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Con oltre 4000 murales Filadelfia è la capitale mondiale della Street Art. Da quasi  35 anni leggendaria paladina di una rivoluzione basata su arte e integrazione sociale, Jane Golden è tuttora contattata da illuminati amministratori pubblici di tutto il mondo per replicare i progetti del suo Mural Arts Program. Ce occupiamo in un dossier a puntate, mentre in Italia il gruppo Wiola raccoglie firme contro la legge anti-writers che, in nome di decoro e sicurezza, ha moltiplicato i processi comminando anche la prima pena detentiva.

 

Era il 1994 quando tra le numerose candidature all’Oscar ottenute da Philadelphia del compianto Jonathan Demme, l’Academy premiava Tom Hanks per il suo avvocato malato di Aids e Bruce Springsteen per Streets of Philadelphia, la canzone di apertura del film che accompagna il lungo susseguirsi di immagini della “città dell’amore fraterno” e patria dell'indipendenza americana. 

Scelta per una vicenda di discriminazione in quanto contemporaneamente simbolo delle contraddizioni degli Usa, già presenti nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che escludeva nativi e neri dagli pseudosanciti diritti di “uguaglianza, libertà e ricerca della felicità”, la città appare in tutte le sue incoerenze anche nel video della canzone.
Codiretto da Demme, esso comincia, come il film, con una panoramica dei monumenti emblematici della democrazia americana, per poi inquadrare il Boss che cammina per le strade di quartieri poveri della città, mostrando una divisione razziale mai superata. 
Tra i vari luoghi ed elementi connotativi di Filadelfia, Demme riprende anche alcuni murales.

 

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Due fotogrammi del film Philadelphia (1994) di Jonathan Demme che mostrano due scorci dell'enorme murale Histoy of Immigration, in fase di realizzazione ai tempi delle riprese, come si vede dal secondo non completamente colorato.


Due lunghe inquadrature del film sono dedicate a History of Immigration, l’enorme opera pittorica dislocata su più muri che l’allora trentenne artista ed attivista Jane Golden, il suo assistente Dietrich Adonis e una crew composta da una ventina di adolescenti, volutamente appartenenti alle varie etnie della città, stavano dipingendo al tempo delle riprese.

Dai nativi che abitavano la terra prima di Cristoforo Colombo all'arrivo delle tre caravelle e dei Padri Pellegrini, dall’importazione degli schiavi dall’Africa ai leader del Movimento per i Diritti Civili, dalla Statua della Libertà ai grandi volti che rappresentano le migrazioni dall'Asia e dall'Europa, il murale, sottoposto a restauri nel corso del tempo, rappresenta ancora oggi un importante esemplare della Street Art Revolution di Filadelfia, delle sue intenzioni di superare le barriere razziali e di mitigare le disparità sociali.

 

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Un'immagine del murale originale A Boy with Raised Arm (1991) di Sidney Goodman. Foto di Jack Ramsdale.


Come History of Imagration anche A Boy with Raised Arm del 1991, un murale parzialmente inquadrato sia nel film sia nel video della canzone, è una delle opere simbolo di quel periodo. Disegnato dall'artista Sidney Goodman su ripresa di uno dei suoi quadri più celebri, esso raffigura un bambino di colore col braccio proteso verso il cielo, accanto ad una grande scritta delle parole di Walt Whitman “I’m large. I contain multitudes.”
Divenne talmente popolare ed amato, che quando l'edificio su cui era dipinto fu abbattuto l'immagine del bambino e la scritta di Whitman furono ridipinte in una differente collocazione.

20170909 streets of Philadelphia bruceRealizzato come tutti i murales della città secono il principio di non far calare  progetti e disegni dall'alto, ma con il coinvolgimento diretto delle comunità, ascoltate in lunghe riunioni in cui le persone esprimono  bisogni, idee e desideri, anche Tribute to Diego Rivera, che scorre integralmente alle spalle di Springsteen nel video di Streets of Philadelphia, è un altro emblematico murale degli anni a cavallo tra gli '80 e i '90. Erano anni durante i quali la città, sotto la guida di Jane Golden, stava lottando per tenere in vita gli importanti progetti artistico-sociali che quell’esile ma tenace donna era riuscita ad istituire nel 1984, ma che le sempre più precarie fianze di Filadelfia, conseguenza anche di anni di reaganiani tagli governativi al social welfare, mettevano in pericolo.

In essi Jane Golden riprendeva le modalità e le finalità di un progetto del Museum of Art (quello della scalinata di Rocky e di una stupenda scena nel film Vestito per Uccidere di Brian De Palma),  condotto tra il 1971 e il 1983,  grazie al quale molti ragazzi erano stati coinvolti nella realizzazione di  un centinaio di murales in diversi quartieri della città, sotto la guida di Don Keiser e Clarence Wood, due importanti personalità del settore artistico-educativo. Il progetto del Museum of Art era talmente innovativo nella sua connotazione sociale, che Jane Golden lo ha sempre riconosciuto come il seme iniziale da cui ha preso il via il suo lavoro nel 1984.

20170909 pagnConvinta, allora come ora, che “l’arte sia il più potente mezzo di trasformazione sociale” e che non si debbano “mettere in prigione persone che non fanno del male a nessuno”, la priorità di Jane Golden non era  far ripulire la città come punizione per chi l'aveva sporcata, cosa che comunque venne fatta all'interno di progetti artistici molto articolati. Ciò che veramente le interessava era  coinvolgere in modo continuativo i tanti giovani a rischio,  writers o no che fossero,  provenienti da aree della città talmente dimenticate e prive di servizi da venire definite “la coda della vacca” dai loro stessi abitanti.

Quanto ai writers Jane fece di tutto per avvicinarsi a loro, compresi quelli più carismatici ed irriducibili, che riuscivano a "bombardare" nei luoghi più rischiosi senza farsi prendere, ragazzi con storie personali spesso difficili, “fuorilegge” che da autodidatti, nei ghetti nei quali vivevano, erano riusciti a sviluppare incredibili abilità tecniche ed artistiche, che Jane riconosceva ed apprezzava, convinta com'era che l'espressione artistica debba poter trovare strade di percorribilità per tutti. 

Non fu un’impresa facile, come testimoniano affascinanti aneddoti raccontati da ambo le parti, tuttavia la sincera apertura, empatica e priva di pregiudizi, e l’incondizionato impegno sociale che traspariva da qualsiasi  comportamento di quella giovane donna permisero a molti writers di superare le parecchie diffidenze iniziali e di entrare a fare parte della sua squadra, non solo ottenendo un lavoro retribuito, ma in diversi casi riuscendo a salvare la propria vita. 

Del resto che la street art abbia avuto spesso questa funzione  è testimoniato da infiniti esempi. Uno per tutti la mostra americana "Street art saved my life : 39 New York Stories"  del 2011.

 

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Jane Golden a Filadelfia nei primi anni del suo lavoro all'interno del PAGN.  Il ragazzo in primo piano a destra è il writer Pez, dalla storia personale molto difficile, come del resto quella di molti altri writers del tempo. Inizialmente diffidente e rafrattario è successivamente divenuto  grande amico e collaboratore di Jane, letteralmente salvando la propria vita. 

 

 Quando nel 1996 il Mural Arts Program (MAP) di Filadelfia, che Jane Golden dirige tuttore con immutato fervore sociale, subentrò definitivamente all’Antigraffiti Network, la città accelerò il suo cammino verso quel primato di capitale mondiale della street art, che oggi può vantare oltre 4000 murales che animano le zone centrali così come le più estreme e desolate periferie. 

 

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Family Interrupted di Eric Okdeh, un murale realizzato con tecniche differenti, frutto del lungo lavoro dell'artista con un gruppo di carcerati e con le loro famiglie.

 

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Henry Ossawa Tanner:Letters of Influence (2014), realizzato dall'artista Keir Johnston con i ragazzi residenti in un centro di rieducazione giovanile di Filadelfia.

 

Che siano storici e commemorativi oppure naturalistici e fantastici, che appaiano kitsch, barocchi e ridondanti oppure eleganti, sobri e stilizzati, che siano realizzati solo pittoricamente o mescolando antiche tecniche artigianali con moderne tecnologie multimediali,  i murales di Filadelfia, di cui pubblichiamo una prima galleria,  costituiscono un patrimonio artistico e culturale che solo basterebbe per una lunga visita alla città. Sorprendono, divertono, fanno riflettere e stimolano la curiosità, impossibile da esaudire, di conoscere le innumerevoli storie umane che stanno dietro a ciascuno di essi. Ne racconteremo alcune  nel corso di questo dossier,  diviso in puntate per la vasta rete di interconnessioni che l'argomento street art comporta. 

Se una volta i progetti di Jane Golden contavano solo sui finanziamenti pubblici, col tempo se ne sono aggiunti molti di carattere privato.  Ben lungi da far lievitare i costi dei murales nemmeno quando essi portano firme di artisti famosi, essi hanno permesso di aumentatare il numero di attività di quel programma costruito partendo dal basso. Un programma tenuto vivo  dovendo lottare per anni con un budget che spesso imponeva l’uso di colori e pennelli di scarsa qualità, pur di non sacrificare l’opportunità di fornire corsi artistici gratuiti e continuativi al maggior numero possibile di ragazzini provenienti da comunità povere ed emarginate.

Lavorando con uno spirito di dedizione totale al  bene comune, sempre identificato con tutte le aree della città e con tutte le sue componenti etniche e classi sociali, Jane ha saputo trasmettere quello spirito a chiunque le stesse intorno. E così, insieme al suo primo staff di writers “fuorilegge” e grazie all'appoggio di amministratori cittadini che hanno compreso le sue competenze e l'importanza  del suo lavoro,  è riuscita a far crescere artisticamente e socialmente generazioni di operatori, diventati a loro volta educatori artistici e sociali oltreché, in molti casi, artisti veri e propri.

20170909 mural periferia filadelfiaE se in diverse zone desolate di Filadelfia gli interventi non autorizzati di writing, graffiti e street art siano costanti, Jane Golden continua ad ergersi a difesa di coloro che li eseguono, consapevole che né lei né il suo Mural Arts Program abbiano la bacchetta magica per risolvere gli atavici problemi sociali e razziali della città e convinta che il diritto all'espressione non vada mai criminalizzato.  

Non c’è da stupirsi dunque se Jane Golden, con il suo entusiasmo trascinante e le sua immutata spontaneità, sia  amata e rispettata dai writers di ogni tipo e sia contemporaneamente diventata un punto di riferimento per molteplici istituzioni che da tutto il mondo si rivolgono a lei per imparare a replicare i suoi progetti artistico-sociali.

 

20170909 Big Pun mural in North Philly

Due scatti dal pullman in zone degradate di North Philadelphia. Tra i tanti muri liberamente dipinti e pieni di graffiti, un ritratto del rapper Big Pun scomparso nel 2000.

 

Intento  di questo dossier è anche  raccontare la storia di questa donna fuori dal comune, storia che vicissitudini personali unite a concomitanti contingenze sociali e politiche (interpretabili, volendo, anche come straordinarie combinazioni del caso), hanno reso  avvincente come un romanzo. 

Inevitabilmente ciò comporterà raccontare anche  la storia  dei muri di Filadelfia che a loro volta, come quelli di altre metropoli americane, raccontano la storia dei writers o taggers o graffitari che dir si voglia, e di quel misto di ribellione e desiderio di affermare la propria identità che li ha animati fin dalla loro comparsa sulla scena negli anni '60.  Anche se sarebbe più corretto dire che la loro prima  comparsa sulla scena risale alla preistoria, con tag costituite da impronte di mani quando la scrittura era ancora di là da venire, simbolo dell'innato istinto umano di lasciare un segno del proprio passaggio. 

Limitandoci comunque alla storia dei writers americani a partire dal secolo scorso, con analogici agganci all'Italia di inzio di millennio,  vedremo come essa sia stata costellata da feroci guerre ingaggiate contro di loro da amministratori pubblici. Il culmine arrivò negli anni '70 e '80, quando ovunque si tuonava contro l’illegalità delle azioni di quei  vandali pericolosi che minacciavano il decoro, l'ordine e la sicurezza,  come se la vera illegalità della nazione più ricca, potente e democratica del mondo non fosse stata quella di avere abbandonato a se stesse enormi fasce di cittadini di serie B.

 Le macroscopiche proporzioni della guerra e della propaganda contro i writers erano riuscite, come sempre avviene con la propaganda, ad inculcare quelle  presunte verità nella maggior parte della gente, fornendo il perfetto capro espiatorio contro cui sentirsi uniti in una lotta comune, ed impedendo alle persone, attraverso il solito processo di lavaggio del cervello, di individuare le vere cause delle distorsioni della loro società. 

 

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Una foto  di alcuni di quei pericolosi delinquenti responsabili del degrado urbano e della minaccia ai sani valori della società americana. La foto, di Jon Naar, è tratta dal bellissimo libro The Faith of Graffiti del 1973, in cui le foto di Naar sono introdotte dal saggio di Norman Mailer che dà il nome al libro. Ne parleremo in un prossimo capitolo. 

 

 Quanto a me, sebbene siano ormai trascorsi alcuni anni da quando ho approfondito la storia di Jane Golden, affascinata ed incuriosita dai racconti letti ed ascoltati su di lei durante un primo soggiorno  a Filadelfia, trascorso per la maggior parte del tempo "in giro per murales",   ho deciso di scriverne adesso per la sempre maggiore attualità di vicende giudiziarie italiane relative a  street artists. Vicende che un paio di mesi fa hanno portato alla  prima condanna detentiva italiana, con i sei mesi e venti giorni di reclusione comminati dalla Corte di Appello di Milano a  un writer della città. Il ventinovenne, che da tre anni si trova in Cina dove lavora come grafico, potrebbe tra l'altro trovarsi, al momento del suo eventuale rientro in Italia, a dover scontare una detenzione di alcuni anni per l'assurdità del fatto, afferma il suo avvocato difensore Domenico Melillo  a sua volta writer di fama internzionale con il  nome di Frode, che l'indagine su di lui è stata spezzettata in diversi processi. 

Una condanna che non  regge la proporzione  con reati ben più gravi, ma  che  amministratori italiani hanno accolto con plauso, in quanto  pena esemplare che si inserisce all'interno delle politiche di law and order volte non solo alla punizione  di chi imbratta i monumenti  con scritte imbecilli, ma alla repressione  di chi esprime liberamente la sua arte, magari  decorando trasandati muri di periferia. Muri spesso disdegnati persino da quei cartelloni pubblicitari che, raramente uscendo dalla matita di discepoli di Saul Bass, dovrebbero offendere il comune senso civico ed estetico, così acuto e diffuso quando si tratta di indignarsi contro i disegni o le scritte fantasiose dei writers. 

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Come non ritrancciare nella virulenza di diversi politici bipartisan di casa nostra, echi della propaganda di personaggi alla Ed Koch, sindaco democratico di New York dal 1978 al 1989, che nella sua incondizionata guerra contro i writers ne parlava  in termini  di “delinquenti che come i ladri e i borseggiatori minano il sistema di valori su cui si fonda la società americana”?  (A sinistra la foto di un famoso controverso incontro del 1984 tra  Ed Koch e Keith Haring il quale, come vedremo, nel 1987  realizzerà a Filadelfia il murale We The People lavorando cioi bambini)

Senza arrivare al  paradosso di Koch di ipotizzare l’impiego dei lupi per fare da guardia alle stazioni della metropolitana perché, contrariamente ai cani, “non si è mai sentito di un lupo che abbia morso qualcuno",  le innumerevoli accuse dell'ex primo cittadino newyorkese risuonano nelle opinioni di gran parte degli italiani, grazie ad una propaganda che non ha nulla da invidiare a quella di Koch, nonostante la miniatura della nostra situazione. 

E intanto, contando sull'articolo 639 del Codice Penale, una legge del 1930 anni  su cui si è intervenuti negli ultimi anni con ripetuti giri di vite, i processi contro i writers proliferano a dismisura, con conseguente dispendio esagerato di risorse pubbliche che potrebbero essere destinate a ben altro. Magari a progetti simili a quelli di Jane Golden,
Certo la questione è molto complessa e richiederebbe tavoli di persone non solo  altamente competenti in materia di street art e di questioni sociali,  ma  animate come Jane da un alto impegno civile, volto non solo alla salvaguardia dei muri. Insomma forse ci vorrebbero un po' di persone simili a Jane Golden e al quel suo primo staff di writers fuorilegge. 

Noi perora, almeno a Monza, ci dobbiamo accontentare dei Fight the Writers, una delle diverse associazioni che, a giudicare dai nomi guerreschi che si danno,  si pongono in posizione di contrapposizione e demonizzazione di quel mondo tanto eterogeneo dei writers. Nati da una sezione monzese del Rotary, cui si sono aggiunti i Lions ed altre organizzazioni analoghe, i Fight the Writers, nonostante il nome belligerante, sono per  autodefinizione "cittadini per bene""apolitici", che amano la loro città e vogliono riportarla all’antico decoro oggi trasformato in totale degrado. Armati di pennellesse e tolle di vernice, periodicamente scendono in strada in tuta bianca per ripulire i muri del salotto buono della città.

20181001 Dario Allevi Fight the writers Oggi sono molto sostenuti dalla giunta del sindaco Dario Allevi il quale, durante il cleaning day del 29 ottobre scorso ha parlato di "campagne di civiltà" intraprese per porre fine "alla piaga della nostra città che sono le invasioni di writers e di graffiti e di muri tutti imbrattati". (Nella foto a destra, presa dalla pagina Facebook di Fight The Writers, il sindaco di Monza Dario Allevi)

Ospitato telefonicamente, insieme al writer Pao, alla trasmissionie I Funamboli di Radio 24 il giorno dopo la notizia della condanna del writer che vive in Cina, il sindaco ha annunciato provvedimenti per  comminare ai writers monzesi il massimo delle sanzioni previste dalla legge.  Ma ha  anche dichiarato la sua disponibilità al confronto con loro  e il suo apprezzamento per i veri artisti di strada. Staremo a vedere a cosa porteranno tali dichiarazioni.

Chi invece proprio non ci sta a condannare i writers è il collettivo virtuale Wiola, pagina Facebook Wiola Viola. Presentatosi pubblicamente solo nel giugno scorso e pur non essendo ancora molto conosciuto il gruppo promette assai bene, considerando sia le firme di adesione già raccolte per la campagna lanciata il 2 gennaio 2018 contro  la legge antiwriter, sia gli inviti che i loro portavoce, tra cui il già citato avvocato writer Frode, stanno collezionando in questi ultimissimi giorni su radio quali  Radio Onda d'Urto, Radio Popolare e Radio 24. 

 

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Un'immagine tratta dalla pagina Facebook di Wiola Viola

 

Essendo nostra intenzione dedicare a Wiola lo spazio che merita, rimandiamo ad una prossima occasione, onde evitare di  aggiungere ulteriore carne ad un fuoco già molto affollato.

  Concludiamo dunque questa prima parte del dossier tornando circolarmente alle anticipazioni cinematografiche di quel destino da capitale della street art che sarebbe spettato a Filadenfia.  Un destino che tredici anni prima del film di Jonathan Demme, un altro mostro sacro aveva in un certo senso preannunciato. 

20170909 blow out 2Tra le location del thriller Blow out (1981), anch’esso girato nella città della Pennsylvania per sottolineare le contraddizioni della democrazia americana, il filadelfiano Brian De Palma aveva infatti scelto un edificio adiacente ad una statua di Benjamin Franklin con murale a tema storico,  come casa del fonico e catturatore di suoni John Travolta. Tra le tante figure del murale, ora non più esistente, spiccava il grande volto del padre fondatore, quasi in dialogo con la sua statua sottostante. Da un primo totale notturno, successive inquadrature in altri momenti del film si avvicinano a quel volto fino a che un suo primo piano diurno sembra giudicare la realtà contemporanea.

 

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Due fotogrammi tratti dalle diverse inquadrature del murales a tema storico del film Blow Out (1981) di Brian De Palma. 


Ai tempi dell’esplicito omaggio di Brian De Palma al Michelangelo Antonioni di Blow up, Jane Golden  si trovava a Los Angeles, dove da cinque anni lavorava con i più importanti muralisti del tempo e con Judy Baca, un'altra straordinaria donna che ha fuso arte e impegno sociale, fondatrice del famoso Social and Public Art Resource Center (SPARC) californiano.

E lì Jane sarebbe rimasta se nel 1983 non fosse successo che ...

 

continua

 

Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.