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Michael J. Sandel in “Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato” si chiede quale sia il ruolo e la portata dei mercati all’interno delle nostre attività sociali, delle relazioni umane e della quotidianità

 

Siamo passati dal'avere una economia di mercato all’essere una società di mercato”.

Sono sempre stato un sostenitore del mercato, in un paese come il nostro ancora fortemente dominato da corporazioni varie, di cui il cittadino è suddito, e da due culture, quella cattolica e quella marxista, non certo amanti di una economia aperta. Considero il mercato una delle espressioni dello spirito umano che si perde nella notte dei tempi, uno degli aspetti fondamentali della convivenza e della libertà.

Ma il mercato non è uno strumento universale. Vi sono aree in cui fallisce nel suo obiettivo di perseguire una maggiore utilità per tutti i soggetti coinvolti, o genera disutilità per la collettività. In questo caso il compito di governare quelle aree (non necessariamente gestirle) ricade sullo stato o altre pubbliche istituzioni. Si tratta soprattutto di monopoli naturali (come le reti ferroviarie), di servizi pubblici che toccano i diritti fondamentali (scuola, sanità, cibo e tetto essenziali), di settori strategici (difesa). Riassumo questa concezione con il noto slogan: “Più mercato, più stato”.

Inoltre, come c’è un mercato delle auto, degli elettrodomestici, delle abitazioni (già qui il mercato presenta aspetti problematici!), c’è un mercato della droga, della prostituzione, del gioco d’azzardo, dei titoli finanziari speculativi, delle armi... Le valutazioni sulla accettabilità o meno del fare mercato di questi beni o servizi non sono più economiche, ma politiche, civili e morali. In base a questi ultimi criteri si cerca di eliminare o quanto meno contrastare questi traffici.

quello che i soldi non possono comprare libro 63319Michael J. Sandel, nel suo recente “Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato” (Feltrinelli, 2015), conduce una analisi più sottile. Pone il quesito più profondo di “quale sia il ruolo e la portata dei mercati all’interno delle nostre attività sociali, delle relazioni umane e della quotidianità”. Auspica “un dibattito pubblico su cosa significhi tenere i mercati al loro posto”, per “chiedersi se esiste qualcosa che il denaro non può comprare”. E mentre riconosce il ruolo del mercato come strumento della vita economica, esprime il giudizio che “siamo passati dallo avere una economia di mercato all'essere una società di mercato”.
 
Egli constata che lo spirito commerciale cambia il carattere stesso dei beni, erode la comunanza, comporta “svilimento, profanazione, rozzezza, inquinamento, perdita del sacro”.

Condivide l’opinione (anche mia) che “l’esaltazione della fede nei mercati” , anche se viene da lontano, ha ricevuto una forte spinta “nei primi anni ottanta, quando Ronald Reagan e Margaret Thatcher sostennero che fossero i mercati, e non i governi, ad avere in mano le chiavi della prosperità e della libertà. Tale credo perdurò negli anni novanta, con il pensiero liberal non ostile ai mercati di Bill Clinton e di Tony Blair, (e da noi nella versione più odiosa, affaristica e delinquenziale, di Craxi e dintorni, n.d.r.)”.

La scuola dovrebbe servire per istruire. Gli ospedali per guarire. Lo sport per promuovere uno spirito competitivo leale e disinteressato. Un dono ha un significato diverso dal suo valore economico. Quando i fini propri di queste attività, comportamenti, gesti vengono sostituiti o anche solo affiancati da ragionamenti o strumenti economici, tendono ad essere snaturati. I calcoli economici con finalità di guadagno tendono ad invadere “la vita famigliare, l’amicizia, il sesso, la procreazione, la salute, l’istruzione, la natura, l’arte, la cittadinanza, lo sport e il modo in cui combattiamo l’idea della morte”.

Citando l’economista Fred Hirsch, Sandel definisce “effetto di commercializzazione” quello che “che si esercita sulle caratteristiche di un’attività o di un prodotto se questi vengono offerti esclusivamente o prevalentemente in termini commerciali anziché su qualche altra base: scambio informale, obbligazione reciproca, altruismo o amore, o perché sentiti come servizio o obbligazione”.

Secondo Sandel questo sviamento produce soprattutto due effetti perversi: l’iniquità e la corruzione.

Il mercato genera di per sé disuguaglianze, perché è basato sulla competizione, ma non necessariamente iniquità. Tuttavia, quando uno dei due contraenti è costretto da necessità impellenti (nutrire la famiglia, curare un malato...) a comprare qualcosa di essenziale per la sopravvivenza, o a vendere la propria dignità come essere umano, o addirittura parti del proprio corpo (un rene, l’utero in affitto), allora il mercato diventa un luogo di iniquità. A questo si aggiungono spesso gli effetti esterni, cioè i danni causati alla collettività non coinvolta nello scambio e più in generale all’ambente civile, culturale e ambientale.

Quanto al termine “corruzione”, Sandel usa il termine per indicare l’effetto di sostituzione e degrado di valori morali, civili, estetici ad opera dei valori economici. La casistica che egli analizza può sorprendere, perché affianca comportamenti incivili, ma (apparentemente) di minor rilievo, come il saltare una coda, il ritirare i bambini in ritardo dopo la scuola, il donare denaro al posto dei regali nuziali, a problemi umanitari gravissimi come la politica del figlio unico in Cina, la vendita di organi, incentivi economici per la sterilizzazione, il commercio dei permessi di inquinare, le scommesse sulle prospettive di vita e morte degli anziani. Ma anche nelle cose apparentemente meno gravi egli vede un appiattimento della società sui valori economici che può minare la civiltà. Ed è difficile rimuovere le sue argomentazioni, e non condividere le sue analisi e la sua denuncia.

 

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Mi sono sentito particolarmente coinvolto dall’ultimo capitolo del libro, dedicato ai “diritti di denominazione”. Sandel cita una gran varietà di casi ormai diffusissimi negli USA, come ad esempio il cambiare nome a uno stadio sportivo o ad una stazione della metropolitana, sostituendo o aggiungendo al nome storico il marchio di un’azienda, che ovviamente ha pagato per ottenerlo. O la diffusione della pubblicità nelle scuole. “Gli ultimi due decenni", osserva Sandel, "hanno visto la pubblicità commerciale spingersi al di là delle sue sedi tradizionali - i quotidiani e le riviste, la radio, la televisione - per colonizzare ogni angolo della vita”.

Un contributo crescente a questa degenerazione lo ha dato il “marketing municipale”, cioè l’invasione della pubblicità nei luoghi pubblici dedicati a funzioni sociali (scuole, parchi, ospedali...). “Negli ultimi due decenni città e stati in difficoltà finanziarie hanno cercato di sbarcare il lunario vendendo agli inserzionisti pubblicitari l’accesso a parchi, metropolitane, scuole e luoghi di cultura pubblici”. Secondo un esperto di marketing “le persone che visitano i parchi pubblici sono consumatori eccellenti, l’ambientazione del parco è un contesto di marketing molto tranquillo con poche distrazioni”.

Forse da noi questi fenomeni sono, almeno per ora, più limitati. Tuttavia io stesso ne sono stato coinvolto e offeso più volte. A partire da quando Berlusconi si appropriò dell’espressione “Forza Italia”, che cessò per questo di essere usata come patrimonio sportivo di tutti gli italiani per diventare una marca privata, sia pure partitica, ovviamente col valore economico di un copyright. E recentemente, quando la società assicuratrice Reale Mutua ha deturpato il Parco Reale di Monza con segnavia di cemento sui quali il nome dell’azienda è associato a una mezza maratona, ovviamente “reale”. E ancora, quando in vacanza a Saint Vincent ho visto trasformare in un “non luogo”, con attrezzature sportive marcate, un tratto della Via Francigena. E anche recentemente, quando in un oratorio ho visto una serie di pannelli sulle energie rinnovabili, con il marchio dell’ENI.

 

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Ma per attenuare il timore del decadimento dell’etica, dell’estetica e della convivenza civile causate dall’invadenza dell’economia, vorrei ricordare che fare commercio degli esseri umani attraverso la schiavitù era pochi secoli fa un pratica istituzionalizzata, la cui abolizione ha richiesto battaglie durissime, con ferite ancora aperte.

Già nel 1912 il grande giornalista Walter Lippman denunciava “il clamore ingannevole che rovina il paesaggio, copre i cancelli, tappezza la città, lampeggia”, con "il cielo illuminato a est da chewing gum, a nord da spazzolini da denti e da mutande, a ovest da whisky, a sud da sottovesti”. Oggi è sicuramente molto peggio. Ma già diversi anni fa la fantasmagoria pubblicitaria che copriva i palazzi di fronte al Duomo di Milano venne eliminata, recuperando valori estetici a scapito di tornaconti economici di breve respiro.

Tutto ciò che dice Sandel è indiscutibile. Ma occorre poi guardarsi dall’ideologia secondo cui il denaro è solo farina del diavolo (chi lo sostiene è spesso portato più degli altri a infarinarsi). Una donazione in denaro, una raccolta fondi per un terremoto non mi sembrano valutabili solo in termini economici, che pure sono presenti, ma soprattutto in termini di valori di ordine superiore. La retribuzione del lavoro, il calcolo del contributo economico che può derivare dagli immigrati, convergono con i valori insiti nella dignità dell’essere umano.

Anche l’evoluzione dei costumi va considerata nello stabilire il giusto rapporto tra valori diversi. Riprendendo un argomento trattato da Sandel, ricordo che quando in gioventù mi trasferii da Roma a Milano, l’idea che per i regali agli sposi si potesse stilare una “lista nozze” mi inorridiva. La lista nozze è perfetta in termini economici: essa consente infatti agli sposi di ricavare la massima utilità dai regali, anziché ritrovarsi con tre servizi da tè o una lampada finto liberty riciclata (sul riciclo dei regali di nozze Sandel fa un’analisi molto spassosa). Una volta la monetizzazione dei regali poteva apparire dissacrante, mentre oggi è accettata come cosa normale. È una normalità degradata? È una corruzione dello spirito del dono? Sono dubbioso.

Infine, non necessariamente i valori economici sono in contrasto con i valori superiori dello spirito umano. Come nel Rinascimento, la prosperità economica si è spesso accompagnata con il fiorire delle arti, delle scienze, delle conquiste sociali, a volte anche con il buon governo. 

Se si è capaci di guardare lontano e di stabilire la giusta scala di valori, quelli economici confluiscono alla lunga su quelli etici e culturali, in una fertilizzazione reciproca. Forse la soluzione, in un sistema democratico, sta nell’investire massicciamente sulla diffusione della cultura tra la popolazione, in modo che tutti, e non solo una ristretta élite spesso perdente, possano contribuire alla difficile separazione del grano dal loglio.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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