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La giovane artista svedese dalla Galleria Giò Marconi di Milano. A due anni dalla personale presso la Fondazione Prada, trovano conferma le sue principali tematiche

 

Quando mi sono accorta di quanto fosse prossima la personale di Nathalie Djurberg alla Galleria Giò Marconi di Milano, non soltanto ho segnato data e ora del vernissage sull’agenda: mi sono riproposta di andarci, davvero. Non come è successo, ad esempio, per la mostra dedicata alla (non troppo) insolita accoppiata Man Ray – Robert Mapplethorpe, che ho finito per vedere giusto ieri sera, giusto perché la Fondazione Marconi si trova proprio al di sopra dell’omonima galleria. É che non considero la Djurberg un appuntamento culturale, un obbligo morale per quanto entusiasmante; le sue opere più che essere rappresentative mi rappresentano.
Persino in un contesto diverso da quello in cui l’ho incontrata la prima volta (la Fondazione Prada, vedasi il lungo post già dedicato all’evento): commerciale, questo, diciamolo pure. Non per niente lo spazio è costellato di plinti e statue sopra inerpicate, mentre vengono proiettati soltanto due video e in nessun caso, bi-o-tridimensionale, le opere raggiungono la complessità concettuale e compositiva esibita nella precedente occasione. Spazio agli oggetti, dunque, concreti e conclusi anche nell’idea; beni di consumo, per quanto elitari.
Non che alla Djurberg manchi la vocazione per l’aggetto sul reale ma, più che definirsi scultoreo, questo emana dal teatro; quello di posa, per i suoi bambolotti deviati (anche anatomicamente); l’ambientazione dei video che, ingigantita e portata in sala, disturbava la frigida contemplazione da parte del visitatore, costretto volente o nolente a calarsi alla lettera nella storia. Peccato che quella dello stop motion non sia una tecnica applicabile dal vivo, perché davanti a ogni opera visiva mi trovo a desiderare che siano piuttosto i pupazzi a farsi avanti.

 

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Credo in effetti che uno dei temi fondanti, nella poetica di quest’artista, sia il contatto corporeo. Ricordo in particolare, della precedente esibizione di sevizie varie, un’opera in cui una madre veniva costretta dai numerosi figli a inglobarli in sé, se non erro fino a esplodere. La dipendenza fisica che responsabilizza la maternità veniva declinata in un fenomeno ammorbante, virale, metafora concreta di quei casi in cui tale condizione viene rigettata a livello psicologico.
Anche in questa mostra entrambi i video si sviluppano a partire da un incontro fisico, quello di un santone in meditazione con un serpente e l’altro, che ho trovato molto più denso di implicazioni, tra una donna e una rana. Ora, in questo secondo caso il comunicato stampa c’informa (testuale) che la rana ha un ruolo di primo piano nella tradizione sciamanica: leccando una rana, che secerne uno speciale veleno, lo sciamano entra in uno stato mentale psichedelico e può accedere al mondo degli spiriti. É vero che la protagonista dell’opera vive una sorta di stato allucinogeno, con tanto di aloni psichedelici che interferiscono con la sua e la nostra visione, ma non credo si tratti dell’unico riferimento, né del più importante.
Si sa che, da Eva in poi, la donna può vantare diverse (e controverse) interazioni con il regno animale. Soprassediamo sulla vicinanza evolutiva che intercorre tra il serpente tentatore e il ranocchietto dispensatore di allucinazioni, entrambi considerati dalla donna di turno perché sola, lasciata alla propria proverbiale curiosità, che non trova soddisfazione: la rossa di questa storia si tocca, si annusa, insomma si esplora un po’ ma non pare del tutto soddisfatta delle conclusioni a cui giunge, quelle che siano. La scoperta è del nuovo per definizione, quindi tanto meglio se viene orientata all’esterno, all’altro; l’optimum sarebbe poi che questo reagisse, generando una catena di gesti suscettibili di sviluppi imprevisti, che non fanno altro che incuriosire di più.

 

Il padiglione della Djurberg all'ultima edizione della Biennale di Venezia

 

Ecco che mi rifaccio invece all’allusione che trovo più calzante, in questo video: la favola del principe ranocchio. Non si è mai capito perché una donna con buone prospettive di successo nella vita debba baciare un viscido. Perché non basta a se stessa, mi viene da pensare. Andrebbe sfatata quindi quella morale che vede, nel gesto della giovinetta, una disinteressata generosità; come il principe risultante non è una vittima passiva di donne castranti (la strega cattiva) o salvifiche (la real fanciulla). Semmai, consiglio di andare a rileggersi la favola nella versione dei fratelli Grimm e la conseguente lettura junghiana; queste, sì, attinenti all’interpretazione che sto dando del video.
Perché il ranocchio non è un ente spossessato della sua dimensione fisica, è a sua volta in grado di esercitare un dominio sulla donna: come nella storia antica le ordina di preparare il letto per dormire, così all’interno del video avanza pretese verso il suo corpo, che palpa a piacimento. Certo che c’è il bacio, ma è reale e molto poco nobilitante, con scambio regolamentare di umori. E la videocamera che gira attorno alla coppia “mista”, sembra quasi suggerire un turbinio di romanticismo che vortica nell’abbraccio.
Posso serenamente concludere che l’alienazione vera e propria la vive la donna, che si estranea da un’insoddisfacente se stessa per placarsi nel rassicurante contatto con il ranocchio, sul finale stretto al petto e accarezzato di continuo a volersi sincerare che è lì, e li resterà anche durante il sonno finalmente prossimo.

 

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La dialettica conflittuale tra individualità e fondente comunione viene riproposta anche nel cortometraggio che dà il titolo alla mostra che, devo ammettere, giudico un lavoro meno riuscito. Innanzitutto perché la rappresentazione dell’affetto (ma sarà davvero tale?), provato dal serpente nei confronti del santone, passa attraverso un debito poco rielaborato nei confronti dei cartoni animati: la bestia umanizzata perde fin troppo della sua ferinità; lo smembramento del finale, anziché essere riconosciuto come l’inevitabile conclusione alle riflessioni djurberghiane (sviluppate lungo la familiare concatenazione individuo – rapporto – possesso – fagocitosi dell’essere), per una volta viene percepito come un gratuito inserto sanguinolento.
L’eccessivo avvicinamento del serpente alle movenze e all’espressività umana gioca a sfavore della visceralità, quella caratteristica invece delle creature di ogni genere modellate dalla giovane svedese di Berlino; sempre prossime a sfaldarsi, prima ancora di conoscere la morte, appena promosse a uno stadio superiore rispetto alla materia bruta. Come quella, capaci di attingere a una mobilità da cui la forma finita si è irrimediabilmente allontanata.

Se la regina dei corvi, l’unica dea nera presente in sala può allattare al seno un lupo rosso (malpelo), è in virtù di una prossimità genetica tra gli esseri, che quando invece giungono al grado di individui vengono addirittura rinchiusi in auree al neon, o s’ingigantiscono sulla massa di anonimi elementi che a loro si aggrappano, che da loro vengono sterminati o vegliati nel sonno senza alcuna soluzione di continuità nelle scelte. Nulla separa invece gli altri, gli esseri umani, dal condividere la condizione esistenziale delle bestie: tutti accomunati dall’uguale provenienza, dalla cenere (argilla) e da quel brodo primordiale di materia psichica, di pulsioni ad agire e forme in divenire, che il secolo scorso ha ribattezzato Es.

 

Dal blog di Caterina Porcellini