20160210 auto

Auto senza guidatore, droni, India, Cina e l'Apple a Napoli. Segnali che stimolano l’immaginazione sul futuro della vita, del lavoro e sulla possibilità di contrastare gli effetti più dirompenti delle disuguaglianze

Negli ultimi giorni  mi hanno  colpito alcune notizie di tipo diverso, ma sottilmente  interconnesse,  che fanno prevedere  cambiamenti profondi nel XXI secolo, equiparabili a quelli del XX rispetto al precedente. Cambiamenti che renderanno  del tutto nuovo  il mondo in cui vivranno le prossime generazioni, dal punto di vista del lavoro, delle condizioni di uguaglianza o disuguaglianza tra gli umani, del loro benessere-malessere.

Eccole:

1. Le automobili.
Secondo uno studio del gruppo bancario  Barclays, con la diffusione delle auto senza guidatore il parco macchine americano potrebbe ridursi entro il 2050 del 60%. Un’unica auto potrebbe accompagnare i bambini a scuola, il papà e la mamma - o il resto della  famiglia arcobaleno - al lavoro in luoghi diversi, tornare a casa ed essere utilizzata per altre necessità. General Motors e Ford messe insieme dimezzerebbero il numero delle loro fabbriche, e lo stesso avverrebbe presumibilmente per le altre case produttrici di auto nel mondo. E’ ragionevole immaginare che il numero  dei lavoratori addetti al settore si ridurrà in misura maggiore, grazie alla robotizzazione  delle fabbriche.
Ma lo studio non parla di un cambiamento molto più ravvicinato: il passaggio dai motori a combustione interna a quelli elettrici. Se ci si pensa bene, non è molto diverso dal passaggio   dalle macchine per scrivere meccaniche a quelle elettriche,verificatosi a metà del ‘900, a loro volta rapidamente  soppiantate dai computer: dentro il cofano niente, ovvero circuiti sempre più miniaturizzati. E’ vero che il volante  e le ruote, parti meccaniche, serviranno ancora a lungo. Almeno finché la levitazione diventerà la regola, magari grazie all’interazione automobili-droni.
Tutto ciò, senza tener conto della diffusione, già in atto e montante, della sharing economy (Uber,  BlaBlaCar, AirBnB, eccetera). Pur  considerando  utopistica la visione di Jeremy Rifkin  circa la fine del capitalismo a favore di una società collaborativa,  non si può non accorgersi  del diffondersi della  cultura naturalmente sparagnina dei millennials, i nati tra il 1980 e il duemila e oltre, portati ad  evitare la proprietà dei beni a favore del loro semplice  scambio ed uso,  con una attenzione spontanea alla compatibilità ambientale.

2. I droni.
La diffusione dei droni è un boom. Coinvolge tutto il mondo, una miriade di piccole imprese come le maggiori, di tutti i settori. Amazon immagina di consegnare in futuro i suoi prodotti via droni. Ma anche Google, Facebook, Intel si sono lanciati nella ricerca, nel perfezionamento e sperimentazione dei droni, fino al gigante della distribuzione commerciale Wal-Mart.  Quanto alla dimensione,  si va da apparecchi di 250 grammi a progetti di qualche tonnellata.
E’ chiaro che lo sviluppo di questo nugolo di volanti dipenderà dai progressi tecnologici e, ancor più, da “codici del cielo” analoghi a quelli della strada. Ma tra traffico terrestre e celeste, possiamo immaginare come realtà non tanto lontana quella preconizzata  dal futurista  Sant’Elia all’inizio del secolo scorso, o quella del film Blade Runner,  sperabilmente con una radicale  differenza: un futuro pacifico e sereno, e  non violento, come auspicato da Sant’Elia, o grigio, disumano e discriminante come quello descritto in Blade Runner.
Ultima osservazione sui droni: all’avanguardia nel loro sviluppo non è un paese occidentale, bensì la Cina. Il che ci porta al punto successivo.

3. L’India e la Cina.
In un suo articolo comparso  su la Repubblica del 23 gennaio, Thomas Piketty, l’autore de “Il Capitalismo nel XXI secolo”, preconizza che l’India, più  che la Cina, possa diventare nel corso di questo secolo “la prima potenza mondiale per popolazione, e forse la prima potenza mondiale in assoluto”. Il vantaggio rispetto alla Cina starebbe nel fatto che mentre la Cina è governata  da un regime autoritario, poco flessibile e aperto, e quindi meno adatto alla “liquidità” del XXI secolo, l’India “può contare su solide istituzioni democratiche ed elettorali, libertà di stampa e stato di diritto”.
Piketty, che nel suo bestseller economico ha messo in evidenza il drammatico avanzare delle disuguaglianze, non sottovaluta il fatto che queste sono ampiamente presenti  anche in India: il sistema delle caste, pur abolito nel 1947, non è ancora sparito,  gli arcaici  conflitti etnici  tra indù e musulmani covano ancora sotto la cenere, e permangono aree di estremo sottosviluppo. Tuttavia è significativo il fatto che proprio Piketty, quasi in contraddizione con sé stesso, abbia attribuito  un futuro primato a un paese ancora arretrato e diseguale, invece che ad uno tra i più progrediti. Come se la creatività del futuro preferisse contesti  meno “razionali” ed “efficienti”.

4. Napoli e Apple.
“Quando vado a Bruxelles respiro pesantezza, burocrazia, difficoltà, mentre qui in Italia c’è una meravigliosa aria di cambiamento, ottimismo, opportunità; qui sento che sky is the limit, che tutto è davvero possibile”. Questa incredibile dichiarazione è di Tim Cook, CEO (Chief Executive Officer, cioè numero uno)  di Apple, nell’intervista rilasciata a Riccardo Luna di  Repubblica   il 23 gennaio scorso,  in occasione dell’annuncio che Apple aprirà a Napoli il suo primo centro europeo di sviluppo di App (Sistemi applicativi).
L’attrattività dell’Italia in fatto di investimenti esteri è da sempre molto  bassa, ma dopo aver toccato il fondo  nel 2012 - rischio di default del Paese, dimissioni di Berlusconi -  ha fatto registrare  una certa ripresa e addirittura  un piccolo boom nel 2015.
Non solo Apple: Cisco, leader mondiale nella costruzione di reti digitali, investe in Italia 80  milioni di euro per finanziare start-up  (nuove imprese) innovative. E GE (General Electric) stanzia 600 milioni di euro per il suo  centro di eccellenza di  Firenze, la vecchia Nuova Pignone,  e per altri  siti in Piemonte, Puglia e Campania;  anche se riduce l’occupazione in Lombardia.
Quello che sorprende  è il manifestarsi di  l'attenzione delle imprese straniere non più   concentrata solo sul  Nord Italia, che ovviamente assorbe quantitativamente la maggior parte degli investimenti esteri, ma al nostro Paese  nel suo insieme. E al Sud,  che in un certo senso è la nostra piccola India.
Sembrerebbe in atto un processo contrario a quello decritto da Enrico Moretti nel suo “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori, 2013), secondo cui è in atto  una concentrazione crescente dello sviluppo nelle arre metropolitane più attrattive.  Un processo contrario, agevolato dalla contrazione dei tempi e delle distanze prodotta dalle tecnologie informatiche,  che consentirebbe  una permanenza o addirittura un ritorno  verso i luoghi di origine di tanti cervelli che, fino ad ora, affluiscono verso le diverse Sylicon Valley o aree metropolitane del mondo, facendo così propaganda per i  loro paesi di origine.
Si delineerebbe  una sorta di “rivincita” delle regioni più “calde” rispetto a quelle “più fredde” nelle prospettive di sviluppo futuro, non solo economico. Il che mi fa tornare alla mente certe  letture giovanili, piuttosto astruse ma suggestive, sulla teoria dei sistemi e sui rapporti tra uomo e natura (Ludwig Von  Bertalamffy, Ilya Prigogine, Gregory Bateson, Frank Capra). E  particolarmente il concetto secondo cui  fenomeni  come nascita, creatività, sviluppo si manifestano in strutture dissipative e ridondanti, in “brodi primoridiali”  piuttosto  lontani dai principi di efficienza e produttività.

Conclusioni.
Questi segnali mi sembrano interessanti perché stimolano l’immaginazione sul futuro della vita e del lavoro (soprattutto i primi due segnali) e sulla possibilità di contrastare gli effetti più dirompenti delle disuguaglianze  (soprattutto i secondi due).
Non credo che, per quanto riguarda il lavoro, i conteggi su quanti posti di lavoro si perderanno o si guadagneranno nelle diverse  professioni portino molto lontano. E’ il lavoro in quanto tale che cambia, rispetto a quello “concentrazionario” delle fabbriche del passato. Il lavoro si svolgerà ovunque, nei modi più diversi, e meno distinguibili dal cosiddetto “tempo libero”.  Nelle stesse città, già ora è sempre più difficile distinguere  tra zone  residenziali e zone produttive.
Una previsione è comunque indiscutibile: che le macchine,  i computer e i progressi nell’intelligenza artificiale sostituiranno sempre più le attività non solo materiali, ma anche raziocinanti degli esseri umani.
Il quesito se questa progressione geometrica arriverà fino a uno spodestamento dell’uomo nella sua essenza da parte della macchina resta senza risposta. Se ben si guarda, è un quesito che  sposta il discorso dal terreno scientifico a quello  teologico, facendone una questione di fede!
Eric Brynjolfson e Andrew Mc Fee, che hanno esaminato  il problema fin dove è possibile (La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, 2015), sembrano propendere sull’idea che le macchine non saranno mai capaci di provare emozioni, sviluppare valori, esprimere volontà, formulare domande piuttosto che dare soltanto risposte (io aggiungerei: di distinguere il bene dal male, il bello dal brutto, il vero dal falso). Essi danno credito all’idea che  gli uomini saranno sempre un passo avanti rispetto alle macchine, e le useranno come esecutori delle proprie capacità, volontà e aspirazioni.
Quanto al problema delle disuguaglianze, credo che le forze inesorabili tendenti al loro aumento, come messe in luce da Mario Moretti e da Thomas Piketty,  saranno ancora per lungo tempo più forti di quelle che opereranno in senso contrario.
Ma se  il futuro è incerto, più chiare sono le azioni da svolgere per contrastare le derive negative: cultura e istruzione prima di tutto,  gestione preventiva e continua del cambiamento, sistema di tutela dei diritti fondamentali (nutrimento, abitazione, salute, oltre all’istruzione),  sistemi fiscali redistributivi. responsabilità nell’innovazione,
Come diceva un esperto di  cibernetica e programmazione  nei lontani anni sessanta del secolo scorso, Stafford Beer, regolare il mare è impossibile. Così come eliminare il disordine, l’entropia,  di cui abbiamo oggi terribili testimonianze in Medio Oriente e in Africa. Ma occorre ed è possibile  contrastarne le tempeste,  ridurne gli effetti negativi, mettere le vele al vento delle  correnti positive.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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