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La candidatura sarebbe un espediente per valutare lo stato delle cose e capire se la città avrebbe le carte in regola. È tempo infatti di fare il salto di qualità: ci sono tutti i fattori per fare del capoluogo brianteo una città d’arte. O manca qualcosa?

Con questo testo inizia una breve serie di appunti sul sistema culturale monzese. Proveremo a inquadrare la situazione da diverse angolazioni, lasciando la porta aperta a contributi esterni che vogliano integrare, correggere, controbattere quanto andremo a scrivere. Sarà sufficiente inviare una email a direttore@vorrei.org

Il punto di partenza è la spinta che la città mostra da alcuni anni a questa parte verso un vero e proprio riposizionamento strategico della propria identità, sia in termini di marketing territoriale che sostanziali: da città dell’autodromo (nel bene e nel male l’unico appuntamento/simbolo per cui Monza viene ricordata) ambisce a diventare una vera città d’arte e cultura. Non è certo l’unica, basti considerare la folla di candidature arrivate al Mibact per la città capitale italiana della cultura del 2018: da Palermo a Spoleto, da Settimo Torinese ad Altamura, decine di città grandi e piccole hanno presentato il proprio dossier con la speranza — e alcune con una faccia tosta spettacolare — di vincere la concorrenza e aggiudicarsi i finanziamenti previsti. Non staremo qui ad analizzare i progetti presentati dalle candidate, ma useremo questo pretesto per lanciare un’idea, anzi proporre un espediente: candidare Monza a capitale italiana della cultura. Non importa in realtà candidarla realmente, il milione di euro in palio non è poco, ma non cambia neppure le sorti di una città dell’importanza di Monza. Quello che importa è provare a riflettere sulle reali potenzialità del capoluogo brianteo, immaginare quali carte avrebbe da giocarsi e quali no. Capire insomma se sarebbe pronta o no.

Partiamo quindi dal cosiddetto patrimonio culturale tangibile.
La Villa Reale, il Parco, il centro storico, il nuovo Museo Civico sono gli elementi principali dal punto di vista delle strutture pubbliche, ad essi si potrebbe aggiungere il Museo e tesoro del Duomo (che pubblico non è), una interessante trama di archeologia industriale (in parte pubblica, in parte no) e ovviamente il benedetto autodromo, che finora non ha brillato per protagonismo culturale (basti pensare al deludente Museo della velocità). Sicuramente trascuriamo qualcosa, ma consideriamolo un gioco o una sintesi, poi saranno i nostri tre lettori a ricordarci altri tesori, scrivendoci. Vediamo più in dettaglio lo stato di salute di ciascuno di questi elementi.

 

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Da sinistra il Sindaco di Monza Roberto Scanagatti, alle sue spalle Attilio Navarra di Italiana Costruzioni e Marco Lamperti, direttore del Consorzio Villa e Parco di Monza. Al centro il ministro Dario Franceschini. Alla sua sinistra l'onorevole Roberto Rampi e l'assessore alla cultura di Monza, Francesca Dell'Aquila.

 

La Villa reale, com’è noto, soffre di una balcanizzazione dei suoi spazi e della sua conduzione. Come l’ex Jugoslavia alla morte di Tito si frantumò in tanti stati che si odiavano fra di loro (fino a giungere ad una terrificante guerra), il complesso è in mano in parte al Consorzio (a sua volta composto da Mibact, Regione Lombardia, Comune di Monza, Comune di Milano, Provincia, Confindustria e Camera di Commercio) e in parte a Nuova Villa Reale Spa, la società creata ad hoc dalla Italiana Costruzioni, che si aggiudicò il bando per il restauro e la successiva gestione. Il risultato è che al suo interno si tengono mostre e iniziative di natura e qualità assai diversa. Ciò potrebbe diventare una ricchezza — la varietà intendiamo — ma per il momento diciamo che c’è ancora molto da lavorare: per armonizzare l’offerta culturale, per garantire standard qualitativi adeguati e per non sconcertare cittadini e visitatori. Pensiamo, ad esempio, alle grandi mostre che si sono avvicendate dall’apertura ad oggi. Nell’autunno del 2014 si fece il botto con Steve McCurry e le sue fotografie note in tutto il mondo, un successo di pubblico e di critica. Nella primavera successiva e in concomitanza con Expo arrivò un minestrone alla Goldin (quello delle mostre tipo Da Tutankamen a Van Gogh per capirci); in un certo senso coerente con il carrozzone fieristico milanese, Regione Lombardia e Skira vollero mettere  insieme sotto il titolo Il fascino e il mito dell’Italia ben 6 secoli di arte con il risultato più scontato, un percorso scientifico disarmante, un allestimento soffocante, opere messe lì per caso — seppure ci fossero veri capolavori — e un deludente riscontro di pubblico e di critica, con l’aggravante di un grande spreco di denaro pubblico (si parlava allora di circa 300 mila euro). Arriviamo a questa estate con la mostra delle fotografie di Giovanni Gastel per la rivista Rolling Stone in cui si susseguono 100 fra i volti più noti del micromondo musicale italiano. Una mostra senza infamia e senza lode, con scatti portati a casa con tanto mestiere da un fotografo molto glamour. Ma, soprattutto, una mostra già tenuta solo un anno prima alla Fabbrica del Vapore di Milano, cioé a meno di 16 km dalla Villa Reale. Può essere all’altezza delle aspettative una proposta così?
Poco conta che a promuovere le mostre sia ora uno ora l’altro padrone di casa, al visitatore interessa che ne valga la pena, soprattutto se deve arrivare da lontano.

 

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Steve McCurry all'apertura della sua mostra in Villa Reale

 

Ci siamo concentrati sulle mostre nel secondo piano nobile della Villa, il più ambìto, ma nel frattempo se ne sono viste altre nel Serrone, a volte molto belle a volte meno. Così come va ricordato che al Belvedere (il sottotetto) è in permanenza la selezione dei pezzi di design della Triennale di Milano e che gli appartamenti reali hanno vita a sé, sempre nell’attesa di riavere gli arredi originali e alle prese con i tentativi di commistione tecnologica con la realtà aumentata. Nell’insieme si percepisce la mancanza di coordinamento, che questo sia conseguenza dell’assenza di un direttore artistico o scientifico possiamo solo supporlo, visto che il tentativo fatto da Navarra con Alessandra Galasso è durato solo sei mesi e non ha lasciato alcuna traccia se non nelle cronache dei quotidiani, lì dove è finito anche il rapporto per la sub gestione del primo piano nobile.

Quello dell’assenza di un direttore è un problema su cui torneremo ancora, visto che è comune ad altre realtà culturali a Monza, per ora teniamolo lì.

 

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Uno dei concerti di I suoni della natura, Parco di Monza, luglio 2016

 

Del Parco di Monza su Vorrei si è sempre parlato moltissimo, tanto che in questa occasione ci sembra davvero inutile tornarci, basterà scorrere questo elenco per leggere pareri anche molto diversi. Sottolineamo qui solo una perplessità acuita dalle recenti diatribe intorno a Ligabue sì, Ligabue no: facciamo fatica a individuare la strategia che sta alla base di certe scelte. A cominciare dalla tre giorni di musica tamarra degli Mtv Days dello scorso anno. Nei giardini della Villa Reale — un luogo dove non è permesso neppure giocare a palla ai bambini — si è accolta una manifestazione che fa riferimento ad un brand in rovinosa caduta, emblema della musica di consumo, da più parti indicato come fra i maggiori responsabili dello svilimento culturale del settore musicale internazionale. Anche tralasciando la questione delle questioni (il Parco come contenitore o come entità naturale autosufficiente?), ci sembra che manchi una riflessione sulla natura delle manifestazioni che ospita, che dovrebbe ospitare e quindi sulla loro selezione. Perché se il fardello dell’autodromo e del Gran Premio è atavico (e potrebbe essere risolto dall’ingordigia di mister Ecclestone), bisogna pure chiedersi cosa apporti in termini di valorizzazione ogni singola manifestazione, soprattutto se ha un grande impatto, al di qua o al di là dei limiti della sostenibilità ambientale, economica e culturale. Una valutazione concreta e verificabile, qualcosa di più delle cifre distribuite negli anni dalla Camera di Commercio. Qualcosa che vada oltre il culto del “successo di pubblico”, perché va dimostrato concretamente che alla città, ai suoi cittadini e al suo patrimonio culturale ogni singola manifestazione apporta beneficio. In autodromo, nel Parco o in Villa, non basta dire che 20 o 100 mila spettatori sono un successo: per chi e in quale ottica? E inoltre, qual è il nesso, la relazione fra codeste manifestazioni e il contesto del Parco? Queste sono le domande che dovrebbe porsi una entità che non aspetta solo le proposte che arrivano dall'esterno, ma che impone la propria linea politica e culturale.

 

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I Musei civici. Inaugurati nel 2014 nell’ex Casa degli umiliati - in pieno centro - hanno finalmente dato una sistemazione a buona parte del patrimonio artistico e archeologico conservato dal Comune di Monza. Come tutti i musei, sconta la scarsa attenzione dei cittadini, molto più pronti ad affollare pizzerie e birrerie. Eppure assolve discretamente al suo compito principale: conservare e preservare le testimonianze artistiche e storiche della città. In maniera poco appetibile? incompleta? facendo poco per farsi conoscere? Ci sarebbe materiale su cui confrontarsi, ragionare e partecipare (un bene comune dovrebbe essere nelle attenzioni di tutti i cittadini), invece in questi due anni del Museo si è parlato solo qualche settimana fa quando un articolo di Riccardo Rosa sul Corriere della sera ha fatto i conti e ha scoperto che un museo costa tanto e incassa poco (l’acqua calda!). Strumentalizzazioni politiche e buffe iniziative di rilancio — spontanee ed esterne — si sono succedute nei giorni seguenti. Ma come sempre — sempre! — succede in casi in cui non si va al cuore della questione, passato il polverone, passato il problema. Ma non può essere così, perché per i musei non si può fare solamente il calcolo aritmetico entrate/uscite. Un museo è un servizio alla città, non un discount. Sarebbe come pretendere che la scuola porti utili. Si dovrebbe parlare piuttosto del perché è ancora poco visitato, del senso delle mostre temporanee che propone, di quello che potrebbe fare in più per allargare il pubblico (si chiamano attività di Audience development, che non è solo marketing e pubblicità). Ma di questo chi e dove si parla? La città tace. Così come un paio di anni fa su queste pagine proponemmo la rete dei musei del territorio, poche settimane fa abbiamo avanzato alcune proposte per favorire l’attenzione nei confronti dell’ex Casa degli umiliati. La proposta della rete non ha finora trovato alcun riscontro, vedremo le seconde. A questo punto va segnalato per trasparenza che chi scrive è stato autore del progetto di immagine coordinata del Museo (con gara pubblica vinta pochi mesi prima dall’apertura) e successivamente consulente per la progettazione dei materiali grafici (con bando successivo e ancora in corso). Per lavoro e per spirito civico, insomma, cerchiamo di fare la nostra parte, ma le attività di comunicazione e coinvolgimento di un museo sono assai più  articolate di quanto ci è stato richiesto e affidato come compito.

 

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La cappella Zavattari il giorno della sua riapertura dopo i restauri

 

A pochi metri dalla Casa degli umiliati c’è il Duomo e l’attiguo Museo e Tesoro. Nel primo, dallo scorso anno è nuovamente visitabile, dopo la chiusura per restauro, la cappella Zavattari. Straordinaria raccolta di pitture murali del Quattrocento, commissionato probabilmente dagli Sforza che attraverso il tributo alla regina longobarda Teodolinda (di cui le pitture narrano gli episodi biografici salienti) vollero celebrare la propria fusione con gli Sforza. Considerando che è ancora tutto in fase di studio e quindi da confermare, potrebbe essere considerato un esempio di storytelling ante litteram, buono per sdoganare faccende di potere che di sacro avevano assai poco. Nella stessa cappella è conservata anche la Corona ferrea, componendo così un insieme di simboli a metà fra il religioso e il terreno che fanno della chiesa dedicata a San Giovanni un punto di riferimento assai appetibile (senza dimenticare l’albero di Arcimboldo e tutto il resto al suo interno). Se ci si aggiunge il Museo sotterraneo, il pacchetto si fa ancora più allettante. Qui la gestione non è pubblica, è la Fondazione Gaiani ad avere le chiavi. A più riprese ci sono state segnalate difficoltà di altri attori in campo a relazionarsi con essa per promuovere iniziative comuni (dalla creazione di un biglietto di ingresso cumulativo con l’altro Museo alla messa a disposizione del materiale di studio). Vogliamo essere ottimisti e pensare che siano solo difficoltà transitorie e che presto saranno superate, la conoscenza e la cultura costituisono un patrimonio che con la condivisione aumenta il suo valore.

Il Centro storico nel suo insieme, seppur deturpato nel secolo scorso dalla costruzione di orrendi palazzoni fin nel suo cuore, riesce a conservare un certo fascino grazie soprattutto all'Arengario e ad alcune chiese (Santa Maria in strada, San Pietro Martire e Carrobiolo fra le altre) che magari non custodiscono particolari tesori come invece accade a Bergamo Alta per esempio, eppure se la giocano. Negli ultimi mesi è in corso una battaglia fra alcune associazioni cittadine e l’Amministrazione comunale che vorrebbe promuovere la costruzione di chioschi commerciali al suo interno o nelle immediate vicinanze. Che possano essere dei chioschi a vitalizzare una zona che di sera è per lo più un deserto è idea che ci lascia perplessi, ma l’intima natura dei monzesi non ci è così chiara, per cui non diciamo altro.

Per ultima l’archeologia industriale. È questo un capitolo tutto da scrivere a Monza. Altrove è al centro della riflessione e programmazione culturale sin dagli anni Ottanta, ad esempio nella Settimo Torinese candidata a Capitale 2018 si è lavorato a un piano curato dal regista Gabriele Vacis e oggi se ne vedono i risultati. La grande tradizione manifatturiera della città potrebbe essere un grande spunto per un ripensamento degli spazi che vada oltre la riconversione in abitativo. Un punto di partenza è certo il nuovo PGT appena adottato che riduce drasticamente le nuove volumetrie e ferma o quasi il consumo di territorio non costruito. Ma ci vorrebbe uno scarto, una spinta culturale che non tocca alla politica.

Ci vorrebbe una città propositiva e vitale che solleciti la politica, suggerisca orizzonti innovativi. Ci vorrebbe un ceto intellettuale che guardi al futuro, a fianco di quello che Monza può già vantare: così attento al passato, forse solo al passato. Ma in questa città la riflessione e l’elaborazione del futuro è attività che non trova tempo e non trova spazio. Colpa della vicinanza a Milano? colpa della crisi economica? deficit di personalità di livello? Anche di questo parleremo nelle prossime puntate.

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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