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Becco Giallo ha pubblicato “Il caso Seveso”, scritto da Francesca Cosi e  Alessandra Repossi, disegnato da Sara Antonellini ripercorre i giorni del luglio 1976 quando la nube di diossina inquinò la bassa Brianza

 

C’è una casa editrice che quest’anno festeggia il decennale della fondazione e c’è un fatto di cronaca che, sempre in questo 2016, non festeggia il suo quarantennale.

La casa editrice si chiama Becco Giallo e dal 2006 pubblica libri in cui sono messi insieme il linguaggio del fumetto e quello del giornalismo per ricostruire e raccontare storie controverse del passato più o meno recente. Fra i titoli del suo catalogo troviamo Il mostro di Firenze, La scomparsa di Emanuela Orlandi, Il caso Guido Calvi oppure Ilaria Alpi il prezzo della verità, La strage di Bologna, La grande guerra – Storia di nessuno, L’Aquila 3.32 oppure – ancora – Occupy Wall Street, 99% contro il potere, Mi ricordo Beirut. Non è fumetto di intrattenimento insomma, non ci sono super eroi, non ci sono indagatori dell’incubo e neppure cowboy pronti a prendere a cazzotti la sorte. È, come gli stessi curatori dicono, graphic journalism, parente stretto quindi di quelle graphic novel che negli ultimi anni hanno trovato un certa notorietà anche in Italia.

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Il fatto di cronaca invece è l’incidente presso la fabbrica dell’Icmesa di Seveso che nel 1976 causò la dispersione di una nube tossica in Brianza. Si trattava di diossina, un gas molto nocivo usato anche dagli USA nella guerra in Vietnam. Un fatto che proprio questa estate è stato ripreso da uno dei volumi di Becco Giallo. Sulla ricostruzione curata da Francesca Cosi e Alessandra Repossi, la disegnatrice Sara Antonellini ha realizzato un fumetto di circa 80 pagine in cui, a partire dal 10 luglio, si rivivono in presa diretta i giorni del disastro. I silenzi dell’azienda, la paura degli operai e dei cittadini, i primi segnali dei danni alle coltivazioni, agli allevamenti, ai bambini. Il racconto è lineare, didascalico, giornalistico. Il disegno molto pulito e con tanti “debiti” di riconoscenza a quello giapponese, stampato in scala di grigi anche se probabilmente a colori in origine (perdendo qualcosa in incisività, ma è solo una nostra supposizione). Sembra essere proprio la chiarezza della narrazione la scelta stilistica fatta dagli autori. Non si va mai sopra le righe, neppure nei passaggi più tragici o in quelli più toccanti.

Nell’introduzione firmata da Massimiliano Fratter (la trovate per intero in fondo a questo articolo) viene ricostruito anche il contesto in cui il fatto accadde allora e quello in cui viene ricordato ora. Fratter parla della Brianza bianca (democristiana fino al midollo), delle battaglie di Laura Conti (l’ambientalista a cui è dedicato il circolo Legambiente di Seveso) per arrivare alle vicende di questi ultimi anni, al Bosco delle querce - che finalmente ha un senso e una vita - e al rischio a cui quell’area potrebbe andare incontro per colpa della Pedemontana (ne scrivevamo qui).

Come si usa dire, un libro necessario. La sezione “Per saperne di più” in chiusura del volume dimostra che sui fatti di Seveso ’76 si è scritto, filmato e cantato molto (più in basso un filmato con Canzone per Seveso di Antonello Venditti), eppure in questi anni così distratti e superficiali un lavoro che riesce a mettere insieme l’immediatezza del linguaggio dei fumetti con l’accuratezza giornalistica della ricostruzione è davvero il benvenuto, alla faccia di chi (lo ricorda sempre Fratter nell’introduzione) già nel 1996 titolava “Un anniversario da dimenticare”.

 

 

 

Il passato, il presente, il futuro di Seveso

di Massimiliano Fratter, direttore del Bosco delle Querce di Seveso e Meda

C’ero. Ed ero un bambino, in quel caldo sabato di luglio del 1976. Un altro secolo. Un’altra storia, forse. E ho tre ricordi nitidi. Il giorno dell’incidente con il fischio – durato alcuni secondi – e l’odore. Insopportabile. Che inquinò l’aria per alcune ore, almeno fino a sera. Il secondo frammento risale a dieci giorni dopo, quando la notizia della fuoriuscita della nube tossica dall’Icmesa è ormai di dominio pubblico, e i miei genitori decidono di “evacuarmi” (la mia famiglia non dovette lasciare casa) per portarmi dagli zii a Meda (a Meda!), ma a nord della fabbrica che si trovava proprio al confine tra i due paesi. Il vento, al momento della rottura del disco di sicurezza (la sicurezza di chi?) del reparto B soffiava in direzione sud-sudest. La zona dove abitavano i miei zii non era stata colpita. O almeno, non il 10 luglio. Perché l’Icmesa produceva e inquinava dal 1948 (i lavori di costruzione dello stabilimento erano terminati un anno prima) e non c’erano all’interno dei suoi obsoleti impianti ventilatori che potessero dirigere gli inquinanti da Meda verso Seveso. Perché farlo, poi? C’era il fiume dove scaricare tutto quello che era possibile scaricare, e alle lamentele della popolazione o delle autorità si rispondeva, spesso, con il denaro o con la minaccia dei licenziamenti. E il posto di lavoro era sacro, nell’Italia post seconda guerra mondiale, nell’Italia degli anni ‘50. Nell’Italia del boom economico. Come oggi. In fondo, quando morivano le pecore o gli animali si pagava, e di tosse non è mai morto nessuno. Questi italiani. Sempre pronti a lamentarsi, invece di ringraziare chi aveva portato denaro e benessere. E comunque all’Icmesa non si inquinava: parola di Givaudan Hoffman La Roche. Proprietari che vivevano in Svizzera. Dove ordine e pulizia sono valori sacri. E per gli ansiosi da presunto inquinamento c’era sempre il Valium (marchio registrato), perché Hoffman La Roche teneva (e tiene ancora) alla salute. E al profitto, naturalmente. L’ultimo mio ricordo è legato al periodo successivo e non può essere collocato in un periodo preciso. Almeno nella mia mente. Un ricordo fatto di divise e tute. Erano quelle dei soldati chiamati a pattugliare la zona più contaminata, la famigerata zona A (c’era poi una zona B – non evacuata – e una zona di Rispetto, con tracce minori di diossina. Io vivevo in quest’ultima ed ero “rispettato”, quindi). E quelle degli addetti alla bonifica. Crescevo e loro erano lì, parte integrante del mio – del nostro – vivere quotidiano, e raccontavano, evidenziavano una normalità “altra”. Durata complessivamente quasi dieci anni e che via via cercava di riportare la città a una vita normale, con la fine dei lavori di bonifica che terminano con la nascita del Bosco delle Querce, nel 1983, e i lavori di realizzazione del parco terminati tre anni dopo, nel 1986.

20160912 seveso 1Sono rimasto. E poco più che ventenne (siamo all’inizio degli anni ‘90 dell’altro secolo), incontro un piccolo gruppo di donne e uomini che hanno deciso di impegnarsi per il bene della città “adottando” un’area degradata, il Fosso del Ronchetto. 7,5 ettari lontani dal Bosco delle Querce ma che rappresentano il desiderio di prendersi cura della città dove vivono. Seveso, appunto. Sono le socie e i soci del locale circolo di Legambiente, dedicato a Laura Conti, medico e all’epoca dell’incidente consigliera regionale in Lombardia, molto vicina alla Comunità. Lei che arriva da Milano per cercare di comprendere. Per aiutare. Per proporre. Amata da pochi, avversata da molti. Donna dalle posizioni forti e dalle parole chiare su molti temi che la democristiana Brianza non vuole proprio ascoltare. Di cui non si deve parlare, meglio tacere. E lasciar passare il tempo. E dimenticare: “Un anniversario da dimenticare”. Così Il Cittadino, il settimanale locale cattolico più letto all’epoca, ricordava il ventesimo anniversario dell’incidente, il 10 luglio 1996. Le amiche e gli amici del Circolo sostengono invece che la rielaborazione di ciò che è accaduto e delle sue conseguenze è un’opportunità di crescita e cura per una Comunità ancora dolente. Nonostante la voglia di rimozione. Crediamo (perché anch’io mi iscrivo a Legambiente), che la Storia sia uno strumento di sollievo, e alla fine del secolo iniziamo a elaborare un progetto che diverrà poi la colonna portante di un percorso durato più di quindici anni. Nasce il “Ponte della Memoria”. Iniziamo a ricostruire l’archivio sociale della “vicenda Seveso”. Ascoltiamo storie. Raccogliamo storie. Raccontiamo la Storia. Entriamo al Bosco delle Querce. Il parco è aperto al pubblico dal 1996, ma quasi nessuno lo frequenta. All’inaugurazione l’allora presidente di regione Roberto Formigoni parla davanti al deserto (tranne le cosiddette Autorità e pochi obbligati non c’è praticamente anima viva). Il parco è una sorta di non-luogo. Io stesso, che abito a poche centinaia di metri dall’ingresso, non ci sono mai entrato. Con il “Ponte della Memoria” inizia un percorso di rielaborazione e riappropriazione che porterà alla vera e propria apertura del Bosco nel 2004, quando, davanti a centinaia di sevesine e sevesini (durante la giornata continuo fu l’afflusso per visitare il percorso appena aperto), viene inaugurato il percorso della Memoria all’interno del parco: undici pannelli per cercare di non dimenticare. E sono ancora tante le persone che negli anni donano all’Archivio i propri documenti. Le scuole iniziano a chiedere di essere accompagnate al Bosco per conoscere. E il progetto trova il sostegno istituzionale del Comune di Seveso e della Fondazione Lombardia per l’Ambiente, nata nel 1986 proprio per valorizzare l’esperienza di Seveso e che, per la prima volta, sostiene economicamente un progetto per la Comunità. Meglio tardi che mai. Oggi la Fondazione ha trovato la sua sede definitiva a Seveso, e anche questo è un passo verso la pacificazione: perché Seveso, la sua esperienza e il lavoro stesso della Fondazione non sono più qualcosa da nascondere, da relegare esclusivamente nell’ambito tecnico-scientifico, ma diventano nomi e buone pratiche da narrare. Le direttive europee in materia di rischio industriale prendono il nome di “Direttiva Seveso”.

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La Città diviene un luogo da visitare e conoscere. Sono ancora qui. Il Bosco delle Querce è diventato la mia seconda casa. E il mio lavoro. E quanto seminato con il Ponte della Memoria continua a dare buoni frutti. Da coltivare. Per fare finalmente altri passi in avanti senza omertà o silenzi rispetto anche agli angoli meno chiari della vicenda. O a quelli volontariamente taciuti (anche dal sottoscritto, all’epoca responsabile del Progetto) perché non si dovevano alterare alcuni “equilibri sensibili”. Il Ponte era sostenuto dal Comune. Dalla Fondazione. La Brianza ha cambiato colore (verde, azzurro, rosso pallido), ma è solo un’apparenza. Perché nella propria intimità è sempre rimasta Bianca, Cattolica, Reazionaria. Ed è meglio non stimolare nervi ancora scoperti come i risarcimenti o l’aborto (nel 1976 in Italia l’aborto non era ancora legale, ma a Seveso furono autorizzati gli aborti a scopo terapeutico, con le donne che sceglievano questa strada sottoposte a un vero e proprio processo, quasi una tortura, senza possibilità di assoluzione). Tutto è Passato. Andiamo avanti. Fino a un certo punto: perché il processo di pacificazione non troverà pieno compimento fino a quando non si deciderà di sanare tutte le ferite. Senza tacere. Con i contributi di tutti e di tutte. Anche con l’apporto di Alessandra Repossi e Francesca Cosi, e con le tavole di Sara Antonellini. Su Seveso si è scritto tanto. Magari troppo e qualche volta a sproposito. Mai si era disegnato. È questa, dunque, una prima volta importante. Ricca, che deve far riflettere. E che non mette un punto definitivo, purtroppo. Perché c’è un altro disegno. Quello di un’autostrada che vorrebbe passare dove oggi c’è il Bosco delle Querce. Sbancare i terreni mai bonificati. Quelli un tempo classificati in zona B e dove, sotto, si trova la diossina. Riportare a Seveso le tute bianche, visto che all’interno del cantiere si dovrà operare in sicurezza. Ci sono il progetto definitivo e la volontà politica di Regione Lombardia, ma per fortuna non ci sono ancora i fondi. Che, sostiene Regione Lombardia, prima o poi si troveranno.

E io osservo il mio territorio dove, nel bene e nel male, ci sono le mie radici, la mia vita. E sono preoccupato. Mi chiedo se tutto quello che abbiamo costruito negli anni sia stato utile. Perché, se dovesse concretizzarsi lo scenario devastante dell’autostrada Pedemontana Lombarda, dovremo rivivere la Storia. Calerà di nuovo il buio. Tornerà per noi l’incubo. E sarà una tragedia. Tutta italiana, questa volta.

 

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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