Intervista all'autrice di "Tu sei gialla". «Spesso nel mio lavoro mi sento dire che la scuola non è più quella di una volta. Che scoperta! Perché le famiglie sono quelle di una volta?»

 

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u sei gialla un titolo molto originale. Chi l'ha scelto, tu, l'editore..?
A pensarci bene, il titolo lo ha dato uno dei protagonisti della storia, che un giorno ha “fotografato” la realtà che stava vivendo e io non ho fatto altro che dare spazio alla luce di quel giorno. Quando l’ho proposto alla casa editrice, la responsabile editoriale del progetto ha accettato subito, anche se non mi ha nascosto la perplessità rispetto al fatto che potesse indurre a pensare che l’argomento fosse la storia di una donna di altra etnia e nazionalità. Qualche addetto ai lavori poi, una volta pubblicato, mi ha detto che, per quanto originale, il titolo non dà nessun indizio rispetto alla trama e questo non favorisce, per esempio, nel corso di una ricerca bibliografica.

Se il giallo fosse un libro sarebbe il tuo libro – ossia: di cosa parla il romanzo?
È la storia di una famiglia (una coppia di potenziali genitori, veramente) che si apre all’esperienza dell’affido, sia quello temporaneo con l’ospitalità di una bambina che proviene dalla Bielorussia, sia quello a tempo pieno con l’accoglienza di un bambino proveniente da una comunità e individuato dai servizi sociali del territorio.

Moltissime persone hanno detto che Tu sei gialla dovrebbe essere letto da assistenti sociali o da futuri operatori nell'ambito del sociale. Da queste osservazioni, due domande: la prima, è se nella tua vita hai incontrato persone che lavorano nel sociale e che ti hanno ispirato per i personaggi; la seconda, è se tu hai scritto il libro pensando a loro.
Devo ammettere che molti hanno detto o scritto anche a me che il libro dovrebbe essere letto dagli operatori del settore e non posso che esserne contenta. Vuol dire che il libro ha centrato l’obiettivo che mi ero prefissata; non avevo, infatti, il desiderio che la scrittura fosse “contro” qualcuno, ma piuttosto costituisse un’occasione “per” qualcuno: e questi potrebbero essere assistenti sociali e psicologi, ma anche genitori, famiglie, insegnanti.
La storia ha poi una base autobiografica e, quindi, nel corso della vicenda che abbiamo vissuto è stato inevitabile conoscere persone che lavorano nel sociale. È altrettanto vero però, che gli episodi sono rappresentativi di tante storie simili: mi viene in mente il titolo di un libro appena uscito “Vite che non sono la mia”. Ecco, questa è una storia che potrebbe essere proprio la mia, ma non è solo mia. Forse sono più chiara se uso le parole di una mia ex studentessa che una volta letto il libro è venuta a cercarmi molto in ansia solo per chiedermi: “Prof, perché l’ha scritto? Si è scoperta troppo!” Al che l’ho tranquillizzata dicendole che alla sua età le storie appartengono a chi le vive, alla mia appartengono a tutti.

Il libro parla di affidamento e famiglia. Quanto della madre e quanto dell'educatrice/insegnante c'è in esso?
In realtà non c’è nessuna delle due. Non sono madre e non mi sento affatto “in ruolo” nella vita. Una delle cose più belle che uno dei tanti miei ex studenti mi ha scritto (e che mi ha anche un po’ commosso) è stata: “Riesci a insegnare anche quando non vuoi. O forse non vuoi mai, e per questo ci riesci sempre. E' un dono, penso”. Le sue parole sono state davvero un regalo, anche se non so se le merito davvero: sono stata molto fortunata nella mia storia professionale perché ho incontrato giovani bravissimi.

Come sono le famiglie di oggi?
Spesso nel mio lavoro mi sento dire che la scuola non è più quella di una volta. Che scoperta! Perché le famiglie sono quelle di una volta? Se, quando frequentavo il liceo, fossi tornata a casa a dire qualcosa di negativo a proposito degli insegnanti, i miei genitori non avrebbero mai appoggiato le mia rivendicazioni, oggi invece, purtroppo, questa è quasi una regola. Poi, certo, non bisogna generalizzare, né affezionarsi ai luoghi comuni, ma forse per il bene di tutti bisogna accettare che le famiglie, la scuola (che sono, peraltro, le istituzioni più conservative della società), ma anche i luoghi di lavoro, le persone cambino o siano cambiati, ma piuttosto che lamentarsi, bisognerebbe fare il possibile perché il cambiamento sia frutto di una diversa acquisizione di consapevolezza.

Sei professoressa in un liceo di Monza. Cosa non cambieresti mai del tuo lavoro?
Stare in classe, ovviamente! Insegno da quasi venticinque anni e ho ancora contatti con tanti miei ex studenti, che sono diventati a loro volta sposi, genitori, professori universitari, manager, artisti o semplicemente stanno cercando ancora di trovare la loro strada e non posso non essere contenta di averli incontrati e conosciuti. Ho imparato molto da loro.

Invece scommetto che cambieresti qualcosa del tuo stipendio..!
Come hai fatto a indovinare? La cosa che mi fa più rabbia, però, è la scarsa considerazione sociale, il fatto che si veda la figura dell’insegnante quasi fosse un parassita, un “mantenuto” dallo Stato. Non mi piacciono le difese di categoria e non vado dicendo che gli insegnanti sono tutti intellettuali (quasi a rivendicare una superiorità di casta): se siamo intellettuali lo siamo in quanto “artigiani sociali”, come tutti i veri intellettuali che non fanno corsa solitaria, ma impiegano il loro fare e il loro pensare per un utile comune.

Avere una rete sociale o familiare che ti salva da imprevisti e situazioni dolorose è importantissimi, ma anche avere un sostegno sociale, un sostrato di accettazione e comprensione è fondamentale. Tra dire e il fare c'è di mezzo il mare, però! Nella tua vita quotidiana, nella tua città, credi che sia possibile parlare di cose simili?
È una domanda difficile e scomoda. Mi piacerebbe risponderti che sì, è stato ed è possibile parlare e affrontare simili argomenti in famiglia e in città, nel privato e nel pubblico. Ma, onestamente, non è così. Si fa fatica, si fa una maledetta fatica a condividere i momenti di dolore, di lutto, ma soprattutto di “sottrazione” dell’immaginario positivo, che ci accompagna sempre. Si devono fare i conti con i pregiudizi, con la prevenzione, con l’incapacità delle persone di mettersi nei panni dell’altro. Hai mai fatto caso a quante volte la gente dice che solo se provi certe esperienze puoi capire? Ecco, io ho orrore di frasi simili. Che bisogno c’è di dire cose così crudeli? Non potremo mai vivere le esperienze degli altri, non ci basta la nostra vita? Forse dovremmo solo capire che la comprensione passa attraverso l’ascolto e l’ascolto è ciò che manca oggi.

Classica domanda per chi è al primo romanzo: hai già pronto qualcos'altro nel cassetto?
Ora sono soprattutto in una fase di ascolto e “raccolta”: quest’anno la scuola mi ha davvero prosciugato al punto che anche il mio blog sta languendo. A fine anno comunque dovrebbe uscire una piccola cosa dedicata a un amico scomparso e poi chissà...

 


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Stefania Brambilla è nata nel 1962 a Monza, dove oggi risiede e insegna lettere in un liceo scientifico. Dal 2007 cura il blog:
stebilla.blogspot.com

 

 

 

 

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