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Intervista al presidente di Libera Monza e Brianza «Una locale della ndrangheta su 4, al Nord è qui vicino. Le retate di polizia e carabinieri sono la conferma di questo primato, altro che Brianza felix»

Un don Ciotti in Brianza? C’è, c’è. E non è un sacerdote. Si chiama Valerio D’Ippolito. Un laico. Un vulcano ricco di iniziativa e di impegno sociale. Del prete, cioè di don Luigi Ciotti fondatore di Libera, costola del gruppo Abele di Torino, è un entusiasta seguace. E a nostro avviso un degno rappresentante. Valerio, nato a Serra Pedace, piccolo centro della pre-Sila cosentina, la Calabria ce l’ha nel sangue e nel cuore. L’ha lasciata tanti anni fa, destinazione Lombardia: prima  Milano, poi  Monza e  Vedano al Lambro, infine Carnate. Quello che incontriamo ormai è un brianzolo ma molto geloso e fiero delle sue origini.

 Inizia come figiciotto (cioè giovane comunista iscritto alla Fgci)  al suo paese, che è poi lo stesso del noto dirigente comunista Luigi Gullo, padre di una importante riforma agraria ed ex ministro della agricoltura (22/4/1944 – 13/7/1946) nel governo di Pietro Badoglio (è passato alla storia come il ministro dei contadini) e poi della giustizia (14/7/1946 – 1/6/1947) nel governo di Alcide De Gasperi, al posto di Palmiro Togliatti.

 Al nord trova lavoro al comitato provinciale della Cri (Croce Rossa Italiana), poi nel 1978 il sindacato gli propone di cambiare mestiere. In breve diventa  segretario della Funzione pubblica delle Cgil, prima regionale, poi milanese. L’esperienza dura una ventina d’anni, si conclude nel ‘98 in maniera un po’ burrascosa. Rientra alla Cri di Milano, diventa capo del personale. E resta lì sino al 2008, quando decide di andare in pensione. Ha sessant’anni ed è a fine carriera. Ma quel che ha fatto non gli basta. Vuole fare dell’altro.

 

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Cos’è che ti ha fatto decidere di continuare?
Oserei dire la mia calabresità. Anche in quegli anni la ndrangheta spadroneggiava e l’accostamento mafia Calabria mi faceva soffrire tantissimo. E tantissimo mi facevano soffrire i calabresi al nord, che avevano dato vita a numerosi circoli nei quali si mangiava, ci si divertiva, si discuteva anche, di tutto meno che del fenomeno mafioso. Mi tormentava in genere questa indifferenza. Avevo seguito attraverso i giornali le iniziative di Libera, soprattutto il suo impegno non solo a promuovere dibattiti sul malaffare ma anche a mettere in piedi qualcosa di concreto. La proposta di dare un seguito alla legge La Torre mi interessò moltissimo. I beni della mafia  dovevano essere confiscati come voleva il suo promotore, il grande Pio La Torre ma, secondo Libera, dovevano anche avere un riutilizzo sociale. In proposito fu avanzata vera e propria proposta che raccolse un milione di firme. Nel giro di un anno diventò legge, esattamente il 7 marzo 1996.

Oggi soprattutto al Sud molte terre strappate alla mafia producono e danno lavoro

E così la legge Pio La Torre ebbe un importante completamento.
Esatto. Dalle enunciazioni, pur importanti, si era passati ai fatti. Oggi soprattutto al Sud molte terre strappate alla mafia producono e danno lavoro, numerose cooperative di giovani ormai fanno impresa con grande fantasia. Il loro impegno non ha solo un carattere economico, rappresenta  il vero baluardo ideale e culturale, allo sviluppo del modello mafioso. La mafia si può battere. Loro ne sono la dimostrazione.

E al Nord?
I beni confiscati sono in generale immobili. La stessa sede nazionale di Libera in via IV Novembre a Roma trova posto in una palazzina che prima era della mafia. Ma qualche cosa abbiamo anche qui in Brianza.  A Desio, ad esempio,  opera  da qualche anno, in un edificio confiscato ad un malavitoso calabrese, in via Molino Arese 31, una struttura psichiatrica di residenzialità leggera ovvero un centro protetto per persone con patologia psichiatrica. Il Comune l’ha assegnata all’Asl che sovraintende alla gestione sanitaria mentre l’accoglienza è affidata ad una associazione di volontariato. Nei pressi di quella palazzina c’è un terreno di 2500 metri quadrati, in attesa di destinazione. Il bando è già stato pubblicato.

Quando hai deciso di entrare in Libera?
Tra il 2007 e il 2008. Vado a Milano, prendo contatto con i rappresentanti provinciali,  sistemati in uno spazio della sede delle Acli in via della Signora, e  mi offro di tenere aperto l’ufficio. Partecipo alle riunioni con il referente regionale d’allora, Lorenzo Frigerio. Sono diverse le associazioni e i singoli che chiedono di costruire l’Associazione Libera. Ovviamente c’è anche Monza e la Brianza. Ricordo ancora la serata di lancio nel febbraio del 2011. Sala Maddalena, 120 posti disponibili, 250 persone presenti. Avevamo sbagliato tutto ma eravamo felici lo stesso.  A marzo viene costituito il comitato di coordinamento e cominciamo a muoverci.

 

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Quanti iscritti avete?
120 persone singole ma ben 20 associazioni e fra queste ci sono le tre Confederazioni sindacali della Cgil, della Cisl e della Uil, sindacati di categoria come lo Spi (il sindacato dei pensionato della Cgil ), circoli Acli, l’osservatorio sul fenomeno mafioso intitolato a Peppino Impastato. Insomma abbiamo messo insieme una rete ed è con questa rete che facciamo tante iniziative. Corsi di educazione sulla legalità in diverse scuole dove ogni anno riusciamo a toccare non meno di 3-4 mila studenti, dalle medie ai Licei. Portiamo in queste sedi non solo dirigenti di Libera ma anche magistrati, giornalisti, scrittori, esperti.

E i rapporti con la politica?
Non sono un cruccio, noi siamo completamente autonomi, noi  lanciamo le nostre iniziative su parole d’ordine precise: la lotta al malaffare, la corruzione, le mafie, la difesa della legalità e chi è interessato  viene. Di solito in tanti. L’anno scorso a Firenze 150 mila, nelle scorse settimane a Bologna 200 mila. Sono numeri importanti che ci dicono quanto noi non siamo e non ci sentiamo soli . Certo, la politica potrebbe fare molto di più.

Come sta la Brianza sotto il profilo della presenza mafiosa?
Malissimo. Siamo nel gruppo di testa delle regioni del centro nord. Al nostro fianco abbiamo Milano, Torino e Imperia. Nell’ultima relazione dell’antimafia su 17 locali (un termine tecnico che sta per agglomerati dranghetisti ) 4 sono in Brianza. Uno su quattro, non è certamente un bel primato. Le retate di polizia e carabinieri sono la conferma di questo primato, altro che Brianza felix come sostenevano un tempo, non poi molto lontano, i leghisti. A Seveso hanno scoperto la Banca d’Italia della drangheta, Brugherio ha superato Desio per beni confiscati. Nel complesso c’è una presenza mafiosa estesa che suscita una grande emozione quando si scopre che... ma poi tutto si smorza. Diventa roba solo per magistrati, carabinieri e Guardia di finanza e invece occorrerebbe  una azione politica forte e un impegno culturale approfondito e costante. Io in campo sono sceso per combattere il pericolo della indifferenza. Il fenomeno mafia al nord merita una attenzione continua, addirittura assillante. Per i mafiosi, si intente.

 

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Ed è per questo  che tra maggio e luglio dello scorso anno ti sei messo in strada e a piedi hai percorso i 1580  chilometri che separano Monza da Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro, la località dove è nata Lea Garofalo?
Non lo so bene nemmeno io perché l’ho fatto. Certamente è stato decisivo il processo d’appello per l’omicidio di Lea Garofalo, celebrato nella primavera del 2013 presso il tribunale di Milano. Lea aveva la colpa di essere un importante testimone di giustizia, era stata ammessa anche ad un programma di protezione al quale ad un certo punto aveva rinunciato. Del processo ho seguito tutte le udienze, con grande attenzione. Ma quella in cui Carmine Venturino decide di raccontare in maniera minuziosa  i vari momenti del delitto, mi ha particolarmente colpito. Come  è noto,  è stato il marito, Carlo Cosco ad ucciderla: lo ha fatto il 24 novembre del 2009 in un appartamento di piazza Prealpi a Milano. Venturino, aiutato da altri due dranghetisti, Rosario Curcio e Massimo Sabatino, trasporta il cadavere in Brianza e lo brucia nel pratone di San Fruttuoso, a Monza. Il racconto fatto in dialetto stretto mi sconvolge, mi ferisce come calabrese, e decido di fare qualcosa. E’ a quel punto che nasce l’idea di una sorta di pellegrinaggio laico. La illustro all’amico Valentino Marchiori. Vengo anch’io mi dice di botto: non ammette repliche. Il 18 maggio ci mettiamo in marcia. Da fare ci sono 1580 chilometri, divisi in 59 tappe. A Pagliarelle arriviamo il 21 luglio dopo una marcia durata più di 60 giorni. Due soste: una di quattro giorni a Lucca per consentire al mio compagni di viaggio, Valentino, di assistere alla discussione della tesi di laurea del figlio presso l’Università di Milano, e una di due giorni a Roma per un lavaggio generale, presso la sede di Libera di via IV Novembre. Ne  avevamo bisogno. (Le foto si riferiscono a quei giorni, ndr)

Un viaggio avventuroso e faticoso insomma.
Ribadisco la definizione alla quale sono molto affezionato: si è trattato di un pellegrinaggio laico. Con un grande contenuto di spiritualità. Dovunque abbiamo incontrato tanta solidarietà che spesso ci ha commosso. Il momento più basso l’abbiamo vissuto  in provincia di Caserta dove la titolare del bar nel quale ci eravamo fermati, ha voluto sapere qual’era la ragione di questa nostra impresa. Fate un a bella cosa, non c’è dubbio tuttavia che ci sono situazioni in cui certe brutte cose si è costretti a farle “. Quel tuttavia mi è rimasto sullo stomaco, non l’ho proprio digerito. Il momento più alto? L’arrivo. I ragazzi della Lega Ambiente di Petilia Policastro ci sono venuti incontro, in pratica siamo entrati a Pagliarelle con la scorta e sotto lo striscione Benvenuti in terra di Lea, ho pianto. Non mi vergogno ad ammetterlo.

Una stupenda conclusione.
E’ vero. Te l’ho detto: dovevo fare qualcosa, ancora non so perché. I motivi sono tanti. La mia calabresità ha avuto una parte importante. Ora che ce l’ho fatta posso dire prima di tutto a me stesso: finalmente ho portato Lea a casa “.