20191101 Nanda Fabrizio e Dori Guido Harari qg copia

A venti anni dalla scomparsa del grande cantautore, amici e lettori di Vorrei lo ricordano con aneddoti personali. La cantata anarchica dell'11 gennaio 2019, ovvero cronaca di una mattinata di due ragazze in pensione con parentesi autobiografiche.

Lunedì, 11 gennaio 2019

Ore 9.20

Dove le metto queste cornici? Mi chiede Carmela.
Non lo so. Buttale dentro lì, le rispondo quasi arrogantemente, indicando una grande scatola di plastica rettangolare che sporge da sotto il lettone, mezza piena di cose cacciate dentro alla rinfusa.
 Eli, non è questo l’approccio giusto se vuoi che combiniamo qualcosa. 
Tanto è inutile. 
Allora perché mi hai chiesto di venire ad aiutarti?
Perché io non so da che parte cominciare. 

Non è la prima volta che chiedo aiuto per cercare di organizzare un po' di ordine in quel caos che è la mia stanza e che in questa fase della mia vita riflette anche il caos che c’è nella mia testa. Non che in altre circostanze la mia stanza sia molto meglio. Comunque, a giudicare dalla faccia di Carmela quando ne ha varcato la soglia, questa deve essere una delle volte limite. Ma lei mi conosce solo da tre anni. Non sa di che cosa sono capace. 

Carmela ed io ci siamo incontrate ad una riunione di Vorrei nel 2016, quando mi sono presentata come possibile nuova redattrice della rivista, per la quale lei scriveva già da alcuni anni. Invece Antonio, il direttore, era una vecchia conoscenza. Pur non essendo scattata immediatamente la scintilla del riconoscimento interiore, non ci è voluto molto perché  ci rendessimo conto di quante affinità e differenze complementari ci fossero tra noi due. Il resto è venuto da sé. Ora mi sembra di conoscere Carmela da sempre e so che la stessa cosa vale per lei. 

Non abbiamo deciso che la mattina scrivi  e il pomeriggio ti dedichi ad attività più manuali?
Sì.
Allora hai bisogno di spazio e qui non si capisce niente. Vedrai che un po’ di ordine ti farà stare meglio.
Tanto non dura.
Adesso mi arrabbio e me ne vado. 
Ok, va bene.
Ecco, brava. Allora, tu ti occupi del letto, ma con criterio. Io cerco di liberare le altre superfici. 

La dolce Carmela sa anche essere perentoria. Mi accuccio nell’unica striscia libera, sagomata sulla mia persona, e la osservo alternare lo sguardo tra i mucchi selvaggi del tavolo e le librerie disposte su tutte le pareti,  alla vana ricerca di un po’ di posto libero.  Poi comincio a raccattare pietre perle  perline e le infinite minuzie di metallo che utilizzo per fare collane, l’ultima delle mie manie manuali per la quale ho compulsivamente speso qualche stipendio. Ce ne sono ovunque, anche sotto le lenzuola. È lì che trovo tre pacchettini vuoti, e uno chissà come ancora pieno, di biscotti Plasmon.

Oggi sono vent’anni che è morto De André,  dico cominciando a trafficare con la carta argentata del pacchettino pieno.
Lo so. Hai visto che Antonio ha chiesto a redattori e lettori di mandare un loro ricordo per "Il nostro De André"? 
Sì. 

Oggi, 11 gennaio, primo dei due 111 dell’anno e terzo palindromo di tre cifre dopo l’1 e il 10 gennaio che fanno tutti e due 101, è il giorno successivo al mio compleanno, che è anche il primo dei cinque palindromi di quattro cifre, 1001, almeno  secondo il nostro modo di classificare le date con il giorno prima del mese. I palindromi sono il mio pallino. Quando Faber se ne andò,  il 111 del 999, avevo appena compiuto 44 anni. Provai un dolore enorme e, come milioni di persone, piansi.  Per  la verità  piansi durante tutto quel 999 dei miei 44 anni. Non sempre i palindromi sono forieri di cose belle. 

Pensi di scrivere qualcosa? Mi chiede Carmela. 
Non lo so. Tu?
Io sì, ma la settimana prossima, quando torno da Imperia… ma cosa fai con quei biscotti?
Carmela ha voltato lo sguardo verso di me.  Hai fatto colazione un’ora fa! Come fai a dimagrire se mangi in continuazione? Dammeli subito. 

Carmela sta cercando di aiutarmi anche col cibo. Mi si avvicina e ubbidisco mentre penso che De André in fondo è come i Plasmon. Doni ricevuti da bambina che, passati più o meno velocemente dalla scelta inconsapevole a quella volontaria, non mi hanno più abbandonato, pur con diverse pause, anche  prolungate.  
Quando in dicembre ho comprato una confezione gigante di Plasmon col pretesto di Matt, il mio nipotino americano in arrivo per le vacanze di Natale, sapevo che a prevalere era la voglia di concedermi un piacere infantile, che da adulta ho soddisfatto diverse volte anche senza pretesti.
Quando da bambina cantavo Marinella, amavo quella fiaba triste, ma non potevo immaginare quanto il suo autore mi avrebbe presto aiutato a crescere. Per esempio facendomi riflettere, nella canzone con quella terribile parola, "puttana", e con delle frasi  "senza senso" come quella del paradiso che è al primo piano, sulla verità che dai diamanti non nasce niente mentre dal letame nascono i fiori.

Ricordi, sbocciavan le viole, intono istintivamente e Carmela si unisce all’istante, 
con le nostre parole,  non ci lasceremo mai mai e poi mai, ma come fan presto amore ad appassir le viole, così per noi… 

Mentre cantiamo decido di non analizzare  perché mi sia venuta fuori proprio quella canzone. Con l'analisi ho già dato per anni e sono arrivata alla conclusione che le pillole, i buchi, li tappano meglio. So che Carmela non la pensa così. Tra sbalzi di ottave, a cui ricorriamo secondo le necessità delle nostre rispettive corde vocali, arriviamo alla fine senza intoppi di memoria e senza guardarci. Nessuna delle due probabilmente vuole mostrare all’altra il velo umido dei propri occhi. Un brevissimo attimo di silenzio e poi sono ancora io, quasi avessi dentro  una compilation dalla scaletta sconosciuta, a dare il via ad un nuovo duetto. 

Quando hanno aperto la cella, parto e Carmela è di nuovo tempestiva nell'unirsi al canto,
era già tardi perché,  con una corda sul collo freddo pendeva Miché… 

Questa volta la struttura musicale e l’intonazione ci permettono di non viaggiare tra le ottave. Intanto il velo umido si asciuga e ci guardiamo. E’ la prima volta che cantiamo insieme ed è bello. Ed è bello soprattutto che sia capitato oggi. 
Le mie mani ora si muovono con meno indugi, mentre sono alle prese con un groviglio di auricolari, cavi e catenine per collane. Finito il Miché, con qualche intoppo aggiustato dal mutuo soccorso,  è Carmela a dare il via ed io subito la seguo. 

Non avrai altro dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare. Genti diverse venute dall’est dicevan che in fondo era uguale. Credevano un altro diverso da te ma non mi hanno fatto del male, credevano un altro diverso da te ma non mi hanno fatto del male…

Già la prima strofa fa venire i brividi. Oggi molto di più che cinquant'anni fa, o giù di lì.

Il quinto  dice non devi rubare e forse io l'ho rispettato, vuotando in silenzio le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato. Ho l’impressione che al quinto ci siamo arrivate un po’ troppo in fretta. Chissà se anche Carmela si chiede che cosa ci siamo perse per strada. Ma io senza legge rubai a nome mio, quegli altri nel nome di Dio. Ma io senza legge rubai a nome mio, quegli altri nel nome di Dio… 

Non avevamo ancora vent’anni quando io e Carmela, che ha qualche anno più di me, abbiamo smesso di essere brave cristiane. Anche questa è una cosa che abbiamo scoperto di avere in comune. Il terrore dell'inferno inculcato nella mia testa di bambina al catechismo mi tormentava.  Soprattutto al pensiero di dove sarebbe finito il mio papà, che i preti non li sopportava e a messa non ci andava, ma che mi insegnava ad amare i libri, il cinema, l'arte, la musica e l'onestà.  

Se il quinto va via liscio come l’olio non è così per i comandamenti che seguono. Eppure in tempi andati quel testamento me lo cantavo e suonavo alla chitarra senza la minima incertezza, soddisfatta  per i risultati ottenuti al costo dell’impegno smisurato con il quale cercavo di compensare le scarse doti musicali che madre natura mi aveva dato, spingendo invece sadicamente il pedale sul desiderio di possederle. Ora saranno quasi dieci anni che non prendo in mano una chitarra, anche se nella ex camera di Federico, il papà di Matt che ormai vive a Chicago da 9 anni, la mia Ibanez blu acustica è appesa ad un gancio vicina a un paio di quelle che lui non si è portato via. A madre natura ho imposto di essere più prodiga con i miei figli in fatto di doti musicali e lei ha ubbidito. 

Dovrei ricominciare a suonare la chitarra. Se mi esercito per bene in due o tre mesi recupero quello che sapevo fare.
Ti manca solo la chitarra! Non hai abbastanza cose iniziate?
Dice il grillo parlante travestito da Carmela mentre mi fa piombare sul lettone un’enorme pigna di fogli e vari materiali cartacei.  Guarda qui e seleziona quello che si può buttare piuttosto! 
Ma anche la chitarra era una delle cose che stavano aspettando!
Azzardo, ma Carmela non raccoglie.
Almeno di questi pacchi di compiti ti vorrai liberare o no?
Non lo so, magari posso tenerli come ricordo.
Non diciamo cazzate.
E per mano di Carmela i pacchi di compiti finiscono direttamente nel sacco della carta. 

Dal primo settembre 2018, con i 42 anni e 10 mesi previsti dalla legge Fornero, ed orgogliosa di aver salvato l’Italia con i miei tre anni in più di lavoro sottratti a qualche choosy bamboccione, sono in pensione. Ho insegnato inglese a modo mio, privilegiando Woody Guthrie e Bob Dylan e Bruce Springsteen e tanti altri, non solo cantautori, agli esercizi di cambiamento, riempimento, crocettamento, e pure a quelli di combinamento, dei libri di testo, a volte attirandomi anche critiche feroci. Tra i tanti personaggi, film e canzoni anglofoni con cui ho fatto lezione, non ho trascurato alcuni italiani. E così ora in giro c’è qualche annata di uomini e donne e di ragazzi e ragazze al cui patrimonio personale, non solo mnemonico, appartengono sia le otto ottave americane di Masters of War sia le 14 quartine italiane della guerra di Piero. Ho lasciato alle  future considerazioni di quegli ex alunni che avrebbero approfondito i due menestrelli decidere se De André fosse il Dylan italiano o se, come diceva “la Nanda”, fosse  il contrario.

Ti piace lo Spoon River di De André? Non al denaro né alla polvere...
Non al denaro non all'amore né al cielo, prontamente mi coregge Carmela. La polvere è di John Fante.
E già.  Chissà come, io la polvere ce l'ho sempre infilata dentro quel titolo che non mi è mei entrato in testa.
E’ uno dei miei preferiti anche se  le canzoni non le sapevo tutte a memoria. Continua Carmela.
Neanch’io. Vediamo cosa abbiamo in comune.

Quando la Nanda era adolescente, il suo professore di lettere, Cesare Pavese, le diede da leggere l’Antologia di Spoon River e lei, innamoratasene con la passione ardente di un’adolescente, la tradusse. Quando De André fece la sua Spoon River lei accompagnò il disco con due interviste, una vera a Fabrizio ed una inventata ad Edgar Lee Masters. 
Anch’io ero adolescente ai tempi dei miei primi incontri con entrambi gli Spoon River. 
E con Fernanda Pivano. In seguito, all'università, qualche suo  saggio da portare agli esami di angloamericano  c'era sempre . Nel corso degli anni l’ho anche vista più o meno ad vicino  ad eventi e concerti,  ma fu nel pomeriggio non palindromo di sabato 14 ottobre 2000 che ebbi in regalo da lei uno dei ricordi più preziosi di tutta la mia vita. Più di tre ore trascorse da sole a chiacchierare sedute vicine vicine in un salottino della sua casa milanese di via Senato. Dagli una carezza,  mi disse passando davanti ad un poster di Kerouac nel corridoio che portava al salottino. E poi i racconti del passato e quelli del presente, con quella inesauribile necessità, condivisa con il suo adorato Fabrizio,  di essere portavoce di pace. E  l’immenso dolore perché lui se ne era andato a 59 anni mentre lei a più di ottanta era ancora lì. E  le sue domande per sapere di me, dei miei amori, delle mie paure. E dei miei sensi di colpa che aveva intuito solo guardandomi in faccia. E le sue esortazioni a prendermi dalla vita tutto quello che potevo prendermi, senza recriminazioni, perché il tempo scappa via e in un attimo arrivano i rimpianti. E le sue periodiche telefonate successive a quell’incontro, che ogni volta mi lasciavano senza fiato. E poi basta perché la Nanda non può essere solo il  sottofondo di un’altra storia. 

 

20191101 Nanda Fabrizio e Dori Guido Harari

Dal libro "Fernanda Pivano. Viaggi Cose Persone". Foto di Guido Harari.

Un matto te la ricordi? chiedo.
Più o meno.
Tu prova ad avere un mondo nel cuore e  non riesci ad esprimerlo con le parole. E  la luce del giorno si divide la piazza tra il villaggio che ride e te, lo scemo che passa e nemmeno la notte ti lascia da solo, gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro… 

"Gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro". Ho sempre pensato che quelle dieci parole avessero la stessa potenza di "Si sta come d’inverno sugli alberi le foglie". 
Del mio repertorio dello Spoon River di De André quella del matto  era la canzone che mi cantavo e suonavo più spesso, forse per esorcizzare la paura della pazzia, che per anni mi avrebbe assalito periodicamente, e in modalità differenti, dopo la sua la prima comparsa nei miei 18 anni, poco tempo dopo la morte per infarto di mio padre. Improvvisamente una sera sentii bisogno di staccare la testa dal collo e di metterla sul comodino. Se ora posso, per fortuna, riderci sopra, così non era allora, nemmeno per mia madre a cui chiedevo aiuto nelle notti in cui quel bisogno diventava ossessivo.

La mia preferita era il suonatore Jones, dice Carmela. Soprattutto per quei versi su chi sa suonare ed è condannato a suonare per tutta la vita. Il mio pezzo per Vorrei lo faccio su quella canzone.
Che bello avere le idee chiare!
Non volevo essere sarcastica, ma evidentemente non ci sono riuscita.
Cosa fai, ricominci? 
No. Ho solo detto che è bello avere le idee chiare. A me non è venuto in mente niente.
Ma ci hai almeno pensato?
Un ricordo di De André non è una cosa a cui devi pensare. O ti viene spontaneo o lasci perdere. Non mi dirai che tu sei stata lì a pensare adesso mi metto a scrivere del suonatore Jones. L’idea ti è venuta per conto suo. Poi è ovvio che ci pensi. Ma prima deve scattare la molla. E a me non è scattato niente. 
Perché hai troppe cose in testa. E pensi troppo a Matt.
 

Carmela ha ragione. Anche lei lo conosce, Matt. L’ha visto nelle due feste italiane organizzate per due anni consecutivi il 29 dicembre, quando compie i nove mesi dell’anno. Matt è nato a Chicago nel 2016.  Il 29 marzo. Stessa data di nascita di mio padre, 93 anni dopo. Nell’ora in cui è venuto al mondo in metà emisfero era il 30 marzo, terzo palindromo di quattro cifre, 3003, dell’anno. Ma anche questa è una storia che non può fare da sottofondo. 

Quando io ho visto Matt per la prima volta aveva tre mesi.  Nei 17 giorni passati a Chicago me lo sono baciato e coccolato più che ho potuto. E gli ho regalato alcune canzoni italiane che cantavo per lui tenendomelo in braccio. A volte, quando piangeva, non facevo in tempo ad arrivare ad "Angiolina cammina cammina sulle sue scarpette blu, carabiniere l’ha innamorata, volta la carta e lui non c’è più”, che lui aveva già smesso e se ne stava ad ascoltarmi, incantato. Forse incantato è un tantino iperbolico, ma così mi piace credere. Di Volta la carta, numero uno della mia prima playlist per lui, volevo però che Matt avesse l’imprinting vero. E così me lo tenevo sulle ginocchia e segnavo il tempo con i piedi mentre il computer sul tavolo davanti a noi riproduceva di continuo la ripresa live al Brancaccio. Ad ogni finale strumentale del ritornello, il richiamo delle ultime note al verso  “that agony is your triumph” della ballata di Sacco e Vanzetti di Joan Baez,  mi faceva venire voglia di fargli ascoltare anche quella. Ma ho sempre desistito. Per i tre mesi di Matt un anarchico era più che sufficiente. 

A volte si può scrivere qualcosa di buono anche se un’idea non ti viene spontanea. Mi dice Carmela. So che ha ragione. 
Hai qualche consiglio?
Ho visto che tu e i tuoi ragazzi di Senzaspazio anni fa avete organizzato una serata su De André al teatro Villoresi.
Sì, era il 2 dicembre, o 212,  del 2002. Una bella accoppiata di palindromi.

Una delle prime volte che Carmela è venuta a casa mia ha notato una  locandina incorniciata appesa in sala. “Il gruppo culturale Senzaspazio in collaborazione e con il patrocinio del Comune di Monza Assessorato alla Cultura e della Fondazione De André presenta FABER  omaggio a Fabrizio De André.” A seguire l’elenco degli eventi e degli ospiti: Cristina Crippa legge De André, proiezione del film “Faber” di Bruno Bigoni e Romano Giuffrida, presentazione del cd "ed avevamo gli occhi troppo belli", realizzato nel 2001 dalla rivista anarchica “A”, un dibattito aperto al pubblico e una mostra con dischi ed altri oggetti esclusivi. A fare gli onori di casa la sottoscritta, fondatrice del gruppo Senzaspazio,  nato due anni prima, ancora senza nome, radunando dei miei ex- alunni delle medie di diverse età.

Perché non racconti di quella serata? 
Non lo so. Sentendo il tono con cui mi sono uscite quelle tre parole penso che se fossi al posto di Carmela mi manderei all’inferno. 
Ok. Allora raccontala a me. Non c’è giorno migliore di oggi.

Mi pento e penso che Carmela sia un dono, proprio come i Plasmon e Fabrizio De André. E la Nanda. E i ragazzi di Senzaspazio. 
Comincio a raccontarle di Bruno Bigoni, del fatto che in quel periodo stavo lavorando con lui su una sua sceneggiatura, di chi ci aveva messi in contatto, del perché e del percome. Le dico anche che quando io e Bruno ci siamo incontrati per la prima volta, non mi ricordavo di averlo già visto due o tre anni prima alla presentazione del suo Faber all’Astrolabio di Villasanta. Del film mi ricordavo, ci ero andata apposta, e anche di Morando Morandini, ma di Bruno, semisosia di Francesco Rutelli, non mi era rimasta traccia visiva. Forse per colpa di Rutelli.

Lavorando insieme si era creata una certa confidenza con Bruno e l’idea organizzare una serata su De André era una bellissima occasione per Monza e per i ragazzi del gruppo, che allora avevano dai 15 ai 22 anni. Bruno ha contattato Paolo Finzi per la rivista anarchica e Mariano Brustio per la mostra. Io ho contattato Annalisa Bemporad, l'assessore alla Cultura di Monza, che allora aveva  una giunta di centro-sinista, Cristina Crippa del teatro dell'Elfo e la Fondazione De André. L'assessore ci ha dato il suo sostegno e quello del comune, Cristina ha preparato un bel percorso tra De André, Boris Vian e Georges Brassens,  e Dori Ghezzi ha voluto che sulla locandina  ci fosse una  famosa foto di Fabrizio  scattata da lei. Avevamo invitato anche la Nanda, che però non stava bene. A tutto il resto dell’organizzazione ha pensato Senzaspazio. Allora non avevamo ancora il nostro logo, il vortice di una scala visto dall'alto.   
Scusa se ti interrompo ma a chi è venuto in mente il nome senzaspazio? 
A me. 
Certo che si spiegano tante cose…
Lo so.
Continua.
Una delle cose più belle per me è stato vedere quanto si sono dati da fare i ragazzi e con quanto interesse si sono avvicinati a De André. Quel giorno io avevo una  febbre da cavallo e una tosse peggio della pertosse.  Quando la sera sono salita sul palco ero imbottita di tachipirina. La visione della sala dal palco era impressionante. C’era gente in piedi dappertutto. Non so se la 626 esistesse già, comunque se esisteva ce ne siamo fregati. Come avrebbe fatto Faber.
E avete ripreso la serata?
Certo, ha ripreso Andrea.
Carmela non ha mai visto nulla dal vivo di Senzaspazio. Da qualche anno siamo fermi, un po’ per le mie energie calanti assorbite quasi totalmente dalla scuola, un po’ per il rinnovo del ciclo vitale in cui sono impegnati gli ex-ragazzi. Conosce però i pilastri del gruppo, Andrea, Dino e Federica, che vengono alle feste di Matt del 29 dicembre con i loro bimbi piccoli.   Ai tempi ce la siamo guardata diverse volte, orgogliosi di quello che eravamo riusciti a fare e poi ce ne siamo dimenticati. 
E tu ce l'hai?
No, ce l'ha Andrea. Ma chissà dove.
Andrea è il mio alter ego. Le nostre  stanze sono sempre state in competizione. 
Digli di cercarla. 
Un'altra volta Carmela ha ragione, quella registrazione  Andrea la deve ritrovare. E deve tirarci fuori  uno dei montaggi che solo lui è capace di fare. Intuitivo, artistico, preciso. L’altra faccia della medaglia di Andrea. Per il ritorno del gruppo Senzaspazio. 

 

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Fronte del pieghevole, uguale alla locandina, della serata FABER organizzata dal gruppo Senzaspazio nel 2002

Ore 11.45

Ci riavviamo verso la mia stanza, dopo una ventina di minuti di pausa caffè, per Carmela con sigaretta, per me con tre biscotti Plasmon che mi ha concesso per pietà. In cucina, manco a dirlo, ci ha portato Don Raffaé, un altro dei miei vecchi cavalli di battaglia e tra i primi De André che ho trasmesso a mia figlia Gaia. In casa da qualche parte c’è ancora una videocassetta di una ventina d’anni fa in cui è lei, allora tredicenne o quattordicenne, a cantare quant’è bello o café, mentre io l’accompagno alla chitarra.
Come me, Carmela confidava in una bella cantata della storia del brigadiero Pasquale Cafiero a Poggio Reale dal 53, ed il massacro che invece gli abbiamo inflitto ci porta  a riflettere, come spesso ci capita di fare,  di quanto sia sempre meno stabile anche quel patrimonio antico che credevamo la memoria salvaguardasse con cura. Allo stupore di  quando ci sembrava impossibile che in testa ci fossero ancora intatte poesie e canzoni non sentite magari da decenni, ora è subentrata la paura che quello stupore non si manifesti più. 

E se considerassimo il bicchiere, anzi la tazzina, mezza piena? Oggi la positività di Carmela è sorprendente. Non sembra neanche lei. Invece di badare a quello che non ci ricordiamo, facciamo l’operazione inversa e rallegriamoci per tutto quello che ricordiamo. 
Oookey
, le rispondo sorridendo e usando la stessa inflessione del mio piccolo Matt, mentre rientriamo nel mio bunker. 
C’è molto meno “mess” di prima, no? Annuisco e sorrido, mentre penso alla interminabile risata di gusto che si è fatta Carmela al telefono, quando le ho descritto la prima reazione di Matt  in camera mia. Si guardava in giro e poi, indicando col ditino i punti più critici,  ripeteva “mess”. Traduzione: casino. Ora la parola mess è entrata nel vocabolario di Carmela. 
Se ci diamo da fare, per la una e mezza abbiamo finito. Non sarà un ordine strutturale, ma è già qualcosa. Io parto col pavimento, tu continua con il mensolone, mi dice indicando il più basso di quelli ad angolo che sovrastano il mio letto e che, essendo il più vicino ricettacolo di quello che c’è sul letto, è lo scaffale più incasinato della stanza. 

Prima di ubbidire mi soffermo a contemplare l'ordine della grande scatola di plastica, ora piena, che sta  per essere infilata sotto il letto.  Anche il tavolo è una meraviglia con poche cose sistemate in maniera sensata. Un mucchietto di disegni e schizzi attende la ricomparsa di una grande cartelletta rossa ancora dispersa. Accanto, due scatole di latta, una a tre piani e una a due, di pastelli acquarellabili. So che Carmela, se per caso  le ha aperte e ne ha sollevato gli strati, non si è stupita della precisione  con cui le matite, anche quelle ormai ridotte a muccini di pochi centimetri, sono ordinate per gamme di colori. Lei sa che l’altra faccia della medaglia ce l’ho anch’io. 

Eli, guarda qui! Di tutti libri di che mi potevano capitare davanti al naso in questa stanza guarda che cosa ho trovato! Chinandosi per raccogliere alcuni indumenti da terra lo sguardo di Carmela è passato davanti al penultimo scaffalino dal basso di un benno ikea e lì si è fermato. Ora ha in mano due libri. Veramente uno è un cofanetto bianco che contiene custodia e cd dell’ultimo concerto di Fabrizio e un volume, intonso, con tutti i testi. L’altro libro, tutt’altro che intonso, oltre ai  testi contiene spartiti, accordi e piccole immagini della tastiera della chitarra con i pallini neri ad indicare le posizioni delle dita. 
Ogni coincidenza ha un’anima, dico istintivamente prendendole di mano l'antologia con gli accordi. 

La frase non è mia, né di De André. E’ il titolo il un libro comprato una domenica di fine ottobre, ad una rassegna letteraria dove Carmela era riuscita a trascinarmi. Voleva che anch’io conoscessi il giallista di cui lei si divora i romanzi come io la nutella. Mentre lei era in coda per l’autografo del suo beniamino, dal banco di vendita in fondo alla sala il titolo di un piccolo elegante Sellerio blu stava inesorabilmente esercitando il suo effetto calamita verso di me. Prima ancora di prenderlo in mano l’avevo già pagato. A scatola chiusa. Ora del suo autore sto pian piano assaporando un libro dopo l’altro. 

Certo che ti è piaciuto proprio quel libro. Pensavo che potresti…. Carmela sta parlando ma non ho idea di che cosa stia dicendo.  Eli… Eli!
Cosa?  riemergo dall'isolamento  che mi coglie ogni volta che mi passa per la testa una folgorazione improvvisa.
A cosa stavi pensando?
Che tutti i capitoli di "Ogni coincidenza ha un’anima" sono introdotti da un verso in francese de "Les passantes" di Brassens, che piano piano compongono tutta la canzone. 
Bella coincidenza! 
Sì. Ma non è l’unica. Il personaggio che è al centro dell'indagine molto particolare  del libro è un vecchio  malato di Alzheimer ormai afasico...
E no!  Se questa è l’altra coincidenza, non ti ascolto neanche!
Lasciami finire, non è ai nostri buchi di memoria che pensavo. Quel personaggio, che era stato  un umanista e un letterato dalle conoscenze straordinarie, compare  dal vivo solo in due brevi apparizioni nell'ospizio in cui vive. E sono quasi certa che prima dell'epilogo il suo nome di battesimo non venga mai detto...  quasi come se le persone che ne parlano non fossero degne di pronunciarlo. Quando alla fine quel nome compare, è per voce dell'unica persona a cui spetta il privilegio di quell'intimità.  E sai qual è il nome?
Fabrizio?
Esatto. Fabrizio. 
Curioso, davvero. Sarà stato voluto o casuale?
Non lo so. Io punterei sulla casualità, anche se poi lo scrittore magari se n'è accorto.  Pensa che anima ci sarebbe in  quella coincidenza, nel capitolo in cui finisce la canzone di Brassens compare il nome di battesimo del protagonista del libro e quel nome è Fabrizio. 
E tu te ne sei accorta adesso?
Sì. Ma non è strano per me.  Ormai quella storia è mia e so che la mia mente fa  quello che vuole e quando vuole di tutto quello che in quache modo è entrato a far parte di me.  Basta solo la coincidenza giusta. In fondo i libri, come le canzoni, i quadri, le immagini... non si sottrggono al destino di diventare di coloro con i quali entrano in contatto e di assumere nuove e inatteste caratteristiche. Se oggi non fosse stato l'oggi che io e te stiamo vivendo, probabilmente non avrei mai notato né la relazione tra Brassens e il nome Fabrizio, né come il pudore nel pronunciare quel nome renda onore al personaggio del libro. E, anche se forse solo per me, a Fabrizio De André. 

Carmela apre il libro bianco e comincia a leggere le “sue” passanti di Fabrizio. Io la ascolto pensando alle "mie" passanti e ai miliardi di passanti diverse immaginate per quelle identiche parole.

Mi presti questo cofanetto?
Certo.

Carmela va in ingresso per metterlo nella borsa, mentre io sfoglio il mio vangelo secondo De André.  Non conosco tutte le canzoni e non tutte le pagine sono vissute. Ma in alcune ci sono annotazioni a matita di mio pugno, che sostituiscono gli accordi originali con degli altri. Una volta ero capace di cercare le tonalità più consone alla mia voce. "Andrea s'è perso e non sa tornare" passa da re do sol a sol fa do. Sopra le parole di Geordie i miei  accordi a matita cominciano sostituendo un la minore con un do diesis minore. Ora come ora  non saprei nenche dove mettere le dita.

Dai metti via quel libro e  lavoriamo, Carmela è ritornata. 
Oookey. Ma cantiamo ancora.
Marinella?
propone. Forse vuole andare sul sicuro dopo la storia del malato di Alzheimer. 
Dai, intona tu.
Questa di Marinella è la storia vera, parte lei e l'unisono è immediato,
che scivolò nel fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella.  Bianco come la luna il suo cappello, come l’amore rosso il suo mantello. Tu lo seguisti senza una ragione…
Guarda che abbiamo saltato qualcosa, interrompo.  
No, non abbiamo saltato niente. 
Ti dico di sì. 
Ricominciamo, questa volta ognuna per conto suo a bassa voce. Per tre volte consecutive bianco come la luna è il suo cappello è l’unica frase che mi viene. Lo stesso vale per i tentativi di Carmela.
Hai visto? mi dice.
Hai visto cosa? Vorrai pure che Marinella e il principe si incontrino prima che lei lo segua...
Forse hai ragione. 

Ho ragione sì. Tutte e due ricominciamo  in solitaria. Niente da fare. Il risultato è sempre il cappello bianco. 
Io adesso guardo sul libro. Dico.
E ci arrendiamo così?
Io sì. Ma se vuoi me lo tengo per me. Prendo il vangelo dal benno e guardo l’indice. Il testo di Marinella è a pagina 151, stesso palindromo del giorno di nascita di Gaia. Ci arrivo sfogliando solo gli angoli alti con i numeri delle pagine. 
Allora? Hai deciso? chiedo  prima di aprire.
Va bene, cedo.
Apro e basta un millesimo di secondo per porre  rimedio all'ennesimo scherzo della mente di questa mattinata particolare. Ed  anche per ricordare che il principe non era un principe bensì un re, seppure senza corona e senza scorta. Ma Marinella,  nella mia mente, ci sta dall'infanzia e alle bambine dei miei tempi i principi piacevano più dei re. 
Sola, suggerisco senza cantare,
senza il ricordo di un dolore, dice Carmela dandosi una manata sulla fronte.
Chiudo il libro. Ci sorridiamo e ripartiamo, certe che  questa volta non ci saranno intoppi. Certe che ritroveremo, almeno in Marinella, quello stupore  antico che avevamo paura fosse  scomparso per sempre.  

... Sola senza il ricordo di un dolore, vivevi senza il sogno di un amore. Ma un re senza corona e senza scorta bussò tre volte alla tua porta. Tono su. Bianco come la luna il suo cappello,   come l’amore rosso il suo mantello, tu lo seguisti senza una ragione come un fanciullo segue un aquilone. Tono giù.  E c'era il sole e avevi gli occhi belli, lui ti baciò le labbra ed i capelli, c'era la luna e avevi gli occhi stanchi,  lui pose le sue mani sui tuoi fianchi. Furono baci e furono sorrisi, poi furono soltanto i fiordalisi, che videro con gli occhi delle stelle fremere al vento e ai baci la tua pelle. Tono giù. Dicono poi che mentre ritornavi....

 

20191101 ed avevamo gli occhi troppo belli

Copertina del cd ed avevamo gli occhi troppo belli

 

20191101 dori ghezzi testo

Testo di Dori Ghezzi in apertura del libretto che accompagna il disco.

 

20191101 ed avevamo gli occhi troppo belli internoUna delle pagine interne del libretto.

20191101 interno volantino senzaspazio serata de andréInterno del pieghevole della serata FABER organizzata a Monza nel 2002. 

 

20191101 film faber a villasanta 2000

Fronte del pieghevole per la proiezione di Faber a Villasanta

 

La foto di Il nostro De André è del grande Guido Harari

 

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Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

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