20170125 Edmund Phelps

Visco, governatore della Banca d’Italia, auspica un aumento degli investimenti per la cultura, termine al quale dichiara di preferire “conoscenza”. Si rifà ampiamente alle idee di Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006

Nei miei articoli precedenti, ho cercato di approfondire l'argomento più importante dell’attuale sistema economico e della convivenza globale: la crescita delle disuguaglianze, e in particolare l’esclusione, la povertà.
Recentemente, su suggerimento del nostro direttore, ho spostato l’attenzione su un altro problema scottante: il rapporto tra economia e cultura. E ho commentato la tesi di Sandel, secondo cui l’economia sta inquinando ogni attività culturale, trasformando una economia di mercato in una società di mercato.
Ed ecco che mi capita di leggere un articolo di Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, che tocca lo steso tema dei rapporti tra economia e cultura. La Banca d’Italia è una delle “grandi scuole” in cui si forma la nostra classe dirigente. Quello che dice il suo numero uno è quindi da valutare attentamente.
Visco auspica un aumento degli investimenti per la cultura, termine al quale dichiara di preferire “conoscenza”, superando la barriera che divide la cultura cosiddetta umanistica da quella tecnico-scientifica. E cita Benjamin Franklin, secondo cui “an investment in knowledge pays the best interest”.
Ma soprattutto si rifà ampiamente alle idee di Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, espresse in un testo di grande successo, ma non ancora tradotto in Italia, dal titolo “Mass Flourishing, How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change” (Princeton University Press, 2013). Traduzione: “Fioritura di massa. Come l’innovazione dal basso ha creato lavoro, sfida e cambiamento”.
Di qui la mia lettura di Phelps, e la scoperta di essermi imbattuto, dopo quelle abituali di economisti “di sinistra” (Stiglitz, Rifkin, Sen, Piketty, Sandel, Latuche…), in un autorevole rappresentante e ispiratore della "destra". Dopo una iniziale, riprovevole repulsione, mi sono ricordato che è utile sentire una campana diversa.
La tesi fondamentale di Phelps è che gli ultimi due secoli sono stati segnati da quella che egli definisce “economia moderna”, che ha consentito di elevare la qualità della vita dell’umanità a livelli mai prima raggiunti. L’economia moderna è stata caratterizzata da un grande dinamismo, che si è espresso in termini di creatività, gusto per l’auto-realizzazione e l’innovazione, accettazione del rischio, con riflessi positivi straordinari sulla produttività, l’occupazione, le retribuzioni; una cultura che ha progressivamente coinvolto vasti strati della popolazione nelle diverse nazioni, a partire da quelle occidentali.1 
A suo parere, questa spinta si è esaurita negli ultimi decenni del XX secolo e nei primi del secondo millennio. Per spiegarne le cause, Phelps individua tre diversi sistemi economici: l’economia moderna, il socialismo, il corporativismo.

Di ciò che Phelps intende come “economia moderna” ho già detto. E nell’articolo continuerò a usare questa espressione, anche se (Phelps lo negherebbe) corrisponde molto a un termine ben più diffuso: capitalismo. Con il termine “socialismo” l’autore qualifica un sistema caratterizzato da una presenza totale o fortemente prevalente dello stato nell’economia. Definisce invece corporativo un sistema governato da una triade costituita dallo stato, la rappresentanza dei datori di lavoro e quella del lavoratori.

Phelps propone anche una successione temporale dei diversi tipi di economia: la realtà, prima dell’economia moderna, è stata caratterizzata dalla staticità, passata negli ultimi secoli dal feudalesimo al mercantilismo, da economie chiuse a un commercio di beni scarsamente innovativo. L’economia moderna si è affermata dalla fine del Settecento ai primi decenni dopo la seconda guerra mondiale. Il corporativismo si è invece sviluppato soprattutto tra le due guerre mondiali, in parallelo con l’economia moderna. Nato in Italia con il regime fascista, ha contagiato progressivamente il resto del mondo, e sta facendo registrare, secondo Phelps, un nuova fiammata negli ultimi decenni.

Phelps dedica molto spazio alla dimostrazione della superiorità dell’economia moderna rispetto agli altri sistemi, per la verità sfondando molte (anche se non tutte) porte aperte. Anche Churchill soleva dire che “la democrazia è la peggiore forma di governo, fatta eccezione per tutti gli altri”. Il fatto è che di quel sistema Phelps mette in luce soltanto gli aspetti positivi, di lungo termine, trascurando i diversi incidenti di percorso, dai conflitti sociali, alle crisi economiche, a due guerre mondiali. E al colonialismo, che molto ha contribuito al benessere delle nazioni “madri patrie”. Dimenticando, per parafrasare J. M. Keynes, le centinaia di milioni di morti nel breve andare, che hanno consentito ai sopravvissuti il benessere nel lungo andare. Con un diverso sistema, forse il costo sarebbe stato minore.

Ma ciò che interessa Phelps è soprattutto la contrapposizione tra l’economia moderna e il corporativismo. Tra l’economia moderna, caratterizzata dal dinamismo, dalla motivazione, dalla creatività, originalità e innovatività endogena, gusto del fare, da valori intangibili oltre che fisici, inclusiva per vasti strati sociali, e il corporativismo, caratterizzato dalla staticità, dal burocratismo, da regole soffocanti, da scarsa motivazione nel lavoro, da appiattimento su valori meramente materiali.

La sua tesi conclusiva è che negli ultimi decenni il corporativismo ha ripreso la sua penetrazione anche nei paesi tradizionalmente “moderni”, come gli USA, e che questa è la causa della bassa crescita, della minore produttività, della disoccupazione, dei bassi salari. Di qui la necessità di rimettere in moto l’economia favorendo cultura, motivazione e creatività a tutti i livelli, dal “grassroots”, cioè dal popolo, alle classi dirigenti.

Lo straordinario sfoggio di erudizione che Phelps squaderna a sostegno della sua tesi, partendo dai primordi dell’umanità, passando per Aristotele e per i pensatori e gli artisti di tutti i tempi, per finire con se stesso, non riesce a cancellare una certa impressione di semplicismo che aleggia sulle tesi da lui espresse. Prima fra tutte una certa confusione tra il corporativismo e i sistemi ispirati al welfare state affermatisi nel corso del novecento. Il primo caratterizzato da una sostanziale conservazione dei privilegi delle classi dominanti, in forme anche violente, il secondo dall’intervento dello stato per garantire a tutta la popolazione l’esercizio dei diritti umani fondamentali, riducendo le disuguaglianze. E dando luogo, in quest’ultimo caso, a sistemi economici e sociali, come quelli del nord Europa, che a parere di altri economisti (ad esempio Rifkin, che ha parlato di “Sogno europeo”) possono essere considerati migliori della sua economia moderna.

Del resto, sarebbe difficile qualificare come corporative molte regole stabilite in tutti i paesi civili, a partire dagli USA (ad esempio con lo Sherman Act contro i monopoli e il Glass-Steagal Act per la separazione tra banche commerciali e banche d’affari, oggi colpevolmente cancellata), per bloccare gli effetti perversi del sistema capitalista in termini di concentrazione del potere economico in poche mani e di predominio di questo sulla politica.

Ma colpisce particolarmente una visione degli eventi degli ultimi decenni che è in radicale contrasto con quella che la maggioranza degli studiosi e della gente comune, della quale faccio parte, credo condividano: che il punto di svolta dell’economia mondiale, soprattutto in termini di allargamento delle disuguaglianze dopo un lungo periodo di loro riduzione, si collochi intorno agli anni Ottanta, con le amministrazioni Reagan in USA e Thatcher nel Regno Unito. Che hanno aperto la strada a un liberismo economico sregolato, diffusosi poi in tutto il mondo, contagiando anche le sinistre eventualmente al potere.

In effetti, il tema delle disuguaglianze non sembra interessare molto l’autore. Phelps non è tra i sostenitori del thrickle down (cioè dell’idea che favorendo i ceti più ricchi con la riduzione delle tasse si ottiene, “per gocciolamento”, l’arricchimento di tutti). Ma certo condivide la discutibile opinione secondo cui con l’innalzamento del livello dell’acqua tutte le barche si alzano. Fuor di metafora, che con l’innalzamento del livello di sviluppo economico, automaticamente tutti ne traggono vantaggio.

Ma da dove eravamo partiti? Dall’argomento del rapporto tra economia e cultura. La tesi conclusiva di Phelps è che, liberando la cultura intesa in senso molto lato, superando la distinzione convenzionale tra cultura umanistica e scientifica, e comprendendo anche l’imprenditorialità come espressione di creatività, a tutti i livelli, partendo dalla base popolare e risalendo alle classi dirigenti pubbliche e private, sia assicurato anche il rilancio dell’economia di un paese, in termini di recupero del perduto dinamismo, di inclusione, di produttività, di occupazione, di maggiori retribuzioni.

A mio parere questa visione, per essere realizzata (e chi non lo vorrebbe?) richiede due specificazioni.
La prima, fondamentale, che la cultura sia indipendente dall’economia. Che sia fine a se stessa, secondo l’antico aureo concetto “Ars grazia artis”, l’arte per l’arte. O di quello attribuito a Aristotele, secondo cui la filosofia non serve a niente, perché non è serva di nessuno. Solo una volta che questa condizione sia realizzata, si può agire per trarne risultati economici. Che possono essere anche ingenti e molto superiori a quelli immediati, frutto di visioni miopi, speculative e spesso distruttive dei valori culturali da cui traggono origine. Perché l’essere umano aspira naturalmente alla bellezza nelle sue diverse manifestazioni, anche inconsapevolmente.

La seconda, che non si confonda la libertà culturale con la libertà economica. Mentre la prima non accetta condizionamenti, la seconda li esige, per non degenerare in termini di concentrazione del potere economico, di finanziarizzazione fine a se stessa, di iniquità, di sfruttamento e povertà di milioni di esseri umani, di prevaricazione sulla cultura e sulla politica, di distruzione dei valori che Phelps stesso ritiene necessario tutelare e diffondere.

Le regole imposte al mercato favorirebbero anche lo sviluppo dell’imprenditorialità, dove obiettivi culturali ed economici, in un’ottica di lungo termine, che lo stesso Phelps auspica, possono trovare una felice sinergia.

E comunque la lezione di Phelps è utile anche per una riflessione sulla distinzione tra destra e sinistra, a cui ho accennato all’inizio. Distinzione che, a mio parere, resta valida, ma superando i rigidi schemi ideologici del passato. Perché la società liquida, descritta dal compianto Baumann, la globalizzazione, la rivoluzione scientifica in atto, richiedono comunque un nuovo dinamismo, uguale e nello stesso tempo diverso da quello auspicato da Phelps. Con un occhio particolare al nostro paese, culla del corporativismo, il quale costituisce purtroppo tuttora una nostra specifica palla al piede.
Così mi sentirei di integrare lo slogan in cui ho sempre dichiarato di credere, “Più mercato, più stato”, modificandolo in “Più cultura, più mercato, più stato”. Con la cultura in posizione preminente e indipendente.

 

1 Phelps considera il famoso principio formulato da Thomas Jefferson e ripreso nella dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776, secondo cui la ricerca della felicità costituisce un diritto fondamentale dell’essere umano, come l’espressione di un cambiamento radicale nella storia dell’umanità. In base a questo principio, dice Phelps, “ogni persona ha il diritto morale di perseguire la propria realizzazione… al contrario della tradizione secondo cui le vite dovrebbero essere dedicate agli altri - alla famiglia, alla chiesa, al paese”. Il modernismo, sempre secondo Phelps, si è posto come “nemico delle idee del tradizionalismo, che poneva l’individuo al servizio del gruppo” (p. 201). Questa visione suona come molto simile a quella espressa dalla Thatcher secondo cui “la società non esiste”. Ma in tal modo l’umanesimo degenera nell’individualismo. In realtà l’obiettivo della auto-realizzazione non è a priori in contrasto con il bene altrui. E’ ben vero che l’egoismo venne “sdoganato” da Adamo Smith, secondo cui il macellaio che ti vende la carne non lo fa per generosità ma per il proprio tornaconto, contribuendo involontariamente con il suo egoismo, attraverso una “mano invisibile”, al bene della società. Ma, come afferma lo stesso Phelps altrove nel suo libro, questo tornaconto può ben convivere con il gusto di far bene il proprio lavoro, che implica il bene del prossimo. Io credo piuttosto che il “dinamismo” iniziato alla fine del XVIII secolo, figlio, come dice Phelps, dell’umanesimo rinascimentale, del vitalismo barocco e dell’illuminismo (nonché, occorre dire con Weber, dell’etica protestante), sia stato dovuto all’inversione della fonte della sovranità generata dalle due grandi rivoluzioni, quella francese e quella americana: sovranità in precedenza calata dall’alto, da Dio al popolo, tramite i diversi livelli di autorità, e da allora in poi attribuita al popolo, e da questo trasmessa ai livelli superiori.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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