20180507 domenica del corriere

L'8 maggio 1898 Fiorenzo Bava Beccaris, ordinò alle sue truppe di punire con le armi i milanesi che avevano osato protestare contro l’aumento del prezzo del pane. 80 cittadini morirono e tanti altri rimasero gravemente feriti. La notizia fece il giro del mondo e arrivò alle orecchie di Gaetano Bresci, che decise di vendicare di persona quella strage. 

Sull'argomento regicidio, per una volta, provo a spararla grossa pure io.

Prima che in quell’afoso 29 luglio 1900, a Monza un’improvvisa tripletta se la svignasse da una Harrington & Richardson calibro 32, per conficcarsi con mirabile precisione in un monarcoide di nome Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia, esattamente 120 anni fa era già andato in scena un’altro splatter politico: l’episodio scattenante di quel plot s’era svolto appena due anni prima - in una giornata che oggi è allegramente celebrata come “Festa della Mamma”.

Quell’8 maggio 1898, il Direttore Generale d’Artiglieria e Genio al Ministero della Guerra nonché Comandante del VII e del III Corpo d’Armata con il grado di Tenente Generale, arci-ignoto come Fiorenzo Bava Beccaris, ordinò ai suoi sgherri in divisa di prendere a cannonate un manipolo di milanesi che avevano osato protestare contro l’aumento del prezzo del pane. Quel suo fervore beffardo-savoiardo aveva causato la morte violenta di 80 cittadini, altri 450 rimasero menomati, azzoppati, accecati.

 

20180507 bava beccaris

Immagine tratta da dizionaripiu.zanichelli.it

 

Non stiamo parlando di un episodio fatale post-risorgimentale. Era nientemeno - o niente di più - di una strage. Una sorta di Piazza Fontana fin-de-siècle dove però i botti si sarebbero prolungati per molte ore. Lo stesso anno, in una Ville Lumière sempre meno illuminista, s’era inaugurato il teatro Grand Guignol - un luogo di allestimenti decisamente dark dove le stilettate, le torture e gli omicidi triviali erano al disordine del giorno. Invece, in una dépendence politica e commerciale della burocrazia piemontese - siamo parlando del capoluogo della finanza a misura Duomo - gli spasmi dell’innovazione sociale non sarebbero mai andati in scena con i noti calembour sui tête-à-tête sotto la ghigliottina o le brioches di Marie Antoinette. Com’era invece da sempre successo qui da noi, le scintille tra disperati e sfruttatori, erano d’ufficio state neutralizzate dalla Chiesa… e nelle cronache e nei libri di scuola del nuovo secolo quelle rivolte sarebbero per sempre state banalizzate come “La protesta dello stomaco”. Per dirla tutta, in quel di Milano non era in ballo la fama di un casato torinese becero e corrotto, ma la fame. Fame di pancia di qua e fame di gloria di là. Infatti, dopo nemmeno un mese da quella mattanza, il “Re Buono” Umberto I appose al petto del Beccaris la “Croce di Grand Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia” per poi nominarlo pure Senatore.

Durante quei fattacci il nostro eroe di due mondi (quello dell’indignazione e quell’altro della ribellione), si trovava in America, in una cittadina vicino a New York, Paterson, nominata anche Silk City per via delle sue numerose fabbriche di seta. Quando l’operaio pratese Gaetano Bresci arrivò in quell’industriosa ma cupa colonia italiana, non era un loner sbattuto chissadove; vi trovò ben cinquemila connazionali, tra i quali la lettura non si limitava alle cifre vergate sulle loro buste paga, ma spesso si estese anche a “L’Aurora” e “La Questione Sociale” - i due periodici anarchici più diffusi tra quei nostri emigranti cosi poco W.A.S.P.

20180507 Bresci GaetanoOltre a essere un attivista politico nel mirino delle autorità (a Prato era già stato imprigionato come “anarchico pericoloso”, solo per avere redarguito delle guardie che stavano arrestando un garzone che non aveva rispettato gli orari di chiusura di una macelleria), in poco tempo, quell’immigrato con i baffi sempre ben curati, si sarebbe fatto notare per tre talenti inattesi: capiva e parlava bene l’inglese, si dilettava con la fotografia… ed era un playboy. Va da sé, che i due primi vezzi gli servivano spesso per soddisfare con successo la sua terza passione. Il suo frequente “May I take a picture of you?”, sicuramente pronunciato con spiccato accento tosco-casanoviano, gli apriva frequenti spiragli per vivere serate appassionate, non necessariamente di matrice politica o sindacale. A quei tempi, avere al collo una Graflex o una Folmer & Schwing, era come se oggi un tamarro si presentasse ai buttadentro di una discoteca munito di un Rolex o con in mano l’iPhone 8 Plus.

Per il nostro eroe, gli ultimi mesi del 19° secolo furono improntati a due attrazioni fatali: 1) s’innamorò, mise incinta e sposò una giovane operaia irlandese di nome Sophie Knieland, dalla quale ebbe poi due figlie, Maddalena e Gaetana; 2) la sera del 12 novembre 1899 a West-Hoboken, assistette a un accesissimo dibattito tra Giuseppe Ciancabilla ed Errico Malatesta, i leader dei due più incisivi movimenti anarchici attivi negli USA. In quella serata Bresci venne finalmente a sapere le reali e atroci circostanze che avevano portato all’abietto assassinio degli ottanta milanesi, compiuto appena un anno e mezzo prima.

Nonostante sua moglie fosse già incinta della seconda figlia, Bresci decise all’istante che, laggiù in Italia, si doveva fare “Na ‘osa giusta”. Non s’illuse di poter cambiare i rapporti di forza nazionali, ma contrastare la supponente prosopopea dei nobilastri e dei parassiti, forse sì. Da anarchico coerente, era semplicemente convinto che per quel massacro qualcuno avrebbe dovuto pagare. E quel qualcuno non poteva che essere colui che reggeva - anche se da bischero incompetente e opportunista - le sorti di una nazione che allora contava appena 39 anni: il re.

Pianificò tutto con grande accortezza: soldi, arma, viaggio, date, orari. Per far sembrare quella sua rentrée in patria come un Grand Tour turistico, il percorso di avvicinamento al suo bersaglio, lo svolse volutamente a zigzag: New York, Le Havre, Bordeaux, Parigi, Genova, Prato, Roma, Bologna, Piacenza, Milano, Monza.

Prima dello shoot out finale nel centro brianzolo, avrebbe compiuto un attento sopralluogo. Studiò la location nei minimi dettagli, preparò una timetable che oggi qualsiasi direttore di produzione chiamarebbe senza esitazione “professionale”. Scoprì che la sera del 29 luglio 1900, la locale associazione "Forti e Liberi" doveva compiere un saggio ginnico a pochi metri dal sontuoso complesso brianzolo progettato dal Piermarini, oggi meglio noto con l’eufemismo da Guide Michelin, “Villa Reale”. Durante tutto il pomeriggio, Bresci bighellonò, tranquillo, nella cittadina dei cappellifici. Il giorno del suo meeting con la storia, consumò dei pasti completi in due ristoranti e pagò pure una coppa di gelato a un altro escursionista il quale, in tutta evidenza, era lì per seguire percorsi storici decisamente più tranquilli legati a Teodolinda, a Federico Barbarossa, al Manzoni.

 

20180507 corsera

 

Appena assolto il suo impegno con la storia, la macchina propagandistica del regime si scatenò immediatamente, con tutta la sua ubiqua potenza di fuoco: semplicemente non era accettabile che un “pazzo isolato” avesse compiuto un complotto ordito chissadove e da chissà chi, non poteva essere scaturito dalla rabbia, dall’indignazione, dalla ribellione di un uomo solo. La sottologia dei coristi del potere (i soliti notabili, i giornalisti di allora, i preti), sembrava coordinata da un ghostwriter del destino: tutti a scrivere che quel triplo botto monzese era stato solo il primo segnale del caos, della disgregazione, dell’insubordinazione, perversamente agognata da una specie di Spectre anarchica, violenta, infernale.

In tutto il paese, gli arresti furono centinaia. La fine di quel miserabile re divenne all’istante una sorta di Ground Zero del patriotismo savoiardo, dell’accomunanza cattolica, dei buoni pentimenti di tutti i cittadini perbene, devoti, benpensanti.

Come suo difensore, Bresci aveva indicato Filippo Turati. Ma questi, dopo una breve riflessione, palesemente tattica ed elettorale, rifiutò l’incarico “…perché ormai sono dieci anni che non vesto più la toga”. Così, il mandato passò nelle mani di Francesco Saverio Merlino, un valente avvocato napoletano, socialista, dai trascorsi anarchici, che spesso aveva difeso dei compagni senza percepire alcun onorario. A Merlino la corte negava praticamente tutto: il tempo per approfondire gli atti, l’individuazione di testimoni, un minimo indispensabile di colloqui con l’imputato. Dopo appena 30 giorni dall’attentato, il processo farsa di Milano durò la bruttezza di sole dieci ore.

 

20180507 regicidio

 

Visto che assieme alle doglie per la Giovine nazione, era stata abolita anche la pena di morte, l’ergastolo (durissimo, degradante, malsano, senza alcun contatto con l’esterno, cento volte peggio della 41 bis dei nostri giorni), era il massimo che quel mondo oscurantista, clericale, lombrosiano, poteva appioppare al più temuto protagonista di un fantasma anarco-sindacalista che allora s’aggirava ancora per l’Europa.                                                                                                         

Per l’appena trentunenne ergastolano, quel totale isolamente nel carcere all’isola di Santo Stefano, doveva rivelarsi come un’agonia spietata ma, per paradosso, anche drammaticamente breve. Su ordine del ministro degli interni (il liberale Giovanni Giolitti), a Bresci fu negato qualsiasi briciolo di dignità, gli venne persino proibito pronunciare il proprio nome; per chiunque, compresi i secondini, lui era solo il n° 515. Come unico diversivo gli fu proposta la lettura di una bibbia che lui, ovviamente, rifiutò. In tutto il periodo trascorso in quell’inferno, la lettura delle lettere che gli scrisse sua moglie dagli Stati Uniti, gli era sempre stata negata.

Esattamente come molti anni dopo sarebbe successo a Giuseppe Pinelli, trascorsi appena 125 giorni della sua condanna a vita, Gaetano Bresci fu suicidato. Nel rapporto stilato dal Commissario della Direzione delle Regie Carceri, Alessandro Doria il quale, guarda caso, proprio in quei giorni si trovava lì, si leggeva che “il Bresci s’era impiccato nella sua cella con un tovagliolo”.

Per rendere questo noir ancora più tenebroso, ecco alcune aggiuntive “note di colore”:

-   di giorno e di notte, Bresci fu ininterrottamente controllato a vista, attraverso uno spioncino;

-   le catene alle caviglie non gli furono mai tolte (ogni suo movimemto doveva inevitabilmente innescare un rumore che alla guardia di turno non poteva assolutamente sfuggire);

-   il giorno della sua morte, alle ore 11 consumò il suo solito pasto; secondo la testimonianza della guardia, Bresci tolse un pezzo di formaggio con la palese intenzione di consumarlo successivamente con la cena;

-   per non impigrirsi fisicamente, Bresci si esercitò ogni giorno giocando con una palla ricavata da un unico tovagliolo che veniva concesso agli ergastolani - lo stesso tovagliolo col quale il Bresci “si sarebbe impiccato”;

-   appena due giorni prima della morte, Bresci aveva scritto una lettera alla moglie, dove parlava con tanti dettagli della sua speranza di rivedere un giorno le loro figlie.

-   a pochi giorni da quella “visita di controllo”, al Doria veniva raddoppiata la paga.

Un altro, successivo, inquilino del carcere di Santo Stefano, Sandro Pertini, l’unico nostro Presidente della Repubblica mai colluso con le partitocrazie, con i gazzettari di regime, con la Chiesa, di fronte all’Assemblea Costituente della neonata Repubblica italiana, aveva pronunciato queste precise parole: «Per Gaetano Bresci, nel carcere furono interrogate tutte le guardie. Non è vero che si sia suicidato: prima l’hanno ammazzato di botte e poi hanno attaccato il cadavere all’inferriata e hanno diffuso in tutta Italia la notizia di questo suicidio».

Chiudo con una nota territoriale e forse persino un tantino personale. Per una ventina d’anni facevo su e giù in macchina, tra casa e lavoro, tra Lesmo e Milano - costeggiando il parco pubblico più grande d’Europa e la sontuosa residenza estiva dei maledetti Savoia. E così, en passant da quelle parti, scorsi spesso un monumento piuttosto strano che, nelle guide della Pro loco monzese, è rubricato come “Cappella Espiatoria”. È una testimonianza storica coerentemente lugubre e spaventosamente kitsch, eretta esattamente nel posto dove Bresci aveva ammazzato il re.

Così, un bel giorno (bello oppure bruttissimo, fate voi), m’ero deciso a fermarmi lì. Se dovessi qualificare quell’obbrobrio con una definizione coerente, mi verrebbe spontaneo buttarla sul trash: è un misto di retorica irritante e di datato esibizionismo dark. Nel piazzale circostante, di giorno le domestiche filippine ci portano i Pitbull delle sciure monzesi per farci i loro bisogni, by night puntualmente c’è un rave di tamarri in motorino.

La vera anima di quel posto è situata in una lugubre galleria sottosuolo (visitabile su prenotazione chiamando il numero 039 380772 oppure lo 039 80294401). Il custode (che abita a pochi metri da quell’incubo, per prima cosa ti fa sentire il cigolio di una cancellata tipo “Frankenstein Junior” per accompagnarti, con lentissimo passo da scafandro, negli inferi sottostanti dove, in una sorta di showroom post-austriaco o pre-dannunziano, ci sono decine e decine di corone in ferro battuto, tutte quante donate, esibite e firmate dai più potenti clan vicini al re. Se una galleria di questo genere dovesse essere riproposta ai nostri giorni, non so se il progetto verrebbe affidato a Carlo Lucarelli, a Massimiliano Fuksas o a Oliviero Toscani, ma penso che alla fin fine l’appalto se lo cuccherebbe il solito Maurizio Cattelan.

In quel non luogo dell’anamnesi storica non c’è nessuna parola, nome o segno, che accenni a chi aveva innescato il vernissage di quella galleria dell’orrore e, ovviamente, men che meno parla degli ottanta cittadini che appena due anni prima, a soli venti chilometri da lì, erano stati fatti accoppare da quel sovrano - solo perché, ancora prima di morire, erano già dei semimorti di fame che avevano da sempre solo obbedito alle leggi del menga, dei padroni, de la gnuransa e della povertà.