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Muto era invece il camaleonte  che appariva sul davanzale della finestra e mi fissava con occhi da coccio di bottiglia.

Soprattutto d’inverno scrivo il mio diario, quando a metà giornata è buio, la lampadina si è fulminata e il soccorso della candela fa ondeggiare le ombre come spiriti animati. Scrivo dei miei genitori, specialmente di mio padre che nel freddo notturno della casa spenta cercava sulla calce dei muri i segni dei minuscoli insetti che abitavano con noi: misteriose calligrafie che mio padre credeva di poter decifrare e trascrivere sul quaderno dove ricopiava la Bibbia. Ricopiava con devozione ma con qualche aggiustamento: il mar Rosso inghiotte il Faraone ma la sabbia è quella della costa di mare percorsa dal treno che viaggiava una intera notte prima di sbucare nell’alba degli ulivi fragranti e delle onde ventose. Avevamo in affitto una cucina gremita da ciuffi d’erbe da cuocere dove non c’era un angolo per depositare le nostre cose perché tutto era presidiato da rosmarini, basilichi, agli, cipolle, zucche e sacchi di patate già fiorite di germogli come capelli al vento di ragazze in bicicletta.

Peggio la stanza dove dormivamo con armadio da sacrestia alto fino al soffitto, zeppo di sacchi per la raccolta di noci e castagne, canterano dubbioso da aprire per non disturbare la covata di ghiri che bisbigliava di notte e, se non erano ghiri, erano volpi. Muto era invece il camaleonte  che appariva sul davanzale della finestra e mi fissava con occhi da coccio di bottiglia. Il lucertolone si faceva vivo verso la fine della notte ed era il segnale per mio padre che  si levava dal mucchio di coperte in cui era avvoltolato con mia madre e leggero come un’ombra si aggirava per la stanza raccogliendo i suoi abiti dentro i quali s’intrufolava come un beduino in partenza per il deserto. A me non dava cenni, io ero libero di seguirlo o di restare nella mia cuccia di foglie di granoturco. Lo seguivo. Di buon passo andavamo su per la collina, con lo scalpiccio che segnava nella polvere il nostro passaggio di angeli frettolosi verso il Cielo. Io stavo alle calcagna di mio padre non perdendo un palmo dal suo andare, sebben lui fosse lesto e mai rallentasse neppure per la più ardua salita. Mi piaceva quel mondo prima dell’alba, madido di guazza e fresco di fuggevoli ombre che svanivano man mano che si andava verso il convegno del sorgere del sole. Su, su finché il sentiero si faceva dolcemente piano e si slargava nell’aia erbosa davanti alla chiesa dei Cappuccini. Io e mio padre stavamo a capo chino davanti al monumento di dorate pietre, voltando le spalle alla discesa in fondo alla quale c’era il mare. Aspettavamo nel silenzio solenne dentro il quale cominciava a muoversi qualche pigra cavalletta sulla facciata della basilica e intravedersi qualche pigolio di uccelli sull’orlo di nidi incollati sotto i cornicioni. Le ombre rapidamente si accorciavano e la luce diventava una spada sguainata. D’improvviso ci voltavamo.

Con gli occhi spalancati eravamo davanti al sole che sorgeva dal mare. L’acqua era luce e la luce frantumi di specchi. Laggiù potevamo vedere dove finisce il mondo con la sua immane curvatura. Nel fulgore dell’orizzonte appariva la chiatta giornaliera che attraversava il golfo. Il naviglio sembrava fermo tanto era impercettibile il suo procedere come accadde, molti anni più tardi, al muoversi del treno che lentamente lasciava la stazione diretto a… non so più dove fosse diretto, sommessamente la donna che se ne andava aveva nominato una città dove parlavano un’altra lingua. Anche allora era estate, anche allora il treno si scioglieva nella luce e il ritmico battere delle sue ruote era il colloquio dove io ascoltavo la donna che mi lasciava e la donna che mi lasciava, con le lacrime agli occhi, si scusava per la sua partenza. Quando il treno scomparve nella rete dei binari e dei semafori agitai la mano per salutare. Come faccio ogni sera prima di coricarmi: levo la mano e saluto l’aria, richiamo i fantasmi della mia vita affinché vengano a stringersi intorno a me prima del buio della notte. Con sollecitudine appare mia madre, giovane, così giovane come era nella mia infanzia. Mia madre col vestito a fiori dell’estate, col nastro tra i capelli, col sorriso che per pudore fatica ad accendersi. Ella muove le labbra, parla ma io non sento nulla, le sue parole sono gusci vuoti di suono. Infine ella tace mentre lo sconforto dilaga sul suo volto come la luce grigia dell’inverno. Al suo fianco sorge mio padre, anche lui giovane come nella foto di famiglia che ancora conservo: mia madre seduta, io in braccio a lei, mio padre in piedi accanto a noi mentre posa la mano sulla spalla della sua donna.

Nella foto nessuno di noi guarda l’obiettivo fotografico, di sfuggita guardiamo di lato dove c’è la porta. Siamo sospesi a una attesa che ci tiene in ansia: da quella porta aspettavamo l’apparire del mio piccolo fratellino, scomparso quando non aveva ancora tre anni. I miei genitori si erano ripromessi di andare a cercalo, di non lasciarlo solo nell’aldilà. Io mi era accodato alla loro speranza e ogni domenica andavamo al cimitero per stare con lui davanti alla sua tomba. Mia madre pregava sommessamente, mio padre stava a capo chino, le mani abbandonate lungo i fianchi, io gironzolavo tra le tombe attirato dai fiori che facevano di quel silente luogo un giardino di perle orientali. Mio fratello non è mai ritornato. In cerca di lui hanno passato il confine prima mia madre, poi mio padre. Mi hanno lasciato solo, senza un biglietto, una parola, un cenno. La mia giornata è come nebbia dove appaiono incerte figurazioni di case, di monumenti  nelle piazze, di ossessivi semafori, di alberi nella strada dove abito. Mi sveglio presto al mattino e vado a far colazione nel bar sotto casa mia.  Bevo il caffè mentre do un’occhiata ai vecchi giornali abbandonati sui tavoli. Che notizie vi sono? Annibale ha passato le Alpi, Napoleone è stato sconfitto a Waterloo, Einstein ha scritto sulla lavagna una formula matematica. A mezzogiorno non pranzo. Cammino per il parco del mio quartiere, mentre a memoria ripasso la lezione che terrò nel pomeriggio. Insegno in una scuola di giovani. Ragazze dagli occhi di bambola, ragazzi che sbadigliano. Parlo di Shakespeare, di Cervantes, racconto di loro come di persone che ho conosciuto ma che poi se ne sono andate. Dove? In città dove parlano lingue che non conosco.

Quando comincia l’estate e le scuole chiudono sono sul punto di partire per tornare a quella casa, in vista del mare, al tempo della mia infanzia. Poi scuoto la testa e decido di non farne niente. Resto nella mia abitazione a guardare le pareti, come mio padre, in cerca di antiche scritture tra le screpolature della calce e le macchie della tappezzeria.

 

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Gli autori di Vorrei
Adamo Calabrese
Adamo Calabrese

Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore. Ha pubblicato con Einaudi il romanzo "Il libro del re", con Albatros i libri di racconti "L'anniversario della neve", "La cenere dei fulmini", "Il passaggio dell'inverno", con Joker "Paese remoto". Ha illustrato i propri libri ed edizioni di Dante, Gibran e Pascutto. Scrive e disegna per il quotidiano "Il cittadinio" di Lodi, per le riviste "Vorrei" di Monza e "Odissea" di Milano. I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e Iacopone. Nel 2012 RAITREha trasmesso un suo testo. Nel 2014 è stato finalista del premio internazionale di grafica satirica "Novello". Insegna letteratura presso le Università della terza età di Sesto san Giovanni e Milano (Università Cardinale Colombo)

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