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Questa mattina mi sono svegliato presto e mi sono vestito elegante per andare a Cernusco sul Naviglio al funerale di Abdul Graibe detto Abba, nero, morto ucciso a Milano. Per un piccolo furto, rincorso e bastonato a morte.

Non vado mai ai funerali delle vittime famose, ai funerali degli artisti importanti, dei caduti per difendere la patria, non sono andato alla passerella di lutto dei morti della ThyssenKrupp. Ma questa mattina ho deciso di andare. A Cernusco sul Naviglio, un paesino nell’hinterland milanese. In una giornata di pioggia. Arrivato lì, vedo con sorpresa che c’è poca gente. Per la maggior parte neri. Vicino alla bara di Abdul i parenti, gli amici, qualche bianco. Alcuni piangevano, altri guardavano con gli occhi vuoti il feretro. Ho cercato le corone di fiori. Erano quattro, o forse cinque. Piccole. Una di un gruppo di donne, una della Provincia di Milano. Basta. Non c’era nessun’altra corona. Di Comune, Stato, Chiese, Sindacati, Comunisti.

La sala che ospitava il feretro, una sala auditorium quasi vuota. Litanie come lamenti, cantati con discrezione, forse per non irritare i laboriosi vicini milanesi. Un uomo, che poi ho capito che era il padre di Abdul, accoglieva le persone, sorridente. E ringraziava. Un altro uomo vicino a lui, più giovane, il viso disperato dove si vedeva la rabbia. C’era qualcosa di antico, di poetico, di unico, di straordinario in quel commiato delicato che non voleva fare troppo rumore. Non ho visto nessun politico importante, nessun prelato importante, nessun artista importante, nessun giornalista importante.

Qualcosa come una rabbia mischiata al pianto mi è salita nell’assistere al funerale di quel martire negro, diverso da quelli bianchi onorati e rimborsati vicino ai quali i nostri fantocci politici si fanno volentieri vedere con gli occhi rossi. Quelle poche persone presenti salutavano e abbracciavano la famiglia come se stessero entrando nella loro casa. C’era in quell’atto di commiato funebre una bellezza, una poesia, una sacralità che è ormai impossibile vedere nel mio Paese. Volgare, fascista, razzista. Mascherato da finto cattolicesimo, finto comunismo, finto pietismo. All’uscita su un piccolo quaderno ognuno scriveva il proprio nome, o un saluto a questo uomo ucciso dalla volgarità e dimenticato.

«Ciao Abdul e scusami per questo paese di m.», gli ho scritto io. A poco a poco l’esiguo corteo si è avvicinato in silenzio alla bara. Il padre di Abdul restava lì fermo con gli occhi lucidi e il viso sorridente, portando una dignità più forte del suo dolore. E prima di salire su una macchina, quasi come un ultimo regalo sublime di civiltà, libertà e saggezza a quei pochi presenti, con un dolce sorriso ci ha detto: «Grazie a tutti, l’affetto che mi dimostrate in questo momento serva a una giustizia vera». Grazie al papà di Abdul, grazie a Abdul, che mi avete regalato in questa giornata grigia, triste, drammatica, scandalosa di inizio autunno, uno squarcio di luce.

Da LaStampa.it
Pippo Del Bono è autore teatrale