20150804 Araba fenice

Sul finire del secolo scorso si è ritenuto di dover passare dal sistema  del “Welfare state”, considerato troppo assistenziale e insostenibile,   a un nuovo sistema,   definito come “Workfare state”, orientato a promuovere l’occupazione. E’ forse venuto il momento di pensare a un nuovo sistema, che potremmo definire di “Lifefare state”!


Nelle mitologie mediterranee, l’araba fenice era un uccello multiforme e variopinto, trasfigurazione  del sole, che continuamente moriva tra le fiamme  e rinasceva dalle proprie ceneri.

Uso questa metafora parlando del lavoro, perché gli ultimi dati sulla occupazione negli Stati Uniti contraddicono gli scenari descritti da molti studi, a partire da “La fine del lavoro” di J. Rifkin,   di 20 anni fa,  che preconizzano una disoccupazione crescente causata dall’avvento di  robot e di macchine pensanti.

Gli Stati Uniti sono senza alcun dubbio all’avanguardia dell’innovazione tecnologica. Ebbene: la disoccupazione è scesa al 5,3%, un livello frizionale, quasi fisiologico. E non è un dato di breve respiro: Obama può vantare il fatto che quando è stato eletto “le imprese americane licenziavano al ritmo di 800 mila persone al mese. Oggi le aziende stanno assumendo 200 mila americani al mese. Negli ultimi quattro anni e mezzo l'economia americana ha creato 10 milioni di nuovi occupati”.

Tutto ciò, mentre in altri paesi meno progrediti la disoccupazione permane  su livelli patologici.

Tre  problemi vengono tuttavia segnalati negli USA:  i  salari sempre più bassi, il ricorso al  lavoro straordinario e l’l’aumento di coloro che escono. dal mercato del lavoro.

L’obiettivo, che il governo si pone,  di fissare  per legge un salario minimo,  denuncia il fatto che la forza contrattuale dei lavoratori diminuisce, e con questo le loro retribuzioni. Appare quindi necessario un intervento delle istituzioni sul mercato del lavoro per contrastare  lo sfruttamento e  assicurare a tutti compensi adeguati a  condizioni di vita accettabili.

Anche il lavoro straordinario esprime l’accettazione da parte dei lavoratori di   carichi di lavoro disumani  per poter sbarcare il lunario. La via suggerita per contrastare questa tendenza non è la fissazione di un limite massimo agli orari di lavoro, ma un aumento delle imposte sul lavoro straordinario, in modo da renderlo più oneroso per le imprese.

Il terzo problema, cioè la decisione da parte di molti di  non cercare più un lavoro regolarmente retribuito,   esprime alternativamente:  o la scelta (e la possibilità) di trovare per vie diverse  i mezzi necessari per vivere, o l’esclusione dalla convivenza civile e la caduta nella povertà.

Che considerazioni si possono trarre da questi fatti, con riguardo al futuro del lavoro in un contesto tecnologico che, comunque,  tende inesorabilmente a sostituire le tradizionali attività umane?

E’ sicuramente necessario puntare sullo sviluppo di  una  “learning society”, come teorizzano Joseph E. Stiglitz e Bruce C. Greenwald (“Creating a Learning Society”, Columbia University Press, New York, 2014). In futuro, infatti, saranno necessarie competenze continuamente aggiornate. non solo per svolgere attività tecnologicamente sofisticate, ma anche per aprire una panetteria.


Forse ci sarà lavoro ancora  in futuro per moltissime persone, purché dotate di alte competenze professionali. Come scrive  Tyler Cowen nel best seller  “La media non conta più” (UBE, Milano, 2015, ed. orig. 2013)  “mantenere in volo un drone automatico Predator per 24 ore richiede circa 168 persone ingaggiate dietro le quinte... Per fare un confronto, il funzionamento di un caccia F-16  richiede meno di 100 persone per una singola missione”. E’ da sperare che  ciò sia vero non solo per il settore militare!

Ma, oltre che degli effetti del progresso tecnologico, occorre tener conto  anche della crescente diffusione  di  tendenze verso una maggiore “frugalità”, che potrebbero contribuire a loro volta alla riduzione della  domanda di lavoro come la concepiamo attualmente. Non mi riferisco tanto e soltanto alla   “decrescita felice” teorizzata da S. Latouche e da altri,   né  alla diffusione  di forme di economia solidaristiche o di prossimità come le organizzazioni  non profit, i gruppi di acquisto solidale, lo scambio di  prodotti a chilometro zero,  la promozione degli orti e dell’agricoltura in città: progetti,  movimenti, iniziative che, presi singolarmente, appaiono marginali rispetto all’economia globale. Mi riferisco invece a  segnali che consentono di immaginare un sistema economico globale diverso da quello del passato.

N. Radiou, J. Prabhu e S.  Ahuja, tre indiani che insegnano all’Università di  Cambridge e svolgono attività di consulenza strategica per grandi imprese, nel loro “Jugaad Innovation” (Rubbettino, Soveria Mannelli, 1014, ed orig. 2012), immaginano un futuro nel quale le nuove generazioni (la generazione Y, dei nativi digitali, e la generazione Z, dei nati nel terzo millennio), spinte dal degrado dell’ambiente e dall’esaurimento delle risorse globali,  rifiuteranno il modello consumistico del passato; le imprese allargheranno la loro azione “oltre il margine” delle fasce di reddito medio-alte, adattando i loro prodotti e servizi alle esigenze dell’area vastissima dei meno abbienti; il sistema produttivo diventerà più piatto e capillare,  autonomo e reticolare, inclusivo,  in una logica di sussidiarietà (quella vera, verticale, non quella orizzontale, inventata dalla Compagnia delle Opere).

Un segnale analogo viene  dal  fatto che un grande gruppo bancario francese, BNP Paribas, abbia deciso di realizzare  un programma culturale ispirato alla “Ingegnosità collettiva”, denominato WAVE,  consistente in una serie di attività di ricerca  svolte anche recentemente  a Milano in connessione con l’Expo, auspice la  Fondazione Bassetti, che si occupa di “responsabilità nell’Innovazione”. Anche questo programma prende le mosse dalla previsione di un mondo dominato dalla scarsità, o comunque dall’esigenza di una economia che tenga conto dei problemi della compatibilità ambientale. Una economia “circolare”, all’insegna di 3 R: Ridurre, Riciclare, Riutilizzare. Una economia capace di “fare di più con meno”, basata su  un vasto coinvolgimento  di risorse umane a tutti i livelli e a dimensione globale.

Anche un lettura attenta della   recente enciclica papale “Laudato si”, che propone una visione olistica del futuro del genere umano e dell’ambiente,  si basa su ipotesi scientificamente attendibili  sulle possibili  evoluzioni   della globalizzazione nel senso sopraddetto.

.Tornando alla necessità di costruire una “società che apprende”, mi sembra che Stiglitz e Greenwald abbiano  in mente esclusivamente una istruzione tecnico-professionale finalizzata a mettere le perrsone in condizioni di  far fronte e di integrarsi con la continua innovazione tecnologica. Io credo che occorra coltivare  una visione più ampia dell’istruzione, che alimenti e diffonda non solo le competenze specialistiche, ma anche la cultura in tutte le sue forme.

Si tratta di promuovere la capacità delle persone di   perseguire  valori non solo utilitari, di fare un uso responsabile della propria libertà. La crescita  di “una società che apprende” non è necessaria  soltanto per il lavoro, ma anche per il non-lavoro, per il tempo crescente a disposizione degli uomini per le loro libere scelte!

La diffusione di una cultura generale è anche necessaria per alimentare una classe dirigente capace e responsabile la cui carenza, in tutti i campi (economico, culturale, sociale, politico) è più che evidente.

Forse è in via di dissolvimento, nel pensiero e nell’azione delle nuove generazioni,  la “cultura del lavoro” come l’abbiamo concepita nella prima e nella seconda rivoluzione industriale, facendone quasi un mito, sostituita da una cultura in cui lavoro e non-lavoro non saranno più separati come nel passato, ma strettamente legati in modo circolare e in una grande varietà di modi. Un nostro sociologo, Domenico De Masi, ha prospettato in modo efficace  questa prospettiva  già diversi anni  fa (”Il futuro del lavoro”, Rizzoli, Milano, 1999)

Ma si tratterà di una prospettiva estremamente dinamica e aleatoria. Per farvi fronte (per non tornare al medio evo!) occorrerà un sistema economico e istituzionale capace di rendere praticabili per tutti i  continui passaggi dallo studio alle attività produttive, da un lavoro ad un altro, dal lavoro al non-lavoro,  concepito quest’ultimo come un  abituale  momento  sabbatico. Un sistema irrealizzabile senza una forte riduzione delle disuguaglianze, senza ingenti trasferimenti di risorse dai patrimoni inattivi in continua crescita alle istituzioni che erogano i servizi sociali. Un sistema per il quale sono state formulate  importanti proposte, in particolare dall’economista francese  T. Piketty (“Il capitale nel XXI secolo”, Bompiani, Milano, 2014)

Sul finire del secolo scorso si è ritenuto di dover passare dal sistema  del “Welfare state”, considerato troppo assistenziale e insostenibile,   a un nuovo sistema,   definito come “Workfare state”, orientato a promuovere l’occupazione. E’ forse venuto il momento di pensare a un nuovo sistema, che potremmo definire di “Lifefare state”!

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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