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Mio padre aveva usato quella cravatta una sola volta per la cerimonia di conferimento del premio di poesia assegnatoli da un giornalino letterario. “Vuol sapere qualcosa delle sue poesie?”

Musica! Dire musica è come dire aria, l’aria può essere nebbia e può essere vento. Ma senza aria non si vive. Perciò io vivo con disagio, perché della musica non so niente se non quel poco che ho sentito cantare da mia madre quando, da bambino, mi sedevo ai suoi piedi e lei cuciva, cuciva e cantava e io credevo di volare tanto la sua voce mi faceva sognare.

Un altro mio incontro con la musica è accaduto quella volta che ho udito un carillon in un negozio di giocattoli. Mi sono fermato ad ascoltare ammirando la piccola giostra dei cavallini di legno. Ho comperato il carillon e, a casa, l’ho riposto nella stanza dove dormo, nell’armadio dei vestiti, sull’ultimo ripiano destinato ai cappelli e ai guanti.

L’ho dimenticato là finché, una notte d’inverno, inspiegabilmente, il carillon si è messo a suonare. Mi sono seduto sul letto tendendo l’orecchio a quel flebile suono. Non avevo dubbi, era la voce di mia madre. Ero strabiliato! Mia madre mi chiedeva di ricongiungerla a mio padre. Voleva accanto a sé, accanto alle proprie ceneri, quelle di suo marito. Difficile impresa perché mio padre è sepolto nel suo lontanissimo paese natale, mentre mia madre giace poco lontano dalla città dove abito, nel villaggio della sua famiglia.

Perché tanta distanza? Non ho una risposta se non il ricordo di mio padre quando s’incantava davanti alla finestra aperta a guardare lontano e stava là trasognato anche se pioveva o tirava vento, anche se d’inverno diventava un pezzo di ghiaccio che scricchiolava al primo passo che muoveva.

In ogni modo avevo scritto al Podestà del paese di mio padre dandogli tutte le indicazioni per rintracciare le sue ceneri. Mio padre era morto vecchio, molto vecchio, rinsecchito come una scorza che sarebbe volata via al primo buffo di vento. Il Podestà mi aveva risposto chiedendomi di precisare l’età di mio padre. Non ne avevo idea. Avevo scritto al Podestà come, da ultimo, mio padre camminando strisciasse i piedi e, di sera, durante la cerimonia di togliersi gli abiti e indossare il pigiama si fermasse a lungo bisbigliando nella penombra della stanza come se parlasse a un segreto ascoltatore. “Con che vestito è stato sepolto?” Aveva chiesto il Podestà. “ Con l’abito che portava sempre: la giacca di lana, i pantaloni di fustagno diventati troppo lunghi, tanto lui si era rimpicciolito. “Le scarpe?” “Le scarpe che usava tutto l’anno, estate e inverno.” “In buono stato?” “Non proprio: qualche buco nelle suole che lui stesso riparava incollando ritagli di cuoio.” “Cravatta?” La cravatta che mia madre gli aveva arrangiato da una propria gonna dismessa, una seta stampata a fiori gialli su fondo azzurro.

Mio padre aveva usato quella cravatta una sola volta per la cerimonia di conferimento del premio di poesia assegnatoli da un giornalino letterario. “Vuol sapere qualcosa delle sue poesie?” “No, no! Per la ricerca dei defunti le poesie non sono di nessuna utilità.” “Come…?” avevo replicato: “Io e mia madre le sapevamo a memoria. Lui ci leggeva le sue poesie e noi le ripetevamo finché riuscivamo a dirle ad occhi chiusi.” Comunque avevo spedito al Podestà il quaderno con le poesie di mio padre, ma lui me le aveva restituite con la scritta: “No, no! Le poesie non hanno niente a che fare con la morte. Caso mai mettono fuori strada.” “Non vuole neppure sapere dei libri che leggeva mia padre?” “Per carità!”

Finalmente ricevetti una busta con le ceneri. Ma non erano le ceneri di mio padre. Subito mia madre mi apparve in sogno, scuotendo la testa e giungendo le mani: “Non sono le ceneri di tuo padre.” “Di chi sono?” “Sono le ceneri di un portalettere.” Ero allibito, non sapevo che fare. Mia madre era sparita dai miei sogni lasciandomi in balia di una folla di persone a me ignote. Mi svegliavo spaventato con la stessa ansia che mi prendeva quando, per i miei viaggi di lavoro, capitavo all’estero dove parlavano una lingua che non conoscevo. Mi dicevano: “Stimmen, Stimmen. Hore , mein Herz…” Io rispondevo in latino: “Par levibus ventis volucrique simillima somno…” Mi sentivo istupidito e i miei affari andavano a monte.

Infine mi decisi, presi la corriera e andai da mia madre con le ceneri che avevo ricevuto. Nel cimitero del villaggio la sepoltura di mia madre è circondata dall’affetto delle tombe dei suoi congiunti: genitori, nonni, bisnonni e una tribù di parenti collaterali. Quel luogo non sembra un cimitero ma il ritrovo per uno sposalizio tanto sono gli ammiccamenti tra le foto dei defunti: le foto si sorridono e se potessero si farebbero tanti complimenti: “Come stai?” “Io bene e tu?” “Anch’io bene.” “Non sembri neppure morto.” “Anche tu non sembri morto.” “Come ti sembro?” “Come quando andavamo a scuola.” “Sì, sì, come quando andavamo a scuola.”

La tomba di mia madre è in alto, nella colombaia. Riuscivo a malapena a vedere la fotografia sulla piccola lapide. Sollevai la busta con le ceneri. Mia madre mi fece cenno di avvicinarmi. Allora salii sulla scala a disposizione dei visitatori e mi trovai proprio di fronte al suo loculo. La sua fotografia spalancò gli occhi: “Non sono le ceneri di tuo padre, sono le ceneri del portalettere.” Che potevo fare? Rovesciai la busta e sparsi all’aria quelle ceneri.

Con un peso sul cuore, quella notte fui ospite di mia cugina Angela che mi sistemò a dormire nel granaio. Non riuscivo a prender sonno, il luogo brulicava di insetti che rosicchiavano il frumento. Stavo con gli occhi chiusi e a bassissima voce dicevo le poesie di mio padre, finchè gli insetti, adagio adagio si acquietarono.

Nel silenzio dell’alba sopravvenente scrissi questo biglietto: “ Quando morirò non voglio essere incenerito: le ceneri sono tutte eguali, quelle dei poeti tali e quali a quelle dei farmacisti. Io voglio essere fulminato. Al primo temporale voglio essere messo sotto un albero aspettando la saetta che mi trasformi in aureola di luce. E se qualcuno mi vuole commemorare ascolti un carillon.

Annotazione

Le parole in tedesco sono quelle di una poesia di Rilke che così traduco: Bisbigli, bisbigli: Ascolta mio cuore…” Le parole in latino sono i versi del secondo libro dell’Eneide quando Enea, in fuga da Troia incendiata, crede di abbracciare la moglie Creusa: ma Creusa è un fantasma.

 

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Gli autori di Vorrei
Adamo Calabrese
Adamo Calabrese

Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore. Ha pubblicato con Einaudi il romanzo "Il libro del re", con Albatros i libri di racconti "L'anniversario della neve", "La cenere dei fulmini", "Il passaggio dell'inverno", con Joker "Paese remoto". Ha illustrato i propri libri ed edizioni di Dante, Gibran e Pascutto. Scrive e disegna per il quotidiano "Il cittadinio" di Lodi, per le riviste "Vorrei" di Monza e "Odissea" di Milano. I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e Iacopone. Nel 2012 RAITREha trasmesso un suo testo. Nel 2014 è stato finalista del premio internazionale di grafica satirica "Novello". Insegna letteratura presso le Università della terza età di Sesto san Giovanni e Milano (Università Cardinale Colombo)

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