strada. Vi sorprendereste di quanta poesia sia nascosta tra vicoli delle nostre città. E per poesia intendo quella vera, quella spontanea, dalle frasi di De Andrè, alle domande esistenziali, a messaggi d’amore di timidi mittenti a sognanti destinatari.

“Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo” recitano i muri della darsena di Milano, opera del poeta di strada Ivan Tresoldi.

“State male” recita, invece, un muro anonimo nella provincia di Lecce. Anche questa è poesia.

 

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Spesso si assiste all’imbarazzante ignoranza di fronte a questo tipo di arte, data dall’incapacità di comprenderne le motivazioni. Si sente parlare di degrado e di violenza urbana. Può capitare così, che dei volontari, nell’intento di pulire la città di Milano cancellino il variopinto murale di Pao in via Cesariano attuando una sorta di vandalismo al contrario, come lo chiama lo stesso artista. Ma, aggiunge Pao, “anche il grigio può essere un’azione violenta. Se i graffiti migliorano la qualità estetica perché rimuoverli a prescindere?”.

Si è parlato di violenza urbana anche a Messina per le opere di Nemo’s. “Parlare di violenza urbana- questa la sua obiezione- riferendosi ad un disegno su un muro, in un paese come l’Italia che, a partire dagli anni ’80, ha subito gli effetti del boom edilizio con conseguenti abusi e illeciti, lo trovo assurdo. I palazzinari, la mafia, le giunte comunali che coprono una collina di cemento o svuotano un fiume che ciclicamente straripa portando danni e morti, creano violenza urbana”.

Baricco a questo punto (e anche io, francamente) si chiederebbe chi sono i nuovi barbari, i nemici che costantemente minacciano i nostri orizzonti? Siamo spesso abituati  a difendere un confine che separa ciò che è noto da ciò che ancora non ha nome, civiltà da barbarie. Tutto ciò che  può essere incluso in un processo di mutazione, di degrado ci appare come un villaggio saccheggiato.  Ma ciò che si salverà non sarà quello che abbiamo tenuto al riparo dai tempi ma ciò che abbiamo lasciato mutare perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.

La noncuranza, l’indifferenza, chi permette che crollino degli scavi archeologici, che vengano sotterrati dei rifiuti e che i nostri paesaggi vengano invasi dalla speculazione edilizia, credo che questi siano i nuovi barbari che minacciano i nostri orizzonti, e non qualche writer di periferia che si aggira di notte col bavero alzato e spray alla mano.

 

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Nemo

 

Qualche anno fa (quasi quaranta, per l’esattezza) un giovane trentenne di nome Peppino Impastato recitava: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità […]. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.

Insomma,la bellezza salverà il mondo”, diceva Fëdor Dostoevskij, ma mi sento di aggiungere che la bellezza non salverà proprio nulla se noi non salviamo la bellezza. La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l'arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli.

Ecco, se davvero non si riesce ancora a comprendere la differenza tra qualcosa che deturpa e qualcosa che invece abbellisce, se non si riesce a capire la differenza tra cosa è arte e cosa è degrado, e che anche imporre il grigio di un palazzone di cemento può essere un’azione violenta, se non siamo in grado di stupirci e meravigliarci positivamente davanti ad un po’ di arte che dialoga con il nostro quotidiano, allora hanno ragione i nostri amici salentini quando a Monteroni di Lecce scrivono sui muri: “state male”!

 

Gli autori di Vorrei
Caterina Guerrieri
Caterina Guerrieri

Dopo quasi dieci anni di camminate in giro per l’Italia e la Francia, sono ritornata ad Altamura, il paese in cui sono nata nel 1987 e che avevo lasciato per motivi di studio. Mi sono laureata nel 2012 in Restauro e Conservazione di dipinti su tela all’Accademia di Belle Arti di Lecce. Quando capita faccio anche la restauratrice, ma nel resto del tempo mi dedico alla scrittura e al disegno (le mie grandi passioni) e collaboro con l'associazione culturale “Link”, che si occupa di mobilità giovanile e interculturalità.

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