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Il musicista, ex chitarrista dei Sonic Youth, si racconta a Vorrei: gli incontri con Kerouac, Borroughs  e Ginsberg, le influenze della Beat Generation e della letteratura, del cinema di Godard e di Antonioni, della musica orientale e dell'arte. E non mancano le opinioni sull’America di Trump.

 

Fotografie di Dario Nigredo

 

Lee Mark Ranaldo, nato a New York il 3 febbraio 1956, ex chitarrista e cantante dei Sonic Youth, è anche autore solista.

Alla fine degli anni ‘70 suona nel gruppo punk sperimentale Fluks, nome derivato dal movimento artistico dadaista Fluxus. Agli inizi degli anni ’80, nel pieno della scena new-wave di New York, fonda insieme Thurston Moore e Kim Gordon il gruppo Sonic Youth, che diventa presto uno dei principali punti di riferimento della scena indipendente e della proliferazione del movimento grunge.
A partire  dal 1987, parallelamente all’impegno con i Sonic Youth, intraprende la carriera solistica, che dura tutt’oggi, alla quale affianca anche l’attività di produttore, di scrittore di libri musicali e di poesie. 

L’ho incontrato  a Matera nell’ambito del premio letterario Energheia dopo il suo concerto organizzato da Time Zones

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Lee, quanti cambiamenti dal Ranaldo dei Fluks al Ranaldo dei Sonic Youth! Sei entrato nel mondo della musica e nel mercato discografico alla fine degli anni ’70  e ci sei ancora oggi.

(ride) Sì, ma non sono io quello che è cambiato, comunque. 

La mia prima domanda riguarda il rapporto fra la letteratura americana e la musica. Per esempio so che hai incontrato più di una volta William Burroughs. Come questi incontri e la Beat Generation hanno influenzato la tua musica?

Non è facile rispondere a questa domanda. Abbiamo trovato negli scrittori di quel movimento alcune delle prime manifestazioni di un certo tipo di libertà,  di più ampie vedute in America. Loro scrivevano negli anni ’50 e ’60 e noi li leggevamo negli anni ’60 e ’70, soprattutto Kerouac e Burroughs, che ho incontrato qualche volta. Conoscevo Ginsberg anche meglio di Burroughs, perché lo vedevo spesso a New York. La loro scrittura ha portato una marea di novità: idee dall’Est, concetti di spiritualità, di droghe e cose del genere. Nel complesso la loro scrittura ha influenzato questa cultura in continuo movimento, ma questi autori, presi singolarmente, non hanno ottenuto il riconoscimento che si aspettavano. Questo è sicuro. Ho risposto alla tua domanda? (ride)

Sì. Oltre a Burroughs mi viene in mente Philip K. Dick…

Philip K. Dick e gli scrittori di fantascienza. Se volessimo stilare un elenco di influenze dal mondo letterario, beh, ne arrivavano da ogni genere letterario. Raymond Carver per esempio, ma anche scrittori del genere poliziesco… qualunque genere io citassi andrebbe bene perché, vedi, io credo che se sei un lettore, hai voglia di leggere tante cose. Leggi Kafka, leggi Calvino. Leggi di tutto.

Conosci Italo Calvino?

Certo che sì. Quindi, sono davvero tante le influenze. Possiamo citare quelle letterarie, quelle cinematografiche… penso a Godard, ad Antonioni. E poi le influenze pittoriche. E così via. È una domanda facile solo in apparenza, la tua. 

E sei andato sulle montagne marocchine dove hai incontrato i Maestri dei flauti.

Sì, i Master Musicians of Joujouka. 

Ci sei andato per Burroughs e Brian Jones?

Sì, sono andato lì perché conoscevamo il posto ed eravamo amici del leader del gruppo, che era il figlio di quello che aveva incontrato William Burroughs e Brian Jones. In alcuni periodi dell’anno lui viveva a New York. L’avevamo invitato, dicendogli che avevamo in programma di andare in Marocco e lui ci aveva risposto: “Vi vengo a prendere io a Tangeri e andiamo a Joujouka”, e così siamo diventati amici ed è finita che quella notte ho suonato con loro nel villaggio, lì sulle montagne, senza acqua corrente, senza elettricità. Abbiamo suonato tutta la notte, abbiamo fumato il kief, cose così, e poi ho suonato con loro altre volte dopo che i Sonic Youth si sono esibiti a Granada, in Spagna. 

C’è un legame tra questo tipo di musica proveniente da altre parti del mondo e la tua musica? 

Penso di sì. Ho sempre avvertito un legame con la loro musica. Questa in particolare è molto antica eppure, quando ci sei dentro, sembra rock’n’roll, è musica trance, ed è ritmica, proprio come il rock’n’roll. E sai, quando eravamo agli esordi coi Sonic Youth, una delle mie influenze maggiori è stato il gamelan indonesiano. Amo ancora molto quel tipo di campane. Le percussioni metalliche hanno influenzato moltissimo i nostri primi pezzi. 

Probabilmente anche David Byrne ne è stato influenzato allo stesso modo.

Sì, non mi stupirebbe. Quel tipo di musica ha influenzato moltissime persone, credo. 

 

KEXP.ORG presents Lee Ranaldo performing live in the KEXP studio. Recorded October 28, 2017.

 

Vi siete esibiti entrambi al CBGB. La Bowery a New York è ancora com’era quando hai iniziato a suonare lì o è cambiata?

La Bowery è tutta negozi di lusso, appartamenti e cose del genere, è molto cambiata da allora. 

Ok. Torniamo a parlare di musica. Tu hai incontrato i Nirvana, i massimi esponenti del grunge.

C’erano molti esponenti del grunge. C’erano molti molti molti grandi esponenti del grunge. 

Ad esempio? Oltre ai Nirvana hai incontrato Mudhoney.

Sì, certo, anche loro sono grunge. Non dobbiamo fare necessariamente una lista. Ma non diamo ai Nirvana tutto il merito del movimento grunge solo perché erano i più famosi. 

Ok. Se penso all’Europa di oggi, credo di poter dire che non abbiamo molti musicisti validi. Pensi che oggi potrebbe cominciare un nuovo movimento come la no wave, il punk, il grunge…?

Assolutamente sì!

Per esempio?

Non possiamo dargli noi un nome. Se gli dessimo un nome, lo faremmo cominciare. Sta a chi gli dà il via trovargli il nome. Se io fossi in grado di dirti cos’è, potremmo affermare: “Facciamolo!” (ride) Ha sempre funzionato così. Non puoi decidere di far accadere certe cose. Accadono e basta. 

 

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Com’è il tuo rapporto oggi con gli altri membri dei Sonic Youth? Con Thurston Moore e Kim Gordon?

Li ho visti tutti nelle ultime due settimane, Thurston a Londra, Kim a Raleigh in Carolina del Nord, e incontro Steve qua e là a New York e… le cose vanno bene!

Pensi che una reunion sia possibile?

No!

Un “no” categorico.

No, non è categorico. Non si sa mai. Non si può mai dire che cosa succederà in futuro in questioni come queste. Non ci penso… non ci pensiamo per niente. Proprio per niente. Nessuno di noi ci pensa. Siamo tutti molto presi dalle nostre attività e credo che una cosa del genere, perché accada, debba avvenire con modalità molto precise. 

Le tue radici sono nell’arte. Hai frequentato una scuola d’arte prima di suonare la chitarra?

No, l’ho frequentata mentre suonavo la chitarra. Ho iniziato a suonare la chitarra da teenager, mentre con l’arte ho cominciato alla fine dell’adolescenza. 

Vorrei parlare un po’ di politica.

 Oh, no!

Cosa pensi dell’attuale situazione negli Stati Uniti col tuo presidente? Perché Trump è anche il tuo Presidente… o no?

Non è il mio Presidente. Anche se immagino di dover dire, mio malgrado, che lo è. È innegabile che lo sia, nonostante tutta questa gente che scrive #notmypresident. È così e basta. Non mi va di parlarne, penso che sia un argomento noioso, nauseante e terribile, e quest’ondata conservatrice non ha investito solo gli Stati Uniti. Stasera non mi è capitato di parlarne durante il concerto (“Acoustic + Electric Songs& Stories Tour”, concerto a Matera del 16 settembre 2018, n.r.d.) ma di solito, prima dell’ultima canzone, dal palco parlo del trumpismo e di ciò che sta accadendo in Europa, in Sud America e in Australia. Di questo strano sussulto d’energia di anziani uomini bianchi che cercano di tenersi stretti i loro vecchi valori e non si aprono al futuro. 

Ok. Tu, Thurston Moore, Steve Albini, Paul Westerberg, avete cambiato le regole del mercato della musica. Pensi che gli artisti di oggi possano ancora cambiare le regole o tutto è nelle mani dell’industria discografica? 

Non penso assolutamente che abbiamo cambiato le regole del mercato. Penso che il mercato sia noiosissimo da quel punto di vista. Forse abbiamo cambiato alcune regole della musica per ciò che abbiamo fatto e forse in un certo senso anche il rock’n’roll, ma questo non c’entra molto col mercato discografico. L’industria discografica mastica i musicisti e poi li sputa fuori, gli imprenditori guadagnano molti più soldi dei musicisti stessi. È un classico ed è sempre stato così. Il mercato discografico non è interessante e oggi non esiste più, perché è andato in pezzi. Il che non è necessariamente un male… perché, vedi, la musica è un qualcosa che si muove, che muta continuamente, è come un fiume che scorre dagli albori a oggi e oltre. E quindi, più che cambiare le regole, aggiungi la tua voce in questo fiume. Io credo che sia così che funzioni… Entri in quel flusso, in quel fiume che è la musica, e in questo modo entri in un certo senso nella storia della musica, diventando parte di essa. 

A proposito, cos’è cambiato da quando eravate sotto contratto con la SST a quando siete passati alla major Geffen? Qual è la differenza fra l’appartenere a una piccola o a una grande casa discografica? 

Beh, le piccole etichette sono fighissime, hanno un’immagine di tendenza, e non hanno soldi, mentre le grandi etichette non sono per niente fighe ma hanno i soldi. Questa è la principale differenza fra le due. Quando abbiamo firmato con la Geffen, l’abbiamo fatto perché le grandi case discografiche hanno soldi per fare molte cose e una delle cose più importanti è che li usano per mettere i dischi nei negozi. Ci è capitato di fare tour per il mondo e di incontrare persone che ci dicevano: “Nella mia città nessun negozio di musica ha i vostri dischi” e ciò dipendeva dal fatto  che lavoravamo per piccole etichette che non avevano la fitta rete di distribuzione di cui dispongono invece quelle grandi. Ecco perché ci siamo spostati sulla Geffen: perché i dischi fossero disponibili ovunque andassimo. E devo dire che ha funzionato. Quei dischi hanno venduto molto di più. Quindi la motivazione era più che altro legata a un problema di accessibilità.

Questa intervista è stata realizzata grazie alla collaborazione di Michele Sabino, della scrittrice Tiziana d’Oppido che l’ha tradotta. Gli scatti sono di Dario Nigredo.

Gli autori di Vorrei
Michele Lospalluto
Michele Lospalluto
Speaker e giornalista di Radio Regio di Altamura. Appassionato di musica rock, blues, jazz, etnica, d'autore e sperimentale.