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A venti anni dalla scomparsa del grande cantautore, amici e lettori di Vorrei lo ricordano con aneddoti personali. Intervengono il giornalista Pasquale Dibenedetto, il formatore Michele Di Paola e la disegnatrice La Tram

 

Pasquale Dibenedetto

Chissà perché solo se penso alle canzoni di De André, non tutte ovviamente ma alcune precise e determinate, mi capita di associarle al momento esatto in cui le ho ascoltate per la prima volta, alla persona con cui ne ho parlato e in quali termini, alle sensazioni provate. E allora facciamolo questo giochino.

Se ascolto “La canzone di Marinella” la mente va a un freddo pomeriggio passato a casa di un amico del IV ginnasio di una città vicina alla mia. Quella volta che a pranzo mangiammo pesce (con tutti gli imbarazzi per pulirlo davanti ai genitori… ci mettemmo due ore per spinarlo e non sporcarci! Sempre sul punto di scoppiare a ridere) e poi andammo in camera del padrone di casa “a sentire i dischi”, quelli in vinile con l’impianto potente. Roba di tanti anni fa.

Se ascolto “Il suonatore Jones” o “Amore che vieni amore che vai”, come non ricordare il mio cugino acquisito (già anarchico, beh non casualmente), che mi inserì queste due canzoni in una di quelle musicassette della Maxell? Con la “Guerra di Piero” il ricordo va al Comitato della pace del 1990 (contro la prima guerra del Golfo) ospite di una sede degli anziani del partito. “La canzone del maggio” evoca una serata nell’atrio dell’Ateneo di Bari durante l’occupazione dell’Università, sempre nel ’90. Via del Campo l’ho visitata durante un recente viaggio a Genova, tra migranti e prostitute ancora ammiccanti davanti a case-postribolo. Lì vicino la piazza dedicata a don Gallo ma anche il Municipio nella via più bella della città). “Nancy” e “Rimini” forse le ho ascoltate per la prima volta non su un disco o alla radio ma suonate alla chitarra e cantate da un amico. “Hotel Supramonte”, canzone di grande suggestione, mi metteva sempre una angoscia particolare non solo per l’argomento, che pure era particolarmente angosciante, ma anche perché l’ascoltavo su una cassetta in una casa di studenti a Bari in un periodo in cui ci vivevo praticamente da solo. E infine per “Bocca di Rosa” non posso che pensare all’unico concerto cui ho assistito, quello del tour Le Nuvole il 31 ottobre del 1992 al Teatro Team, quando al risuonare delle prime note dalle file davanti in platea spuntò uno striscione (non un cartello) “giallo con una scritta nera”. 

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Michele Di Paola

De Andrè l’ho scoperto e riscoperto almeno quattro volte. E continuo a farlo.

Per la prima volta l'ho sentito da mio padre, non saprei nemmeno dire precisamente quando; quella voce così incredibilmente unica, quelle filastrocche così semplici e così terribili insieme che erano il repertorio del primo De Andrè “francese”, ci sono già, nei miei primi ricordi. Le domeniche mattina, quando i vinili giravano sul giradischi del salotto, spesso c'erano le storie di Piero o di Marinella, insieme alle canzoni per bambini di Bruno Lauzi e Sergio Endrigo, e alle cassettine dei Beatles con i titoli scritti a mano in quella lingua strana.

Quando nelle musiche di una recita delle elementari ci è finita anche la canzone del falegname col martello che fa den den, chissà che effetto avrà fatto a papà sentirla cantare ad un coro di decine di bambini - forse lo stesso che fece a me, alle medie, ritrovarmi il testo della Ballata dell’amore cieco in una antica canzone tradizionale che studiavamo nell’ora di inglese.

Poi per un po' ci siamo persi di vista, fino a quando ho tentato di imparare a suonare la chitarra, alle superiori, per poter dire anche la mia, nelle playlist delle uscite scout e nelle estati in spiaggia. A quel punto senza neanche troppo scavare l'ho ritrovato: il De Andrè della PFM, dei testi apertamente sovversivi che a casa mia non avevano fatto troppa presa, delle collaborazioni con Massimo Bubola che poi anni dopo mi sono andato a sentire dal vivo, così, per ringraziamento. Ho comprato Spoon River per le canzoni, ed è stato il primo libro di poesia che abbia maneggiato - domandandomi perché non ci fosse una canzone anche per Kinsey Keene. In quella parte ancora inesplorata del suo repertorio, per la prima volta solo mia, c'era tutto quello che mi serviva in quegli anni e che nessun altro diceva e sapeva dire in quel modo, e le suggestioni “indiane” mi sono rimaste addosso da allora -  non posso non cantare e suonare Coda di lupo ogni 11 gennaio.

Nel 90 è uscito Le Nuvole ed è stato il primo disco di De Andrè che ho portato a casa io, regalandolo a mio padre. Quel titolo da Aristofane faceva volare i miei studi classici, al massimo della loro forma in quel momento. Nella Domenica delle Salme, poi, lo stesso smarrimento preoccupato che io e i miei amici inquieti ci raccontavamo, nelle notti lunghissime a parlare di tutto, nel passaggio tra l'essere ragazzi e l'essere qualcos’altro. È stato quando per la prima volta l'ho visto dal vivo, all'Arena di Milano, e tutte quelle mani in aria a fare i papaveri illuminati di rosso sono stati una delle situazioni più emozionanti in cui io mi sia mai trovato, anche in quasi vent'anni passati a lavorare con la musica.

Ad un certo punto ero circondato da musica etnica, come la chiamavamo in quel periodo: a tratti molto noiosa, qualche volta interessante. E lì ancora una volta ho riscoperto Faber, che su quella frontiera si era già seduto comodo da anni e mi aspettava con le liriche genovesi di Creuza de ma, con quei suoni dimenticati che, come ho capito tanti anni dopo, erano già sogni di anime contadine (e pescatrici) in volo per il mondo… 

Io che a malapena ricordo la mia nonna ligure morta quando ero troppo piccolo, con cui pure passavo settimane infinite al mare ogni anno, dopo l’asilo e la scuola  - non ricordo la sua voce e dubito molto che usasse il dialetto, ma per me quella voce antica e sottile che dice "varde che roba" alla fine della canzone, è lei. E magari è successo a tutti, ma io tutte quelle liriche in genovese le ho capite al primo colpo, e ho pensato che forse non era un caso.

Con la doppia cassetta di un live degli anni 90, ci abbiamo fatto uno dei viaggi della nostra vita, io e altri amici, in automobile da Villasanta a Capo Nord e ritorno, 9081 chilometri con la voce di Faber a farci compagnia.

La volta che gli sono stato più vicino, intendo proprio in linea d’aria, è stato a Monza. Ero andato con un’amica al Manzoni, al concerto di presentazione in prima nazionale (!) di Canti Randagi, il disco di canzoni sue reinterpretate dal meglio della musica etno-popolare italiana, omaggio per aver indicato anche questa strada, e al termine del concerto, i ringraziamenti di rito all’autore di tutte queste canzoni. Luce in sala, e l’autore si alza in piedi, è Fabrizio, è lì, tre file davanti a me, nel teatro dove abbiamo fatto il concerto di fine anno della scuola in quinta superiore.

L’ultima riscoperta, pochi giorni fa. Anime Salve è uscito in un periodo della mia vita abbastanza complicato, quindi l’ho lasciato lì, perché continuava ad evocarmelo. Ma l’altro giorno giravo a piedi con le cuffie, e ho cercato Smisurata preghiera per ascoltarmela sul’autobus lungo via Lecco. Mentre sentivo quelle liriche così esatte, spietate, terribili, ho realizzato che erano parole di più di venti anni fa, e avrei potuto incollarle come commento sotto alle notizie del giorno. Di ogni giorno degli ultimi due anni almeno. E l’ho rimessa da capo.

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La Tram

Il giorno che è morto De Andrè me lo ricordo bene, ho quattordici anni. Mia madre ed io abbiamo litigato ferocemente e ce ne stiamo chiuse nel solito inesauribile mutismo come una prova di resistenza. Gli occhi bassi sulla minestra, ascoltiamo il telegiornale. Quando danno la notizia non alzo nemmeno lo sguardo dal piatto. 

Continuo a mangiare mentre mi scendono le lacrime, prendo cucchiaiate di pianto e minestra. Nessuna dice una parola, entrambe irriducibili nella nostra guerra di indifferenza. Mi sento spezzata come se fosse morta una persona cara, penso a tutte le volte che De Andrè ci ha rese complici oltre ogni rituale ostilità, alla musicassetta che teniamo sempre nella Panda, la cassetta arancione che scandalizza le mie amiche di scuola quando gli diamo un passaggio e cantiamo allegre che impiccheranno Geordie con una corda d'oro. Quella reazione ogni volta mi diverte, e nel mio egotismo adolescenziale mi fa sentire "migliore". Le compatisco perchè la loro educazione ordinaria non prevede l'ascolto di canzoni da grandi con certe parole rivoluzionarie. 

Ma che ne sanno loro. E invece ero lì, col mio cucchiaio in mano, a perseverare nel silenzio. Non mi ha mai dato emozioni semplici, Faber, mai fino all'utimo. Ma tra le tante cose per cui dovrei ringraziarlo c'è il modo in cui mi ha sempre fatta sentire orgogliosa di mia madre. Anche in silenzio.

 

La foto di Il nostro De André è del grande Guido Harari

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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