«Non c’è nulla di romantico nella mia fotografia» Si definisce uno sradicato, lui che ha lasciato Corato per andare a studiare a Firenze e che poi è rimasto altrove, a Limido Comasco per l’esattezza
«Non c’è nulla di romantico nella mia fotografia» Ci tiene subito a precisarlo Luciano, classe ’49, pugliese ma lombardo d’adozione. Ha fotografato la Murgia per diverse estati e diversi inverni dei suoi 67 anni, rappresentando lo status quo di un territorio, senza gerarchie tra i suoi elementi: le masserie, le pecore, l’uomo, dialogano tra loro scambiandosi fiato con uguale dignità.
Nei paesaggi i primi e i secondi piani si sovrappongono leggeri, fino a confondersi come diapositive accavallate.
I cieli nuvolosi, preludio di temporali imminenti o appena scampati, riescono ad accaparrarsi un posto privilegiato, essendo già al di sopra di tutto, per ovvio ordine di cose.
Si definisce uno sradicato, lui che ha lasciato Corato per andare a studiare a Firenze, al Magistero dell’Arte, e che poi è rimasto altrove, a Limido Comasco per l’esattezza, per insegnare educazione artistica in una scuola media. Gli chiedo se gli è mancato avere a che fare con i liceali. Mi risponde che se si ha qualcosa di importante da dire a qualcuno, tanto vale farlo subito. Mi sembra un’ottima filosofia.
Vive lontano da quei paesaggi incorniciati alle pareti del Centro Studi Torre di Nebbia, le pareti dove l’ho incontrato per la prima volta, dove si conserva la rappresentazione di un piccolo mondo antico, una sequenza di immagini di una vita anni ’80 o forse ‘90. Erano forse i primi scatti, risultato di questa relazione fatta di diffidenze e confidenze con l’apparecchio fotografico. Luciano aveva quasi trent’anni quando ha lavorato ai suoi primi reportage.
La Puglia, a lungo documentata negli anni, la terra che appare come un’estensione dell’Appennino senza però appartenergli, è il posto dove Luciano torna sempre, quasi a confermare un legame geografico più che nostalgico. Torna a fotografarne il cielo, a ripercorrerne i tratturi, a ritracciare percorsi nei campi di grano già battuti anni prima, torna ai pastori e alle masserie.
Torna a fotografarne il cielo, a ripercorrerne i tratturi, a ritracciare percorsi nei campi di grano già battuti anni prima, torna ai pastori e alle masserie.
Mi rendo conto di quanto questo lavoro obblighi a prestare attenzione ai cambiamenti, e di quanta sapiente pazienza ci sia in questi scatti. È un corteggiamento nei confronti di una terra che si concede dopo ore di conversazione.
Luciano mi racconta di aver visitato quasi duecentocinquanta masserie. Mi racconta degli abitanti di quei luoghi, gente che vive nell’isolamento totale e che si aspetta che un estraneo possa consolare quella solitudine.
«Quando arrivavo nelle masserie per fare le foto, dovevo parlare con la gente, ascoltare le loro lamentele per ore!» — mi dice sillabando le parole, quasi a sottolineare l’importanza di una prassi che fa parte del gioco.
Non vi è nulla di romantico nelle sue foto, è vero. La Murgia stessa non lo è, desolata e ostile con le sue voragini, le sue fratture, le sue doline. Ma si percepisce a tratti qualcosa di sacro: esiste una speciale solennità in gesti semplici che in questo posto si compiono, come la mietitura o la tosatura della pecora.
L’acqua e la luce, scolpiscono il territorio in maniera diversa, eppure sempre uguale, da sempre.
La prima, lentamente, da secoli si adopra nella paziente opera scalfendo la roccia e modellandola tra gravi e fratture. Ci sono volute ere di piogge per dilavare le sue rocce calcaree fino a forgiarne quello che vediamo oggi.
La seconda, strana e intensa, indaga i profili delle cose e colora la roccia cariata che affiora tra ferule e cardi spinosi.
In un territorio che non presenta molti rilievi, Luciano si serve della luce radente delle prime ore del mattino o del tardo pomeriggio, che ridisegna le piccole alture, creando il gioco dei contrasti.
Non sono mai banali i luoghi, sempre mutevoli, svelano orizzonti ondulati sempre nuovi che si perdono ai confini col cielo, degradandosi in lontananza e sorprendendo anche gli autoctoni, ignari di alcuni angoli di Murgia. Anche Luciano mi confessa di non essere riuscito a sondarla tutta questa terra.
Raccontata così, la Murgia sembrerebbe solo un paesaggio arido, che invita l’occhio a frugare tra lame e avvallamenti, un posto ideale per pecore e pastori con le sue vie della transumanza.
Raccontata così, la Murgia sembrerebbe solo un paesaggio arido, che invita l’occhio a frugare tra lame e avvallamenti, un posto ideale per pecore e pastori con le sue vie della transumanza.
Raccontata nelle immagini di Luciano provoca un brivido che corre lungo la schiena.
Luciano ha fotografato cose sublimi (inteso proprio in senso Kantiano), ma ha fotografato anche gli anni dello spietramento selvaggio, pratica che nascondeva dietro un timido e miope tentativo di sviluppo, la distruzione di un delicato ecosistema. L’origine è da ricercarsi nella più antica pratica della spietratura, che prevedeva la raccolta delle pietre smosse dai vomeri degli aratri e affioranti dalle lame e dai canali dissodati (unici terreni adatti alla coltivazione). Centinaia di ettari di pascolo sono stati rimasticati e convertiti in seminativo, trasformando per sempre un paesaggio carsico e agrario.
Luciano ha fotografato quegli anni regalandoci delle immagini che vorrebbero essere neutre, ma non lo sono mai. Guardiamo un territorio sommando i punti di vista come lui stesso fa assumendo prospettive diverse, da quella del grillo a quella del falco.
Il suo è uno studio accurato dei luoghi, la ricerca ossessiva del momento giusto, quello buono per lo scatto, l’unica cosa che conta per evitare effetti speciali successivi. Luciano scatta a fuoco per evitare di ritoccare le foto dopo. «Lo scatto è quello che è» mi dice lui, che fino a due anni fa lavorava ancora in analogico.
Nelle foto di Luciano la spettacolarità sta nell’esplosione dei colori e nei contrasti del bianco e nero.
«Con le documentazioni storiche e fotografiche, si corre il rischio di cadere nell’appiattimento nostalgico legato ai canoni dell’arcaicità e dell’arretratezza» si legge nel catalogo fotografico “Alta Murgia” edito da Torre di Nebbia.
In effetti, è una regola che vale quasi sempre. Non so se è anche il suo caso, ma sono sicura che le sue foto più che documentazioni nostalgiche siano diventate il pretesto per raccontare la storia di questo territorio, le sue origini, le sue ferite. È una storia che ha visto l’intrecciarsi di relazioni tra uomo e natura, dove gli elementi antropici si sposano con quelli naturali.
In queste terre passavano gli antichi sistemi di viabilità romana come la via Appia, la regina viarium, sviluppatasi presumibilmente tra il Costone murgiano e la Fossa Bradanica, lungo gli antichi itinerari della transumanza e attualmente segnato dagli assi viari che collegano Spinazzola- Gravina- Altamura- Laterza.
È la terra dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi e che custodisce ancora le tracce delle sue dominazioni.
È la terra dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi e che custodisce ancora le tracce delle sue dominazioni. Le si ritrova nel falco, per esempio, che ancora sorvola questi territori, animale caro al Puer apuliae.
Ma la Murgia, senza andare troppo lontano, è soprattutto la terra delle servitù militari, che negli anni ’60 ha ospitato nelle sue basi missilistiche e all’insaputa della comunità murgiana, delle testate nucleari (i famosi missili Jupiter). Tuttora sono presenti cinque poligoni di tiro definiti occasionali (dei quali tre ancora attivi, e due definite aree militari molto spesso non accessibili), che occupano un territorio di 24.000 ettari chiaramente incompatibili con qualsiasi forma di attività agricola o di allevamento.
Nel 2004 la Murgia è diventata Parco nazionale, una sorta di parco rurale più che naturale, ossia (citando l’antropologo Ferdinando Mirizzi) «un sistema complesso di strutturazione spaziale in cui ogni elemento, naturale e costruito, appare storicamente e coerentemente inserito in una serie di legami tra l’uomo e la terra, definiti e regolati dal rapporto, complementare più che oppositivo, tra il lavoro agricolo e quello pastorale».
Tutto questo e molto altro è stato documentato da Luciano Montemurro, forse senza romanticismo, senza nostalgia, ma con obiettività.
Ne vengono fuori dei ritratti autentici, che narrano le vicende umane strettamente legate ad un territorio. Alcune sono raccontate in bianco e nero. Osservandole mi rendo conto di come bastino le sfumature del grigio a conferire antichità e memoria. «Quello che rimane dopo lo scatto è un ricordo. Lo stesso scatto è già memoria» mi dice Luciano.
Altre volte per raccontare, usa l’espediente della prospettiva. Ardite visioni di una strada che trova il suo punto di fuga all’orizzonte mi fanno pensare ad un passaggio di “On the Road” di Jack Kerouac, quando due dei protagonisti guardando la strada dicono:
«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati».
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».
Ora Luciano fotografa la polvere di casa, la nebbia, gli oggetti, i paesaggi lombardi.
Il progetto è non avere un progetto, svegliarsi la mattina e pensare che l’unica cosa da fare è fotografare. L’unica cosa da fare è andare.