2018 migranti

Il convegno di settembre “Il secolo dei Rifugiati Ambientali?”, un’intensa giornata organizzata da Barbara Spinelli e dal gruppo GUE/NGL del Parlamento Europeo. Chi sono i migranti, quanti sono, da dove scappano, che trattamento ricevono nei paesi in cui si rifugiano. E poi, perché scappano?

“Il secolo dei Rifugiati Ambientali?”

Siamo stretti tra notizie continue di sbarchi di profughi sulle nostre coste, e dell’ostilità per stranieri e immigrati che si diffonde in Europa e in Italia (vedi i recenti fatti di Goro e Gorino). Ostilità che deriva dall’opinione che tra le cause della crisi che affligge il nostro stile di vita ci siano anche loro, gli stranieri che cercano di affluire a casa nostra; non potrebbero restare a casa loro? I media non fanno abbastanza per chiarire quanto i migranti non siano affatto una causa della crisi.

E proprio per chiarire idee di base su rifugiati e migranti, si è svolto a Milano alla fine di settembre il convegno “Il secolo dei Rifugiati Ambientali?”, un’intensa giornata organizzata da Barbara Spinelli e dal gruppo GUE/NGL del Parlamento Europeo (qui il video integrale ). Chi sono i migranti, quanti sono, da dove scappano, che trattamento ricevono nei paesi in cui si rifugiano. E poi, perché scappano? Andiamo con ordine.

Si è cercato di chiarire i termini “sfollati” e “rifugiati”: gli sfollati sono persone costrette a lasciare la propria abitazione; la maggior parte di loro, più del 90%, rimane nel paese di origine, accatastata in periferie urbane o campi profughi (“sfollati interni”) e solo una minima parte emigra all’estero, dove chiedono protezione nei paesi che li accolgono, e quando la richiesta viene accolta diventano “rifugiati”. Per le leggi ed i trattati internazionali, ha diritto ad essere riconosciuto come rifugiato solo chi emigra in seguito a persecuzione per motivi religiosi, razziali, per appartenenza ad un determinato gruppo sociale, o per opinioni politiche. Chi emigra per motivi ambientali non è riconosciuto come rifugiato, ed è solo un “migrante” (oggi detti anche “migranti economici”).

Ma chi sono i rifugiati ambientali?

Sono persone che non possono più garantirsi i mezzi di sussistenza nelle terre di origine per “perdita di habitat”, cioè a causa di siccità, erosione del suolo, desertificazione, inquinamento, salinizzazione delle terre irrigate, perdita della biodiversità, innalzamento del livello del mare, o per calamità naturali come tsunami, inondazioni, terremoti, cicloni, erosione delle coste, incendi… Una parte di questi fenomeni, quelli legati al cambiamento del clima, è conseguenza di attività umane, anche se è difficile stabilire quanto ed in che misura: è noto che la frequenza dei fenomeni climatici estremi è aumentata a causa del riscaldamento globale. E l’uomo ha responsabilità del riscaldamento, per via della combustione di petrolio e derivati (che avviene soprattutto nei paesi sviluppati) e aumento dei gas serra.

Sono rifugiati ambientali anche quelli che scappano da conflitti per l’accaparramento di risorse (idriche, energetiche…) nati da crisi degli ecosistemi locali fondati sull’economia di sussistenza. Secondo un report dell’Istituto tedesco Adelphi, sostenuto dal Ministero degli Esteri tedesco, ben 111 conflitti iniziati dal secondo dopoguerra a oggi sono da imputarsi a cause ambientali; 79 tra questi sono ancora in corso, con 19 di essi a massima intensità (guerre).

Le crisi degli ecosistemi locali

possono essere dovute sia a cause naturali (vedi sopra) che ad attività umane. Per esempio, è in costante crescita il fenomeno del land grabbing, l’appropriazione di grandi appezzamenti di terre coltivabili da parte di grandi aziende o governi stranieri, che sottrae terre coltivabili ai contadini locali e contribuisce a farne degli sfollati (documentato da Landmatrix; altre notizie qui).

L’espulsione dei contadini dalle loro terre d’origine è spinta anche dalla diminuita competitività dei prodotti dell’agricoltura tradizionale rispetto a quelli con cui la grande distribuzione inonda i mercati locali. La distruzione del commercio locale è favorita dalla rimozione di dazi doganali alle merci in entrata, che i negoziatori internazionali sono riusciti a imporre negli anni in nome del libero commercio con una serie di trattati. Illuminante a questo proposito l’intervento di Vittorio Agnoletto, che ha illustrato le conseguenze dei trattati di libero commercio EPA (Economic Partnership Agreements, 2002 – 2014) sulle economie dei paesi africani: sono perdite di decine di milioni di dollari per paesi come il Burundi ed il Niger.

Ed infine, milioni di persone hanno subìto e subiscono spostamenti forzati per grandi progetti di sviluppo (p.es. costruzione di grandi dighe, in Cina, India, in Etiopia), da cui esse non ottengono benefici, ma anzi la perdita del proprio habitat, con poca o nessuna compensazione. Finiscono spesso nelle periferie povere delle grandi città in condizioni misere, come raccontato da Francesca Casella e Marica Di Pierri.

“Grandi numeri”: oggi e per il futuro

Vediamo insomma che i comportamenti umani hanno un ruolo rilevante nella creazione di nuovi sfollati “ambientali”, che si affianca a quello dei veri e propri disastri ambientali. Quanto è grave il problema degli sfollati ambientali? Guardando ai numeri, nel 2015 ci sono stati 27,8 milioni di nuovi sfollati interni (dati dell’Internal Displacement Monitoring Center), di cui solo meno di un terzo dovuti a guerre e conflitti di varia natura, e ben 19,2 milioni dovuti a cause ambientali (disastri e cambiamento climatico). A questi si aggiungono gli sfollati a causa degli spostamenti per progetti di sviluppo, stimati in milioni ogni anno (fino a 15 milioni/anno nel periodo 2000-2015, secondo dati della Banca Mondiale). Per il futuro, stime dell’UNHCR prevedono per il 2050 la presenza di 200 - 250 milioni di “profughi ambientali”.

“Gli infermieri del disastro”

Insomma, i motivi per cui si fugge sono svariati, e quelli legati a cause ambientali sono i più ricorrenti, ben più di guerre o conflitti etnici o religiosi. A fronte di situazioni drammatiche, l’accoglienza in Europa, viene gestita adesso con la prassi degli hot spot, in cui l’obiettivo è espellere tutte le persone definite “migranti economici”, cioè la maggior parte dei migranti (descrizioni e dettagli negli interventi di Fulvio Vassallo ed Eddy Schlein). Come si è messo bene in evidenza nel convegno, la distinzione tra migranti economici da un lato e rifugiati per violenze e persecuzioni dall’altro non è facile, e pretendere di usarla per erigere muri dimostra ignoranza dei motivi che portano le persone ad abbandonare le loro terre d’origine; sarebbe molto meglio rivolgere le energie nel cercare di ostacolare i processi che continuamente creano nuovi profughi, almeno quelli sotto diretta responsabilità umana, e ce ne sono. Altrimenti, per dirla con Barbara Spinelli, si rischia di fare solo gli infermieri del disastro. Da citare anche l’interessante intervento del diplomatico e studioso italiano Grammenos Mastroieni, che ha mostrato come interventi di riqualificazione del terreno desertificato nel Sahel siano poco costosi (120 dollari per un ettaro) ed utilissimi, specie se i terreni vengono consegnati alla piccola agricoltura familiare, per il loro impatto sugli ecosistemi locali e sull’inversione delle spinte alla migrazione.

Alcuni commenti sul convegno:
Barbara Spinelli 
internazionale.it

I filmati di alcuni degli interventi:
Vittorio Agnoletto (Medico, ex-Europarlamentare del gruppo GUE/NGL, Attivista del Forum Sociale Mondiale)
Francesca Casella (Direttrice italiana Survival International)
Marica Di Pierri (Attivista e Pubblicista, Centro Documentazione Conflitti Ambientali)
Fulvio Vassallo Paleologo (Avvocato e Docente di Diritto, Università di Palermo)
Eddy Schlein (Europarlamentare, membro del gruppo S&D)
Grammenos Mastroieni (Diplomatico, Coordinatore per l’eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo):

In apertura dettaglio da una foto di Vito Manzari