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 Due articoli pubblicati da Articolo21 e da Espresso sfatano un po' di miti riguardo i grandi musei internazionali e di coloro che li vorrebbero “grandi macchine da soldi”. I musei sono prima di tutto un grande strumento per lo studio e la diffusione della cultura e hanno bisogno di sovvenzioni, pubbliche e private.

 

Nessun grande museo è “una macchina da soldi”. Tanto più se vuol fare soprattutto cultura

 di Vittorio Emiliani

Uno degli slogan oggi più in voga per i nostri musei è questo: vanno sprovincializzati, vanno gestiti da manager, vanno resi redditizi, “macchine da soldi” più brutalmente (come disse tempo fa Matteo Renzi per gli Uffizi). Soldi, soldi, soldi, come in un famoso musical di Garinei e Giovannini, nel quale si citavano anche i romaneschi “papabraschi”, cioè i pagamenti a pronta cassa, fra Sette e Ottocento, della famiglia di papa Pio VI Braschi, promotore fra l’altro di Palazzo Braschi e del Museo Pio Clementino, i futuri Musei Vaticani.

Chissà se sono più “provinciali” i nostri musei tradizionali o quanti inneggiano alla loro sprovincializzazione che temo voglia dire commercializzazione, aumento sostenuto degli ingressi, degli incassi e quindi dei profitti. Si potranno anzitutto “gonfiare” sedi come la Galleria Borghese o la Reggia di Capodimonte per stiparvi altre schiere, masse di turisti paganti? Temo di no. Ma i nostri “sprovincializzatori” lo sanno che i mega-musei da loro citati ed esaltati non danno profitti? Lo sanno che al contrario richiedono sovvenzioni, pubbliche e private? Vediamo allora un po’ di dati reali.

Una espressione allusiva che gira molto di questi tempi riguarda il Metropolitan Museum of Art di New York ed è la seguente: “Il Metropolitan da solo incassa più di tutti i Musei italiani”. Lasciando capire che esso frutta dei bei profitti a chi lo gestisce. Una balla delle più sonore. Vediamo i dati dell’Annual Report 2014. Gli ingressi rappresentano soltanto il 10,5 % degli introiti, il merchandising il 19,57, ristoranti, parking, garage, auditorium, ecc. il 7,6. Pertanto le entrate squisitamente commerciali  qui si fermano e costituiscono nel complesso il 37,7 % del totale. E il resto dei costi, come viene colmato?
Con entrate non commerciali, pubbliche e private: un 7,3 % è formato da sovvenzioni della Città di New York per guardiania, manutenzioni, riconoscimento di pubblico servizio, ecc. Poi ci sono donazioni e sovvenzioni di vario tipo molto cospicue, pari al 21,4, e contributi dei soci pari all’8,06 %. E i conclamati profitti? Zero via zero. Del resto i musei dovrebbero fare anzitutto cultura, non essere slot-machines.

Ma vediamo cosa succede all’altro mega-museo mitizzato in questi anni dai nostri “sprovincializzatori”, il Louvre. Il suo amministratore, Hervé Barbaret, è stato invitato tempo fa a Roma affinché spiegasse come si gestisce un museo di successo. Ecco l’impeccabile esordio: “I musei sono imprese culturali e scientifiche, non possono essere considerati con criteri meramente economici ed è evidente che la mano pubblica deve essere sempre presente e in modo massiccio”. Il Louvre, infatti, ha un bilancio di 200 milioni di euro l’anno, di cui una metà arriva dallo Stato e l’altra dalla vendita dei biglietti, dai vari servizi e, non ultimo, dai mecenati”. Che in Francia sono numerosi, generosi e debitamente incentivati. Anche qui, profitti culturali molti, profitti economici zero via zero. Pur avendo attrezzato una superficie espositiva enorme. Con seri problemi di controllo su episodi di bullismo, di danneggiamento, ecc.

Un altro slogan prediletto dai nostri “sprovincializzatori”, spesso dilettanti, è il seguente: “I nostri Musei sono troppi, alcuni incassano pochi euro al giorno, dobbiamo ridurli di numero”. Forse basterebbe renderli gratuiti. Fra l’altro la politica seguita dall’attuale governo (?) dei beni culturali è quella delle “domeniche al museo”, con le quale sta dimostrando una cosa: che gli italiani vanno ai musei essenzialmente quando sono a ingresso gratuito. Il contrario esatto del “mettere a reddito i musei”, di “far fruttare i musei”. Schizofrenia? Un po’ sì, francamente. Il Regno Unito, pragmaticamente, ha scelto sull’onda di una tradizione antica la gratuità dei grandi musei (si pagano soltanto le mostre) riorganizzando a fondo l’offerta turistica. Ha cioè ritenuto il turismo culturale un indotto economico che può venire fortemente accresciuto dalla gratuità di musei belli, ordinati, attraenti, con servizi aggiuntivi funzionanti. E i risultati sembrano dar loro ragione.

I servizi aggiuntivi. Al Metropolitan Museum come al Louvre (ecco invece una lezione tanto chiara quanto trascurata) l’area commerciale presenta incassi decisamente strepitosi rispetto alla miseria di quelli italiani, anche quando gli ingressi – per esempio del Colosseo – ammontano a svariati milioni d’anno. Purtroppo in un anno di governo il ministro Franceschini non è riuscito nell’impresa di emettere le nuove linee-guida per l’appalto delle concessioni di servizi museali aggiuntivi da ben sei anni prorogate contro tutte le regole, nazionali ed europee. Mentre sta riuscendo a dissestare la struttura di un Ministero che andava “ricostruito” con saggezza e competenza. Ma le concessioni in prorogatio dei servizi fruttano, quelle sì, dei bei profitti ai privati e assai poco allo Stato. E chi le schioda?

NB: ho provato a inviare letterine, brevi, di precisazione coi dati essenziali del Metropolitan e del Louvre, ai maggiori giornali dopo che essi aveva dato grande risalto agli ingressi e agli incassi alludendo a chissà quali profitti. Non ne è mai uscita neppure una riga. Viva il pluralismo dell’informazione.

Tratto da

articolo21

 

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I musei italiani sono un affare solo per i privati

Bookshop, visite guidate e gadget: lo Stato incassa solo briciole dai servizi aggiuntivi. Ma il ministro ora vuole cambiare tutto. Ecco come

di Paolo Fantauzzi e Francesca Sironi

 Fila all'ingresso degli Uffizi Gennaio: il mese delle grandi speranze. A giorni il ministro Dario Franceschini dovrebbe rendere noti gli strumenti con cui intende districare uno dei grovigli più spinosi del suo mandato: il gomitolo gordiano dei servizi aggiuntivi, le attività che ruotano attorno a monumenti e musei - dalle visite guidate ai libri, dalla ristorazione alla prevendita dei biglietti online - affidate in base a contratti scaduti da anni e prorogati o rappezzati fino ad oggi. A beneficio di pochi privati. E spesso a discapito del pubblico.

Il ministro si è deciso ad aprire queste finestre per avviare il tanto agognato new deal della “valorizzazione”, e promette (come d’altronde quasi tutti i suoi predecessori) di mettere mano alla giungla di ricorsi e rinvii in cui si sono ossidati i rapporti fra soprintendenze e imprese. Fra i pochi che ci guadagnano dall’attuale sistema, infatti, di certo non c’è lo Stato. Le aziende che noleggiano audioguide o vendono t-shirt di Leonardo nel cuore dei luoghi della cultura hanno incassato dal 2001 più di mezzo miliardo di euro. Grazie a una generosa ripartizione mai ritoccata, al ministero hanno versato meno di 75 milioni. Neppure il 15 per cento.

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Dell’anomalia si sono accorti in parecchi: Corte dei conti, Antitrust, giudici amministrativi. Ma nulla ha impedito fino ad oggi che questa ricchezza si concentrasse nei bilanci di pochi. Società quali il gruppo Civita (che fa capo a Luigi Abete e Gianni Letta), Electa-Mondadori e Coopculture (affiliata alla rossa Lega delle cooperative) si spartiscono alcune delle principali cornucopie turistiche nazionali, come il Colosseo o gli scavi di Pompei. Dietro la triade politicamente corretta c’è poi una selva di soggetti grandi e piccoli che da Trieste a Reggio Calabria seguono ricami ogni volta diversi, rendendo impossibile comporre un quadro nazionale.

SOTTO IL SEGNO DI CONSIP
«Voglio trasparenza assoluta. Dobbiamo finirla con questi monopoli mascherati», batte i pugni Franceschini presentando a “l’Espresso” la sua idea di riforma: «Trovo assurdo che lo Stato non partecipi direttamente alla gestione della parte più redditizia dei musei. È un tema su cui stiamo lavorando dall’inizio del mio mandato e su cui non mi rassegno. Penso si debba tornare, almeno in un’opzione di scelta, alla titolarità pubblica». Il modello è la Francia, dove una società statale, la Rmn (Réunion des Musées Nationaux) compete con i privati per aggiudicarsi castelli e gallerie. L’opzione parigina sarebbe resa possibile in Italia proprio dal nuovo accordo, atteso a giorni, attraverso il quale verranno selezionate le aziende che si occuperanno dei servizi di base (pulizie, manutenzione) e delle attività rivolte ai visitatori. E pur considerandola «non ancora pronta», Franceschini ha già deciso quale sarà la pedina che rappresenterà lo Stato alla partita: Ales, una società dal passato tormentato contro cui gli operatori di mercato sono già pronti a dichiarare guerra.
 
La nouvelle vague statalista dei beni culturali passa anche dalla struttura chiamata a elaborare criteri e contenuti delle nuove gare. Il compito è stato affidato alla Consip, la centrale d’acquisti per la pubblica amministrazione. La discesa in campo artistico dei burocrati del risparmio è dipinta dagli amanti del Rinascimento come la Golconda di Magritte: una calata dal cielo di uomini in nero, compratori di matite e contrattatori di pulizie inadatti a giudicare ciò che è meglio per il nostro patrimonio. Alle critiche i “signori con la bombetta” ribattono snocciolando promesse iperboliche: «È il progetto più bello e importante dei nostri 18 anni di storia», afferma entusiasta l’amministratore delegato di Consip, Domenico Casalino: «Il nostro obiettivo è far esplodere il fatturato dei monumenti dagli attuali 380 milioni stimati a livello nazionale a due miliardi e mezzo nel 2017». Le nuove gare, assicura, attrarranno società straniere e sapranno resistere ai ricorsi, a differenza di quelle bandite nel 2011 con nuove linee guida costate 200mila euro solo di consulenze e impallinate dai Tar di mezza Italia. Non sarà la sola apertura alla globalizzazione delle nostre bellezze: il governo ha appena fatto pubblicare sul settimanale “The Economist” il bando per la selezione di 20 super-manager di caratura internazionale per altrettanti super-musei nati per decreto poco prima di Natale (fra i quali ci saranno poli come gli Uffizi, Brera, la Reggia di Caserta). 

SPRECO CAPITALE
L’annunciata rivoluzione non sarà impetuosa: per avere risultati concreti bisognerà aspettare la primavera del 2016. Un anno almeno sarà necessario, dicono da Consip, per selezionare le aziende e poi permettere ai soprintendenti di elaborare i progetti, pubblicare i bandi, fronteggiare eventuali ricorsi... Potrà quindi sonnecchiare ancora per un po’ anche Roma, caso emblematico dei grovigli arrugginiti rappresentati oggi dai servizi aggiuntivi. Nella Città eterna, che ogni anno richiama oltre 12 milioni di visitatori, lo Stato racimola solo le briciole dal tourbillon di acquisti culturali. Nel 2013 fra visite guidate, merchandising, prenotazioni, spuntini e caffè, monumenti e musei statali hanno incassato oltre 17 milioni di euro. Introiti virtualmente balsamici per le finanze esangui del Mibact, ma finiti quasi tutti nelle tasche dei privati: 15 milioni sono rimasti ai concessionari. Il Colosseo, icona universale dell’antica Roma, è anche l’emblema del suo paradosso, l’incapacità di farsi ricca col proprio patrimonio: otto milioni infatti sono stati trattenuti dai concessionari e solo 1,2 sono andati alla soprintendenza. Appena il 13 per cento, una delle quote più basse in Italia fra i grandi catalizzatori di presenze.

Non solo. Per quanto strano possa apparire, da audioguide e visite guidate (che solo nell’Anfiteatro Flavio valgono tre milioni l’anno) alle casse pubbliche non finisce nemmeno un centesimo. La ragione? L’accordo coi privati non prevede royalties per queste voci. Come contropartita, la Soprintendenza archeologica ha ottenuto un servizio di guardaroba gratuito in quattro musei e visite istituzionali in tutte le lingue quando ci sono ospiti di riguardo. Non proprio lo stesso peso, forse, sulla bilancia.

Si resta interdetti anche all’ingresso della Domus aurea, la meravigliosa dimora di Nerone per il cui ripristino lo Stato ha speso 18 milioni di euro e ora chiede aiuto sul Web ai cittadini in modo da ottenere i restanti 31 milioni necessari. Oggi che i turisti arrivano a frotte e potrebbero contribuire alla rinascita, la soprintendenza incassa soltanto quattro euro su 12 di ogni biglietto strappato. Così a brindare dell’avvenuto restauro, oltre a tutti gli appassionati, sono soprattutto i concessionari: la berlusconiana Electa-Mondadori e la rossa Coopculture, a dimostrazione che nella capitale le larghe intese non sono una novità, visto che l’affidamento risale al 1997 e dal 2009 va avanti a colpi di proroghe.

PARADOSSI NAZIONALI
«Nessuno però considera gli investimenti che i privati devono sostenere ogni anno per le strutture e la promozione nei musei», sostiene Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, l’associazione di Confindustria che riunisce gli operatori del settore: «Noi svolgiamo servizi che lo Stato non è in grado di fare». In ogni caso, non è detto che debba andare sempre come a Roma. Da Pompei, ad esempio, al ministero va oltre un terzo dei proventi: la biglietteria della città sepolta frutta 20 milioni di euro l’anno e ai privati resta solo il 7 per cento (uno dei tassi più bassi di tutta Italia), gli incassi delle audioguide vengono ripartiti a metà, mentre caffetteria e ristorante pagano un canone mensile da 37 mila euro. Quasi il triplo di quanto versa Electa per gestire i bookshop del cuore archeologico di Roma, che pure fruttano cinque milioni l’anno grazie a siti deluxe quali il Colosseo e i Fori. Oltre alla percentuale sui ricavi, infatti, a volte le aziende pagano pure un contributo stabile. A Venezia, per il circuito che comprende le Gallerie dell’Accademia, Ca’ d’Oro e Casa Grimani, alla soprintendenza viene riconosciuto un quarto degli introiti e un assegno fisso di 125mila euro all’anno. Come a Brera. 

Da Napoli a Venezia i confronti possono apparire paradossali. E non sono i soli. Gli Uffizi, nonostante la mole assicurata di turisti e profitti, trattengono solo il 14,2 per cento dei ricavi e riconoscono ai privati il 25 per cento degli incassi da biglietteria (il massimo, per legge, è il 30). Al Cenacolo di Milano, al contrario, la soprintendenza trattiene il 90 per cento dei guadagni d’ingresso e ben il 44,6 delle vendite di poster, calamite e riproduzioni dell’Ultima Cena. Significa che lo Stato nel 2013 ha ricevuto 725mila euro su 1,6 milioni fatturati intorno al capolavoro di Leonardo, mentre dal porto romano di Ostia antica, che ha incassato poco meno (un milione), ne sono arrivati appena 92mila: il 9 per cento.

Se nella capitale non si riesce a ottenere di più, ancora meno è riconosciuto allo Stato per la conservazione di una delle più alte testimonianze del Rinascimento: ad Arezzo solo un euro ogni 20 “guadagnati” dagli affreschi di Piero della Francesca nella Basilica di San Francesco va alle casse pubbliche. Il resto rimane ad un’associazione d’imprese composta da Mosaico, Munus e da una cooperativa locale. Munus è una società di Alberto Zamorani, l’ex manager statale coinvolto nel ’92 in Mani Pulite ed è detenuta al 100 per cento dalla stessa Mosaico, i cui proprietari risultano Giulia e Giovanni Zamorani.

CHI TIENE I CONTI?
A chiedere spiegazioni su questo rebus di spettanze e contributi, si ottiene sempre la stessa risposta: «È quello che prevede il contratto». Il riferimento è però magari a rapporti ingessati da un decennio. Quando si è trattato di prorogare lo status quo, poi, lo Stato si è dimostrato spesso disponibile ad andare incontro ai privati. Raro il contrario.

Nel 2003, all’atto di rinnovare il contratto firmato quattro anni prima, i gestori della biglietteria della Reggia di Caserta chiesero aiuto alla soprintendenza: i visitatori calavano e non erano più sostenibili le condizioni pattuite. La percentuale riconosciuta all’azienda fu così più che raddoppiata e portata dall’11 al 25 per cento. Nel 2009, a causa dell’emergenza rifiuti, anche gli altri concessionari ottennero uno “sconto” che tuttora consente loro di versare il 15 anziché il 25 per per cento degli incassi. Il principio non pare essere reversibile: nelle ultime stagioni i proventi sono tornati a salire (quasi due milioni di euro al botteghino dal 2010 in poi) ma la ripartizione non è stata ritoccata. «È vero, bisognerebbe rivedere le percentuali ma in attesa della riforma siamo tutti nel limbo», ammette il soprintendente Fabrizio Vona.

LA SCOMMESSA DEI PICCOLI
Nelle realtà marginali, dove non ci sono appetiti da soddisfare, capita che i grandi nomi non nutrano alcun interesse alla partita. Così ci si arrangia come si può. Con risultati magrissimi, come nel caso dell’archeologico La Civitella, a Chieti, un museo di nuova generazione con tanto di laboratorio e auditorium per conferenze. Quando fu inaugurato, una quindicina d’anni fa, richiamò 20 mila visitatori. Poi è scivolato ai 6 mila attuali (di cui un migliaio appena paganti). Non c’è da stupirsi, dunque, se nel 2013 l’accordo con la libreria cittadina per il bookshop ha fruttato appena 30 euro e 9 centesimi.

Viste le cifre così modeste, più che far cassa l’obiettivo può diventare allora solo quello della legge Ronchey che nel 1993 ha istituito i servizi aggiuntivi: ampliare la fruizione del patrimonio culturale. È il progetto del Molise, dove il direttore regionale Gino Famiglietti ha affidato la gestione di scavi e musei a una cooperativa di laureati under 40: la Memo cantieri culturali, formata da archeologi e storici dell’arte, che paga un canone agevolato di 3400 euro all’anno, un quinto dell’ultimo incasso realizzato. «La scommessa non è fare più soldi, perché è impensabile riuscirci coi luoghi minori», spiega Famiglietti, «ma aumentare i visitatori creando un indotto per un turismo che non sia mordi e fuggi. E dare la possibilità di svolgere questo lavoro a chi ha studiato per farlo ma raramente ci riesce».

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