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Teatro, arte e psicologia dialogano insieme

 Questo articolo è l'estratto di una serata a tema che si è tenuta presso il Centro Culturale Ricerca di Monza, il 26 marzo 2019, a cura di Diego Miscioscia.

L’ansia, più che essere un effetto, è una causa. L’ansia è il motore che spinge un individuo a comportarsi in un determinato modo. E gli effetti che crea possono essere devastanti.
Molto spesso, l’ansia genera un sentimento di solitudine, non tanto fisica, quanto psicologica. L’ansioso, nel suo stato d’animo si sente solo, è solo nel momento in cui cerca di combattere contro questo fenomeno. E il senso di solitudine non fa altro che alimentare paura, paranoia, depressione, angoscia. Dall’altro lato ci sono quegli individui che non soffrono di ansia e che, mediamente, non conoscono il problema. E molto spesso, non conoscendo il problema, non riescono a comprendere l’ansioso e il suo comportamento, dando vita nella migliore delle ipotesi al giudizio, nella peggiore alla discriminazione.
Quando ho deciso di scrivere il testo teatrale “Ansia”, mi sono chiesto per lungo tempo come raccontare l’ansia senza essere banale. Gli stereotipi che girano attorno a questa patologia sono tanti, e il rischio era di alleggerire qualcosa che invece sta diventando sempre più la malattia del secolo.

Ogni giorno sentiamo e usiamo la parola ansia per descrivere uno stato emotivo che non ha nulla a che vedere con la patologia: “Non mi mettere ansia!”, “Che ansia!” riferito magari alla fretta, o alla necessità impellente di fare qualcosa o semplicemente prendere una decisione futile in poco tempo. L’ansia, appunto, è una patologia, e raccontarne le cause o le cure non credo sia compito dell’arte. Nel processo di scrittura mi sono focalizzato sui rapporti umani che a quanto pare, nel periodo storico che stiamo vivendo, rischiano di essere uno dei maggiori ostacoli che la società sta vivendo. Le continue incertezze dovute alla sempre più scarsa socialità diretta a favore di quella virtuale, il narcisismo sempre più diffuso come patologia, la mastodontica differenza insita tra l’essere e l’apparire che aumenta sempre di più, crea necessariamente un gap comportamentale, un disagio “d’innesto” nel nuovo millennio.

Mi sono quindi focalizzato su questa incapacità d’approccio alle relazioni, in funzione di una continua ricerca di un obiettivo che non lascia spazio al processo di evoluzione che porterebbe ad esso. In sostanza una mancanza d’ascolto della vita. Non a caso, uno degli esercizi più banali per calmarsi è quello di concentrarsi sul respiro, la prima forma d’azione che ci tiene in vita (quante volte ci dimentichiamo che respiriamo?).
Macbeth, nel suo monologo più famoso recita: “Se tutto fosse finito quando fosse fatto, allora sarebbe bene che fosse fatto presto”. La necessità di Macbeth non sembra essere quella di compiere l’assassinio, ma di mettere fine a un processo che non riesce ad affrontare, a vivere, ad ascoltare. In uno dei suoi monologhi, Amleto recita: “Se questa troppo troppo solida carne potesse fondersi, evaporare e dissolversi in rugiada,
o che l'Eterno non avesse stabilito la sua legge contro l'uccisione di sé!”. Il processo è lo stesso, cambia soltanto l’atto finale (in Macbeth l’omicidio, in Amleto il suicidio, anche se poi si tramuterà in omicidio anche per lui). C’è uno stato di inazione compresso tra la non accettazione della propria condizione e quella di non voler compiere l’unico atto apparentemente utile a rifuggire la condizione. Quella condizione in cui l’ansia ti suggerisce: combatti o fuggi. Nel momento in cui nessuna delle due cose avviene, si genera un processo di alimentazione del motore ansioso.
Ecco, ho cercato attraverso la scrittura e poi, successivamente, attraverso la regia, di ricreare questa compressione, questo motore autodistruttivo attraverso le relazioni tra quattro personaggi che, a modo loro, vivono uno stato d’ansia (per alcuni consapevole, per altri meno) e che venendo a contatto l’uno con l’altro generano una condizione degenerante, esponenziale, un gioco al massacro che porterà ad un finale amaro ma in un certo senso avvolto da un lontanissimo, quasi impercettibile, alone di speranza. Ho cercato, poi, di ricreare un’atmosfera di ansia senza parlare di ansia (la parola ansia non viene mai pronunciata nello spettacolo). Il mio intento, quindi, è non solo quello di raccontare l’ansia, ma far sì che il pubblico in sala possa percepirla, viverla, e magari conoscerla da un punto di vista diverso.

(Marco S. Bellocchio, “Ansia”.
Spettacolo teatrale andato in scena il 5 e 6 aprile 2019 al Binario7 di Monza)

 

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© Josephine Cardin

 

In fenomenologia e in psicoanalisi tante e mirabili sono state le pagine che sono state scritte per cogliere l'essenza del vissuto d'ansia, per tracciarne i differenti colori, per ripercorrerne le similitudini.

Come la psicoanalisi, la psicopatologia fenomenologica ha intessuto con l'arte e le sue varie forme di rappresentazione un dialogo fruttuoso e creativo. Alla ricerca di quell'anello mancante fra l'indicibile (che attraverso il corpo si esprime e parla), i simboli, il significato e la parola.

Rivolgersi all’arte, nelle sue diverse declinazioni (teatro, letteratura, pittura, musica, fotografia, cinema), significa abbeverarsi ad una sorgente possibile di conoscenza che ci permette di riflettere sulla sofferenza psichica in generale, e sull’ansia in particolare.

Le esperienze artistiche ci fanno cogliere immagini diverse, e radicali, di questo vissuto e delle camaleontiche forme che può assumere, passando - lungo un continuum - da una umbratile inquietudine sino agli abissi vertiginosi dell’angoscia. Per la psicologia diventa necessario, per non chiudersi su una lettura “tecnico-scientifica” dell’Umano, confrontarsi con chi indaga la stessa materia da altre prospettive.

L’arte - e l’artista - sondano le pieghe delle esperienze umane comunicando per simboli ed immagini, non seguono i sentieri lineari della logica e della ragione, bensì creano mondi per rappresentarle, rendendole universali.

L’ansia fa parte della vita e l’uomo, da sempre, ha a che fare con essa: nelle sue forme fisiologiche e nelle sue manifestazioni patologiche.

L’etimologia del termine “ansia” deriva dal latino angere che significa “stringere”.

Quando si parla dello stato d’ansia, si fa riferimento ad un senso di soffocamento, di affanno, in cui il soggetto ha la sensazione di soccombere perché non ha respiro e qualcosa lo opprime.

L’ansia è necessariamente un disturbo della mente? Non sempre e non solo.

L’ansia è, innanzitutto, un segnale. Un segno prezioso che abbiamo a disposizione, e che ci spinge ad interrogarci su quello che siamo, che cosa vogliamo, cosa ci appartiene o non ci appartiene più, o a qualcosa che non ci è mai appartenuto e adesso si palesa.

E’ come il dolore: un’esperienza fondamentale della nostra vita a tutela della nostra sopravvivenza in relazione all’ambiente esterno o interno. Se non sobbalzassimo dinnanzi al fuoco che ci lambisce, bruceremmo senza accorgercene.

Da cosa deriva, dunque, l’esperienza dell’ansia e cosa ci vuole segnalare?

Freud, con l’osservazione delle tre istanze psichiche che compongono la vita mentale, l'Io, l'Es e il Super-Io, pone nell'Io la sede dell'angoscia. L’Io è l’istanza psichica, conscia e preconscia, deputata alla mediazione tra le pulsioni libidiche e aggressive del soggetto e le esigenze sociali. L’Es contiene le spinte pulsionali di carattere erotico (Eros), aggressive ed auto-distruttive (Thanatos) ed è l'istanza intrapsichica più arcaica della nostra mente, interamente inconscia. E poi c'è il Super-io: quella parte di vita mentale che contiene codici di comportamento, divieti, ingiunzioni, schemi di valore che il soggetto sviluppa a partire dall’infanzia nell’ambito del rapporto con i genitori e con le figure di accudimento.
Dunque, per Freud l’angoscia si genera quando l'Io si trova pressato dalle richieste pulsionali dell'Es e dai giudizi morali del Super-Io. Una situazione di conflitto che scatena il vissuto d’ansia e che, a sua volta, può poi evolvere in un quadro clinico strutturato quale soluzione “apparente” del conflitto stesso. Da qui, i disturbi d'ansia che conosciamo o che abbiamo sentito: la nevrosi isterica, gli attacchi di panico, i disturbi ossessivo-compulsivi, le fobie. Disturbi che, come nel caso dell'isteria ad esempio, ci portano ad entrare nelle espressioni pantomimiche dell'ansia. E quindi nella teatralizzazione – o rappresentazione - con cui l'apparato psichico tende a configurarsi e ad esprimersi.
La “mente come teatro”, espressione coniata dallo psicoanalista Fausto Petrella, è una vivida metafora del funzionamento psicologico dell'essere umano e ci evoca i molteplici “personaggi in cerca di autore”, di pirandelliana memoria, che abitano il nostro mondo interno: ruoli, conflitti, pulsioni, maschere con cui ci presentiamo agli altri – spettatori della nostra scena nel teatro della vita.

Certamente la società attuale, e quindi l'uomo di oggi, è molto diversa dalla Vienna fin de siècle di Freud. Era quella l'età dell'inconscio, come l'ha definita lo psichiatra Eric Kandel. L'età delle passioni forti e dei conflitti laceranti: sia interni all'uomo, sia sociali, quali le tragiche ideologie che hanno attraversato il Novecento.
La nostra epoca è segnata da cambiamenti radicali della società e, di riflesso, della morfologia dell'apparato psichico che caratterizza il soggetto contemporaneo. La società liquida (Z. Bauman, 2002), “L'Epoca delle passioni tristi” (G. Schmit e M. Benasayag, 2004), la caduta dei garanti metasociali (R. Kaes, 2012), così gli intellettuali di oggi descrivono lo spirito del nostro tempo evocando, attraverso queste parole, immagini che appartengono all'attualità.

Ma l'ansia c'è ancora.

La si trova nelle sindromi psichiatriche della clinica contemporanea e nei dati epidemiologici diffusi ogni anno dall'Organizzazione Mondiale della Sanità[2].
E nell'arte che ancora la rappresenta nelle sue espressioni narrative, figurative e teatrali.

Nell'espressione artistica, l’ansia prende forma attraverso le sue risonanze estetiche e creative, così come possiamo intravedere in alcune bellissime esperienze poetiche, narrative, figurative e teatrali. Da queste raffigurazioni l’ansia rinasce dilatata e approfondita nei suoi significati.

Lo psichiatra Eugenio Borgna, in uno dei suoi più noti libri - “Le figure dell’Ansia” - ci ha mostrato come a fianco dei tanti trattati di psichiatria scritti sul tema, ci possa essere anche un trattato dell’arte sull’ansia. Importanti passaggi della poesia, della letteratura e della pittura tratteggiano l’angoscia in maniera stupefacente dando forma ad un’esperienza che attraversa l’umano. L’”Infinito” di Leopardi, “I fiori del male” di Baudelaire, le poesie di Emily Dickinson, l’”Urlo” di Munch sono solo alcune delle opere artistiche citate da Borgna, che ci offrono uno sguardo su e dentro l’angoscia.

E così fino all’arte contemporanea che continua a delineare, a rendere vive e palpitanti le figure dell’ansia anche ai nostri giorni.

Josephine Cardin, fotografa dominicana, naturalizzata americana, indaga la sensibilità umana e temi come la solitudine, l'isolamento, la malinconia, e l'ansia. A quest'ultima nel 2006 ha dedicato una raccolta di scatti, “Feels Like”, per esorcizzare la paura degli attacchi di panico e per usare l'arte in modo "curativo".

Nelle sue foto prendono forma, accostando anche un sapiente uso del disegno a carboncino, aspetti dell'ansia come la depersonalizzazione, il senso di soffocamento, la paura stessa.

 

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© Josephine Cardin

 

Simona Vinci, nel suo libro “Parla, mia paura” descrive come tra le pagine di un diario la propria storia autobiografica, la discesa nell’esperienza dell’ansia, degli attacchi di panico, della depressione... e la risalita.      

“...il battito del cuore fuori tempo, il sangue che raschia sordo dentro le vene ristrette. 

Come si fa a descrivere quella particolare paura - che non è la paura di qualcosa di reale, concreto, riscontrabile, evidente, ma una paura irrazionale e pervasiva che fa del corpo, del sistema cardiocircolatorio, respiratorio e vaso motorio l’onda di un ciclone..?”

L'ansia si esprime oggi con nuove forme sintomatiche e ci parla di nuovi conflitti, diversi rispetto al passato. Forse sulla scena, il mito di Narciso ha preso il posto di quello di Edipo. In ogni caso, continua ad interrogare il soggetto quando viene attraversato da sensazioni perturbanti che generano confusione, estraneità, dolore mentale.
Interrogare il significato dell'angoscia significa darne una rappresentazione possibile di senso. E dunque trasformarla in parola, pensieri, immagini. Forse sogni. Per dare forma ai conflitti interiori, al desiderio del soggetto rimasto inespresso, senza parole, senza un soggetto.
E' quello che fa l'arte, e il teatro in particolare. Nella pièce di Marco S. Bellocchio, gli attori rappresentano l'ansia, permettendo allo spettatore di identificarsi con i personaggi della scena, e di fare catarsi delle proprie emozioni perché “viste” espresse con e nell’altro. E, forse, proprio nella “scena del teatro” il soggetto/spettatore può trovare un'estensione della propria “scena psichica”.
E' questa l'arte magnifica del teatro: rappresentare l'irrappresentabile, come le esperienze emotive che quotidianamente facciamo quando incontriamo noi stessi e gli altri.
E questo, per certi aspetti, è anche quello che avviene nella stanza dello psicoterapeuta. Sulla scena dello spazio psichico compare l'angoscia, un' amalgama diffusa e confusa di vissuti perturbanti che attraversano il soggetto e che attraverso la parola può far emergere la figura che vi è celata. La parola permetto lo “scambio” nella relazione, è lo strumento di connessione che consente la rappresentazione e insieme il corso del pensiero, portando i riflettori sulla verità del soggetto.
Ed è proprio nella verità del soggetto che “scena personale”, “scena terapeutica” e “scena teatrale” sembrano incontrarsi e voler dialogare.

BIBLIOGRAFIA

  1. Bauman (1999), Moderna liquidità. Editori Laterza.
  2. Borgna (1998), Le figure dell'ansia. Campi del Sapere, Feltrinelli.
  3. Freud (1922), L'Io e l'Es. In “Opere Vol. 9”, Bollati Boringhieri.
  4. Kaes (2014), Il malessere. Borla.
  5. R. Kandell (2016), L'età dell'inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni. Raffaello Cortina.
  6. Petrella (2011), La mente come teatro. Psicoanalisi, mito e rappresentazione. Centro scientifico editore.
  7. Schmit e M. Benasayag (2005), L'epoca delle passioni tristi. Feltrinelli editore.
  8. Vinci (2017), Parla, mia paura. Einaudi.


Marco S. Bellocchio: attore e regista, inizia professionalmente il suo percorso teatrale diplomandosi alla Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. Lavora come attore e performer e parallelamente inizia il suo percorso da regista. Nel 2011 inizia il suo percorso come insegnante di dizione e recitazione al Faro Teatrale di Milano, per poi proseguire alla Scuola di teatro Binario 7 di Monza, all'Accademia di Musical MTS di Milano, alla scuola di cinema ICA e in altre strutture teatrali.

Chiara Mariasole Carugati: psicologa, psicoterapeuta, specializzata in Psicoterapia Psicoanalitico Fenomenologica presso l’Istituto Aretusa di Padova, svolge attività come libero professionista a Saronno, come coordinatrice e referente territoriale del Gruppo DP&P, presso il Polo Saronnese di Psicologia (VA) e a Monza presso il Centro Clinico di Psicologia (www.centropsicologiamonza.it) come referente per il trattamento dei disturbi d'ansia e dell'umore.

Marco De Coppi: psicologo, psicoterapeuta, ha conseguito la specializzazione in Psicoterapia all'Istituto per lo Studio e la Ricerca sui Disturbi Psichici di Milano e l’Alta Specializzazione Universitaria nella presa in carico della coppia e coppia genitoriale presso la Clinica di Neuropsichiatria dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. È membro dell’International Psychoanalytical Studies Organization (componente dell’International Psychoanalytical Association) e associando della Società Psicoanalitica Italiana. Opera nell'ambito dei consultori famigliari, in qualità di responsabile scientifico, ed esercita la psicoterapia individuale e di coppia presso il Centro Clinico di Psicologia di Monza (www.centropsicologiamonza.it).

 

[2]          I disturbi d'ansia sono più diffusi di ogni altro tipo di disturbo psichiatrico: la loro incidenza è del 18,1% e la prevalenza, nel corso della vita, arriverebbe fino al 28,8%. L’incidenza è maggiore nei parenti di primo grado dei pazienti a cui è stata diagnosticata questa condizione. Le donne hanno una probabilità due volte maggiore rispetto agli uomini di esserne affette. Oltre l’80% dei pazienti con disturbo d’ansia generalizzato soffre anche di depressione maggiore, distimia, fobia sociale. Secondo il rapporto Istat del 2017 sono due milioni e mezzo gli italiani che soffrono di disturbi d’ansia, mentre l’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali (OsMed) dell’Aifa ha registrato che la spesa per i derivati benzodiazepinici ansiolitici ha raggiunto nel 2008 i 377,2 milioni di euro.