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La manifestazione di sabato 10 gennaio 2015 a Milano all'indomani dei fatti di Parigi. Le testimonianze contro il terrorismo dei rappresentanti delle comunità musulmane e dei giornalisti italiani

 

L’11 settembre 2001 avevo dodici anni e credevo che le uniche torri gemelle esistenti fossero quelle di Mirabilandia. Trascorsi quella giornata a casa della mia amica Alice a giocare come si faceva allora. Non conoscevo il significato della parola terrorismo e non capivo il perché qualcuno potesse avercela con l’Occidente, che allora mi sembrava l’unica parte di mondo in cui valesse la pena vivere.

L’altro giorno, mercoledì 7 gennaio, dal mio profilo Twitter ho letto la notizia della sparatoria a Charlie Hebdo mentre preparavo il pranzo. Da quel momento è stato un susseguirsi di notizie e tweet da tutto il mondo che mi aggiornavano in tempo reale su quanto stava accadendo. Sono stati giorni di enorme tristezza e dilagante senso di impotenza rispetto a dinamiche troppo al di sopra delle nostre volontà.

Oggi, per la prima volta da allora, ho assistito al diffondersi di una positività condivisa in grado di contaminare un’aria ancora troppo dipinta di nero. Piazza Duomo era, come ogni sabato, piuttosto affollata: molti scattavano foto ricordo della loro giornata da turisti, alcuni passeggiavano rilassati dopo una giornata di shopping o visite culturali, e poi c’eravamo noi, l’esercito della pace, riunito per gridare con un’unica voce “no” alla violenza. Diverse erano le bandiere che sventolavano, unanime era l’intento di condannare con le parole i fatti di Charlie Hebdo. Le uniche armi impugnate sono state le matite, simbolo della solidarietà nei confronti della rivista che tanto abbiamo visto sulle copertine dei giornali o sulle nostre bacheche Facebook in questi giorni. E poi tante parole, l’arma che spaventa i terroristi molto più delle armi (vorrei ricordare il blogger saudita Raif Badawi frustato poche ore fa per aver esercitato la sua libertà d’espressione).

Sul palco si sono alternati giornalisti, attivisti, artisti, mentre assente era il sindaco Giuliano Pisapia, in partenza per la manifestazione di Parigi di domani.

 

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Foto di Sabrina Chitti

 

Molteplici le voci dal mondo musulmano: Abdel Hamadi Shaari, fondatore dell’istituto culturale islamico di viale Jenner, che ha parlato da “milanese di vecchia data” ricordando di essere dalla nostra parte e non dall’altra; Marian Ismail, leader della comunità somala in Italia che, da musulmana e milanese,  a gran voce ha comunicato a Salvini che “non vogliamo sgozzare nessuno, da anni anche noi abbiamo le teste sgozzate dai fondamentalisti”; Mahmoud Asfa, della Casa della Cultura Islamica di Viale Padova, che ha condannato l’attentato a CH; Sumaya Abdel  Kader, giovane scrittrice figlia di immigrati giordano palestinesi, che ha affermato che “chi non sente lo sdegno della comunità musulmana è cieco e sordo”. E poi il presidente dell’Associazione dei Palestinesi, secondo cui nessuno deve avere paura della pace e Davide Piccardo, presidente del CAIM, l’Unione delle Comunità Musulmane di Milano che, salutando con A Salam U Alaikum (“La pace sia con voi”) ha riferito che “questa non è la nostra guerra, ma quella di chi ci divide”.

Numerosi anche gli interventi degli attivisti: Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete per il Disarmo che, citando Martin Luther King e Gandhi, ha invitato a lavorare verso la pace e non verso la guerra; Massimo Cirri di Radio Popolare ha letto il testo scritto dal direttore di CH Stephane Charbonnier che invocava il diritto estremo di ridere di qualsiasi cosa; Paolo Petracca, presidente delle Acli provinciali milanesi, ha invitato alla globalizzazione della solidarietà citando le parole di Papa Bergoglio; Roberto Cenati, presidente dell’ANPI provinciale di Milano, ha ribadito la distinzione fra musulmani e terroristi e criticato le recenti affermazioni di Matteo Salvini. E ancora Michel Koffi dell’Associazione Città Mondo, secondo cui dire “Je Suis Charlie” significa riaffermare la libertà; Alessandro Robecchi, giornalista del Fatto Quotidiano e del Manifesto, che ha parlato  del diritto a vivere in un mondo di differenze e ha sostenuto che il saper ridere è una forma di resistenza umana; Graziano Gorla, segretario generale della Camera del Lavoro, che ha insistito su valori come la pace e la tolleranza; Paolo Pobbiati, ex presidente di Amnesty International, che ha fatto appello alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e, citando l’articolo 28, ha ribadito che tutti possono godere dei diritti umani perché universali; Gad Lerner, che ha salutato i fratelli curdi elogiandoli per la loro resistenza al nemico oscurantista. Significativo anche il discorso di Cecilia Strada, figlia dei fondatori di Emergency Gino Strada e Teresa Sarti, secondo cui l’incubo non è iniziato mercoledì e non è finito ieri e ora più che mai è necessario porsi delle domande: “Chiediamoci da dove vengono le armi e chi ci guadagna. Non c’è un noi e un voi, c’è un solo noi.” Infine, a concludere il ciclo di interventi è stato il rapper Frankie Hi R N G che, sulle rime del suo rap, ha invitato a “prendersi un istante di riflessione”.

A quel punto il corteo si è mosso e i combattenti per la pace hanno sollevato le loro scritte “Je suis Charlie” per le strade della città. Sono convinta di non essere la sola a cui l’umanità di questa giornata ha fatto dimenticare, per un attimo, la brutalità dei giorni scorsi. Ma adesso è il momento di guardare al futuro e potenziare l’arma del dialogo, per, come ha detto Cecilia Strada, “Stare insieme [Il nome della manifestazione, ndr] oggi ma soprattutto da domani.”

 

Foto di Nadine Recenti