20160119 Angus Deaton

«Sembrava che l’economia con la sua freddezza avesse soppiantato la filosofia, la storia, la cultura, la sociologia, la demografia, e invece no... L’economia non deve essere mai una scienza fredda, deve essere prima di tutto attenta ai bisogni della gente»

 

Ormai da tempo molti cultori della scienza economica hanno cessato di trattarla come una “scienza pura”, specialistica, separata dalle altre discipline (salvo che dalla matematica, di cui era divenuta un’ancella). E’ in atto un ritorno alle origini: ed è il caso di ricordare che Adamo Smith, considerato tra i fondatori, era anche uno studioso di morale.
I selezionatori del Premio Nobel sono stati attenti a questa evoluzione. Fin da quando assegnarono il premio per l’economia al sociologo Herbert Simon, il teorico della “razionalità limitata”, nel lontano 1978, e più recentemente allo psicologo Daniel Kahneman, fondatore dell’economia comportamentale e studioso della teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza (2002). E ad economisti come l’indiano Amartya Sen (1998), che ha rivoluzionato gli studi sui rapporti tra economia, benessere e democrazia, e a Joseph E. Stiglitz (2001), e a Paul Krugman (2008), due riferimenti obbligati per la politica economica dei nostri tempi. Ed ora ad Angus Deaton (2015).
Quest’ultimo, in un intervista a la Repubblica in occasione della sua premiazione (la Repubblica, 13/10/2015), ha affermato: «Sembrava che l’economia con la sua freddezza avesse soppiantato la filosofia, la storia, la cultura, la sociologia, la demografia, e invece no... L’economia non deve essere mai una scienza fredda, deve essere prima di tutto attenta ai bisogni della gente».
L’ultimo libro di Deaton è intitolato La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza (il Mulino, 2015), Nella scelta del titolo e nello svolgimento delle sue tesi, Deaton ha ripreso quelli del film di John Sturges, - che nel 1963 racconta l’evasione di un gruppo di militari americani da un campo di prigionia tedesco della seconda guerra mondiale - come metafora dell’eterna fuga degli uomini dalla povertà e dalla morte precoce.
Ma, dice Deaton, il film esalta coloro che sono riusciti a conquistare la libertà. Non c’è un film su coloro che sono rimasti indietro, o che non sono riusciti a fuggire. E alla domanda su quale sia l’argomento del suo lavoro di studioso, risponde: «La misurazione della povertà nel mondo».
La povertà è il sottoprodotto tossico della disuguaglianza. Negli ultimi decenni, come dimostra Thpmas Piketty nel suo Il capitalismo nel XXI secolo, la disuguaglianza è aumentata e continua ad aumentare in modo cumulativo. Ma la povertà?
Nel rispondere, Deaton applica in pieno il vecchio ed aureo metodo gesuita del distingue frequenter, facendo un uso rigoroso, ma nello stesso tempo audace, degli strumenti statistici (non diversamente da Piketty), per valutare le disuguaglianze nel corso della storia, tra i diversi paesi del mondo e all’interno dei singoli paesi. Audace, perché i dati statistici del lontano passato e quelli di paesi arretrati o autoritari lasciano molto a desiderare.
Senza negare che lo sviluppo tende ad andare a vantaggio di alcuni e a danno di altri, Deaton fa notare che eventi recenti come i progressi di India e Cina, che contano insieme per circa il 40% della popolazione mondiale, hanno ridotto il numero di poveri in quei paesi e nel mondo.
Oggi coloro che vivono sotto il livello di povertà sono intorno a un miliardo. Un numero ingente, ma in continua diminuzione. Questo dato smentisce le previsioni del secolo scorso, secondo cui la miseria sarebbe aumentata in conseguenza dell’aumento, allora creduto esponenziale ma oggi in declino, della popolazione mondiale. Da questo punto di vista, Deaton assume una posizione drasticamente contraria alle politiche di controllo delle nascite del secolo scorso, e considera addirittura un crimine di stato la legge cinese, solo ora abolita, del vincolo di un solo figlio per famiglia.
Illuminante è la sua dichiarazione: «L’argomento dell’impoverimento non è una questione di aritmetica, ma di ciò che che i nuovi nati aggiungono, e non solo di ciò che costano. Forse la più semplice descrizione si ha dicendo che ogni bocca arriva con un paio di mani». E «non solo ogni nuova bocca arriva con un futuro lavoratore, ma con un cervello creativo».
Come combattere la povertà? A suo parere, di una cosa si può essere certi: che la politica degli aiuti dei paesi ricchi ai paesi poveri, dei trasferimenti di somme ingenti, secondo una visione che definisce idraulica, non solo non innesca lo sviluppo, ma addirittura lo ostacola. Non soltanto questi aiuti finiscono in gran parte nelle tasche di classi dirigenti locali autoritarie e corrotte. Per lo più rispondono non alle necessità delle popolazioni bisognose, ma agli interessi economici della industria degli aiuti dei paesi donatori, o ai loro scopi egemonici negli equilibri di potere mondiali. Infine, gli aiuti spesso si pongono in concorrenza con le produzioni e i servizi sociali locali, impedendo il loro sviluppo o addirittura distruggendoli.
Nei paesi dell’Africa sub-sahariana gli aiuti sono arrivati a superare il 75% della spesa pubblica, senza che questo li abbia risollevati dalla povertà. Molti paesi africani, su cui sono state riversate enormi quantità di aiuti in proporzione alla loro popolazione, non sono stati capaci di innescare una capacità autonoma di sviluppo e sono dominati da dittature oppressive e corrotte. Al contrario, paesi che non hanno ricevuto aiuti dall’esterno, come i Bric (Brasile, Russia, Cina, India) e molti del sud est asiatico, sono cresciuti per forza propria e, pur conservando o provocando grandi disuguaglianze (spesso difficilmente misurabili), hanno fatto uscire milioni di persone dalla povertà. Del resto, vi sono statistiche relative all’Africa sub-sahariana che dimostrano l’esistenza di una correlazione inversa tra crescita e aiuti: all’aumento di questi ultimi corrisponde una diminuzione della crescita, e viceversa.
Un giudizio migliore può essere dato sul contributo delle Organizzazioni non governative, che valgono circa il 25-30% dei trasferimenti dai paesi ricchi a quelli poveri. Ma anche il panorama di queste è molto vario quanto a trasparenza ed efficacia: «dopo tutto, anche loro operano nel fund-raising e fund-dispersing business», dice ironicamente Deaton. Inoltre, molte ONG operano sostanzialmente come agenzie di istituzioni pubbliche. Sono costrette a compromessi indecenti (traffico d’armi insieme ai beni di sussistenza e medicinali), distraggono le istituzioni locali dai loro compiti e ne deprimono l’efficienza.
Senz’altro i trasferimenti privati diretti, come le rimesse degli emigranti (che in altri tempi, è il caso di ricordare, costituivano una parte ingente e apparentemente insostituibile dell’attivo della bilancia dei pagamenti italiana) sono i più utili, e contano per circa il doppio degli aiuti ufficiali.
Questa drastica posizione di Deaton sugli aiuti è attenuata dalla sola frase secondo cui «i danni causati dagli aiuti vanno bilanciati con il bene che essi fanno, sia educando i bambini che altrimenti non sarebbero andati a scuola sia salvando la vita di persone che altrimenti sarebbero morte» . E in effetti, se è giusto il principio che conviene insegnare a pescare piuttosto che donare un pesce, a una persona denutrita e ignorante devi dare immediatamente i mezzi per sopravvivere, anche a rischio di sprechi e ruberie.
Che fare allora? L’unica via è quella di innescare lo sviluppo in tutti i suoi aspetti culturali e politici prima ancora che economici. Non si tratta certo di esportare la democrazia, ma di favorirne la nascita in loco, creando condizioni minime di sopravvivenza e diffondendo l’istruzione.
Ma Deaton osserva che «c’è ancora molto mistero sul perché alcuni paesi crescono rapidamente e altri lentamente. E d’altra parte non è neanche vero che ci siano paesi permanentemente in crescita veloce o lenta». «Nel 1960, la Corea era tre volte più ricca del Ghana. Nel 1995 era diventata 19 volte più ricca. Nel 1960 il reddito pro capite dell’India era solo il 40% di quello del Kenia. nel 1995 era diventato il 40% superiore a quello del Kenia». I tentativi di molti economisti e istituzioni internazionali di capire le cause dello sviluppo o della sua mancanza «sono molto simili a quelli di coloro che cercano di comprendere le caratteristiche comuni di giocatori alla roulette che scommettono sullo zero un attimo prima che esso esca».
E’ possibile che i paesi di maggiori dimensioni abbiano conosciuto un progresso maggiore perché hanno potuto selezionare, tra il gran numero di abitanti, «corpi diplomatici, burocrazie competenti, leader preparati, università di standard globale, più dei paesi minori». E «solo recentemente il pensiero economico prevalente sullo sviluppo si è focalizzato sull’importanza delle istituzioni, incluse le istituzioni politiche, e della stessa politica«.
Deaton non propone soluzioni facili. Afferma comunque che «sia la teoria che l’esperienza suggeriscono che la crescita economica è la più sicura e duratura soluzione per la povertà”».
D’altra parte, non si può dimenticare che funzione basilare delle istituzioni, a tutti i livelli e quindi anche a quello globale, è quella della redistribuzione, della lotta alle disuguaglianze, basata per lo più sullo strumento fiscale. Come ha proposto Piketty con l’imposta sui capitali, in aggiunta alla progressività delle imposte, e a suo tempo Tobin con quella sulle transazioni finanziarie speculative a livello mondiale.
Deaton conclude confermando l’imprevedibilità delle sorti dell’umanità, ma anche con considerazioni orientate all’ottimismo.
Se da una parte non possiamo essere mai sicuri su cosa il futuro ci riserva (si pensi solo che l’epidemia di AIDS, venuta dal nulla nel 1980, ha causato 35 milioni di morti, quanto una guerra mondiale!) ), dall’altra è probabile che le statistiche sottovalutino la crescita del benessere dei popoli, perché si basano prevalentemente su stime dei beni finanziari e materiali e non considerano adeguatamente i servizi e le risorse immateriali. In particolare, la rivoluzione informatica e i suoi strumenti stanno contribuendo al benessere dei popoli più di quanto possiamo misurare. Come Piketty, Deaton attribuisce una grande importanza ai progressi nel campo delle elaborazioni statistiche su base mondiale e della loro confrontabilità per poter condurre la lotta contro la disuguaglianza e la povertà.
E conclude: «L’educazione è in crescita in tutto il mondo: quattro quinti della popolazione mondiale è oggi istruita, contro soltanto la metà nel 1951”. Ed «esistono infinite possibilità per l’Africa, alcune delle quali sono già in atto grazie a una migliorata gestione economica capace di evitare gli auto-provocati disastri del passato. E se l’Ovest sarà capace di curare la sua dipendenza dalla droga degli aiuti, e cessare di minare la politica dei paesi africani, ci sono reali speranze per uno sviluppo guidato dall’interno. Dobbiamo smettere di strangolare i liberi talenti degli africani».

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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