Intervista al musicista, membro storico degli Area, in previsione del concerto-tributo a Gianni Sassi del 9 maggio al Teatro Manzoni: una vita per la musica e per l'impegno, dagli anni Settanta ad oggi
Inizierei chiedendole qualcosa sulla serata del 9 maggio al Teatro Manzoni a Monza, che la vedrà sul palco assieme agli Area per un omaggio a Gianni Sassi. Da dove è arrivata l’idea per questo tributo? E come si svilupperà sul palco?
L’idea è data dal decennale della morte, l’iniziativa è soprattutto di Viviana Bucci e dell’associazione Musicamorfosi, che hanno ritenuto di onorare la memoria di questo grande personaggio con un nostro concerto, cosa che noi abbiamo accettato assolutamente volentieri. C’è da dire che Gianni Sassi è stato, per la storia degli Area, un personaggio importantissimo perché noi l’abbiamo sempre considerato un membro del gruppo a tutti gli effetti. Questo perché lui si inventò discografico per pubblicare il nostro primo disco, Arbeit Macht Frei, e oltre a questo lui ha scritto anche tutti i testi degli Area, che non è una cosa da poco. Lui si occupò della grafica di tutte le copertine degli Area, e anche questa non è una cosa da poco. Si occupò anche della comunicazione e dei rapporti con la stampa e tutto il mondo esterno. Siamo tutti molto legati a lui, io in particolare essendo il più giovane degli Area, entrai nella band quando avevo appena compiuto ventuno anni, vedevo in lui quasi un padre, un secondo padre. È stata sicuramente una persona molto significativa.
Le chiederei un suo ricordo di Gianni; cosa ha significato non solo per lei e gli Area, ma per tutta la musica in Italia?
Di ricordi ce ne sono tanti. Più che aneddoti racconterei di lui come un pazzo, un pazzo benedetto che ha tentato di considerare la musica d’arte, la musica contemporanea tra la più radicale degli anni Settanta, con pubblicazioni di Cage, Hidalgo, Marchetti e tutto quel mondo di musicisti, come se fosse musica popolare, non accettando di rinchiudersi in un ghetto dorato, dove le cose di cultura tendono a venire confinate o ad auto-confinarsi. Lui cercò di abolire questi confini, per esempio rimase famoso il concerto di John Cage al Lirico di Milano.
A proposito di quel concerto, ci sono ancora oggi pensieri e commenti discordanti. Qual è il suo pensiero su quella serata? Fu un genio Cage, furono stupidi quelli che salirono sul palco o cos’altro?
Il peccato originale di quella serata, se peccato c’è stato, è proprio dovuto a Gianni Sassi, perché trattò e pubblicizzò quel concerto come se fosse un concerto di musica qualunque. Lo fece parlandone con riviste che si occupavano di tutto meno che di musica contemporanea. Lui non accettava differenze tra i generi e i giornalisti, presi da sindrome dell’ignoranza, cominciarono a trattare Cage come se fosse il nuovo messia musicale, cosa anche vera per certi versi. Era molto avanti Cage come pensiero musicale, il suo essere avanti si manifestava però con delle cose molto povere e infatti a Milano fece una cosa poverissima, “Empty Words”, che significa “parole vuote”. Erano parole disarticolate tratte da testi di Thoreau, salmodiate con molta calma nel silenzio per due ore e mezza: questa era la performance di Cage. Lui ha promesso di fare questo e questo ha fatto, ha fatto il suo lavoro perfettamente. Solo che questo suo lavoro non era in una galleria d’arte a New York o in una sala di un’università a Berlino, ma a Milano negli anni Settanta, dove c’era un gran casino e dove arrivò una quantità di gente che non sapeva niente di lui. Si aspettava qualsiasi cosa, ma che almeno fosse molto rumoroso, invece davanti a quello che faceva Cage esplose un bubbone di paranoia che c’era nella gente, anche in modo abbastanza aggressivo, tanto che l’avevo vista brutta per lui. Noi eravamo pronti a tutto, se qualcuno avesse messo le mani addosso a Cage saremmo intervenuti, però non gli hanno fatto niente ed è riuscito a finire la sua performance tra urla devastanti e altre cose vergognose. Quando finì, alla fine dell’ultima sillaba, si alzò, aprì le braccia e si incamminò verso il pubblico. Lì scoccò un applauso pazzesco che stupì anche la gente stessa, un applauso che gli fu fatto perché fu visto come un eroe, che era riuscito a portare a termine il suo discorso senza cedere. Questo è testimoniato anche dal fatto che nessuno è uscito prima della fine, sono rimasti tutti per sentire queste cose che probabilmente reputavano inutili. Io penso che sia uno dei concerti più importanti che siano stati fatti a Milano, uno dei più significativi, perché ha fatto in modo che girassero un po’ di rotelle e che si pensasse a qualcosa. Chi pensava di essere stato preso in giro è chi non ha nulla a che vedere con la musica e con il pensiero di Cage men che meno.
Sempre a proposito di Cage, quale influenza ha avuto sui suoi dischi solisti, per esempio quelli di piano preparato come l’ultimo, Piccolo atlante delle costellazioni estinte?
Cage ha chiuso il Novecento, sostanzialmente, il percorso dei compositori del Novecento alla ricerca della pietra filosofale del fare musica, del modo giusto di trattare il suono e della vera contemporaneità. Cage, spersonalizzando la musica e liberando il suono dal suo autore, ha tagliato alla base tutto il gioco. È finito così il gioco dell’avanguardia, perché non si capiva più bene quale fosse retroguardia e quale la direzione della modernità. Con l’impersonalità e con l’indeterminazione si è chiuso, dal mio punto di vista, un mondo. Chi ha praticato l’indeterminazione, l’ha studiata e l’ha affrontata dal punto di vista concettuale e filosofico, è una persona post-cageiana, una persona matura quale io, nel mio piccolo, penso di essere. In questo modo mi appartiene il lavoro di Cage. Ogni tanto con amici organizziamo delle serate e suoniamo delle partiture di Cage, e quella è una cosa. Nella mia musica c’è sempre il pensiero di Cage come percorso: io ho metabolizzato l’indeterminazione e anche se non pratico l’indeterminazione al 100% così come la auspicava lui, per me rimane sempre una possibilità aperta.
Parlando invece di quello che succede in questo periodo, è in corso l’Open Project Tour con gli Area. Quali sono le differenze con il Reunion Tour degli scorsi anni?
Tendiamo un po’ a riprendere in mano il modo di fare degli anni ’75-’76, quando aprimmo il gruppo ad altri musicisti. In questo giro che stiamo facendo non ci sarà Ares Tavolazzi ma ci sarà Marco Micheli, un musicista molto potente, al suo posto. Poi ci sarà Valter Paoli, Paolo Tofani e io. Lavoreremo anche in trio, io, Paoli e Micheli, mentre Tofani porterà dei concerti da solo e in duo, sempre come Open Project. Prossimamente quindi il gruppo si aprirà in questo modo.
Penso che le abbiano già fatto questa domanda un po’ di volte: visto il successo del tour e la voglia di sperimentare che dimostrate, avete pensato di registrare qualcosa di nuovo, un disco con materiale inedito dopo il live del 2012?
Intanto bisogna tenere presente che il live è per metà fatto di materiale inedito e di materiale del repertorio solito trattato in una maniera radicalmente diversa da come era negli anni Settanta. Quindi in Live 2012 c’è parecchio di quello che siamo noi adesso e di quello che ci interessa fare. Per un altro lavoro, vediamo. Tieni presente che noi facciamo i dischi non per logiche mercantili né di nessun altro tipo, un disco serve solo per documentare, per fissare in qualche modo il percorso che stiamo facendo. Quindi è una fotografia che fissa un momento del nostro percorso. Quando saremo maturi per farlo, lo faremo. In realtà quello che ci prende più di tutto in questo momento è l’attività dal vivo, i concerti. Invito quindi tutti a partecipare, anche perché abbiamo un’età tale che non dureremo una vita, quindi conviene assistere a un concerto degli Area.
Sul fronte solista ci sono invece novità in arrivo dopo Piccolo atlante delle costellazioni estinte?
Sì, ho appena finito di registrare le musiche per un film molto bello, che si chiamerà Bambini senza paura, un film a cartoni animati con la regia di Michel Fuzellier. È una storia dedicata a Iqbal Masih e tratta quindi dei bambini schiavi del Pakistan. Iqbal fu un caso pazzesco perché riuscì a fuggire e arrivò a parlare all’ONU, dove denunciò la mafia dei tappeti provocando grandi reazioni, ma poi quando tornò in Pakistan fu ucciso. A lui dedichiamo questo film, che non è un film tragico perché è per bambini e narrerà quindi la parte eroica, quella in cui questo bambino racconta al mondo la sua storia. È un film molto bello, per bambini e anche per adulti.
A proposito di bambini, lei ha già lavorato anche a programmi tv dedicati ai piccoli. C’è un approccio diverso nel fare musica che sarà poi ascoltata in un ambito legato all’infanzia?
Sì, certo, i bambini sono più liberi, è bello lavorare per un pubblico meno riccioluto a volte. È una cosa che mi ha sempre interessato, ho iniziato facendo L’Albero azzurro, musica per bambini in età pre-scolare, poi ho continuato con una serie di cartoni animati che si chiamava Taratabong, quindi sui due anni, veramente piccoli. Ora c’è questa cosa del film, che ti assicuro è molto bello. Andremo a mixarlo in questi giorni, dovrebbe uscire nei prossimi mesi, a fine estate credo.
Tornando al 1977, di cui abbiamo parlato prima in occasione del concerto di Cage, quello fu anche l’anno del punk, anche se in Italia arrivò un po’ in ritardo. Tra le prime etichette a far uscire dischi di quel genere ci fu proprio la Cramps di Gianni Sassi, con gli Skiantos, i Kaos Rock e la Kandeggina Gang. Quali erano ai tempi i suoi pensieri su quel genere musicale, che veniva a spazzare via quello che avevate fatto?
Non me ne fregava un emerito cazzo, era musica di merda fatta da gente che non sapeva suonare. Poi c’erano gli Skiantos che in realtà erano una cosa diversa, hanno sempre saputo suonare il rock, erano ottimi musicisti che facevano finta di essere incapaci. Freak Antoni era un intellettuale autentico, con un senso dell’umorismo prezioso, quindi non puoi paragonare gli Skiantos con altri gruppi che facevano solo due accordi. Io allora ero preso da altri interessi, purtroppo quindi non ho conosciuto Freak allora, l’ho conosciuto trent’anni dopo e siamo anche riusciti a fare un pezzo assieme nel mio disco Lupi Sintetici e Strumenti a Gas.
Gli Area sono stati il vessillo della musica politicamente impegnata degli anni Settanta. Lei pensa che anche oggi la musica debba esserlo o almeno tentare di esserlo?
La musica, come l’arte in genere, non deve essere niente, deve essere quello che vuole essere. Noi prendemmo la nostra decisione di schierarci, come persone e come artisti. Fu una decisione, non dico che fu la decisione giusta, non dico che tutti dovrebbero fare così, perché la cosa importante è la musica. È la musica stessa che al suo interno contiene, come fatto culturale, tutto il suo potere dirompente e sovversivo, se è intelligente. Se è una cosa che fa smuovere le coscienze, è assolutamente politica, indipendentemente dal fatto che tu abbia una tessera o sia schierato. Noi abbiamo cercato di dare in tutti i modi una mano al movimento a fare il suo percorso, dall’inizio alla fine, di far muovere le cose perché finché si muove qualcosa c’è libertà, forse.