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La relazione per il primo incontro della stagione 2010 di Novaluna,
"Nella rete dell’informazion"

Il primo appuntamento per gli incontri di Novaluna di quest'anno è stato con Pasquale Barbella, direttore creativo fra i più noti in Italia e nel mondo e generoso collaboratore di Vorrei per cui cura la rubrica "Dizionario eretico".  Per sua gentile concessione possiamo riproporvi il testo presentato al Binario7 di Monza. Molto utile per capire meglio i meccanismi della comunicazione pubblicitaria e i suoi sviluppi, dalle velleità artistiche dei primordi italiani, alle sofisticatissime tecniche di marketing importate dagli Stati Uniti. Sempre ricordando che - come la pizza, l'arte, la politica - la pubblicità non è di per se nè buona nè cattiva, tutto dipende da chi e come la si fa. (AC)

 

Q

uando, secoli fa, arrivai a Milano dalla Puglia in cerca di lavoro, insieme a centinaia di migliaia di altri giovani disoccupati, non avevo le idee molto chiare sul mio futuro. Ma avevo fiducia in me. Pensavo: «Scrivere mi viene facile e mi piace. Prima o poi mi guadagnerò il pane scrivendo.»

Ora forse non è più così automatica l’equazione tra scrivere e sopravvivere. Ma allora, negli anni Sessanta del boom, tutto era, o sembrava, possibile. Alla pubblicità non arrivai subito – anche perché non ne sapevo nulla, e non m’incuriosiva né mi attraeva. Semplicemente, la ignoravo. Miravo invece alle case editrici.

Dopo un anno d’impiego come istitutore-docente in un collegio di Brescia, fui assunto alla Mondadori. Mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Era quello che volevo. Ed ero pronto a fare qualunque cosa mi si richiedesse di fare. Volevo mettermi in luce. Scrivendo. Col sogno di finire, un giorno, in qualche redazione.

A quei tempi il telefono non era invasivo come oggi, e la posta elettronica non c’era neanche nei libri di fantascienza. Per comunicare a distanza, si scriveva. E gli italiani, che ora sono tutti dei gran telefonisti, allora erano dei grafomani incalliti. Ogni mattina, i portalettere scaricavano tonnellate di posta al n. 20 di Via Bianca di Savoia, la sede storica della Arnoldo Mondadori Editore. Ogni scusa era buona per scrivere alla Mondadori. E il vecchio Arnoldo esigeva che si rispondesse personalmente e gentilmente a tutti – anche agli psicopatici.

Io ero uno degli addetti alle risposte. Calcolo di aver scritto fra le 60 e le 70.000 lettere nei quattro anni della mia permanenza nella casa editrice. Ma già a metà del percorso era cominciata la mia insofferenza. Non per il lavoro in sé, che mi piaceva, ma per la mancanza di prospettive. Mi sentivo capace di misurarmi con qualcosa di più complesso, e meritevole di guadagnare di più; ma non vedevo, all’interno dell’azienda, sbocchi concreti. Avevo mitizzato il grande tempio dei libri e delle riviste, e ne ero deluso. Decisi di guardarmi intorno, alla ricerca di un’alternativa.

All’epoca si faceva un gran parlare di “nuove professioni”. Ero tentato dalle “nuove professioni”, ma non avevo idea di cosa fossero. L’illuminazione arrivò in tram. Sul 24, che prendevo mattina e sera per andare e tornare dall’ufficio, lessi un cartello che promuoveva i corsi di una scuola serale, una specie di liceo della pubblicità patrocinato dalla Campari. Mi iscrissi, scegliendo la specializzazione che mi era più congeniale: il copywriting. Non avevo mai sentito prima quella parola, ma quando mi fu spiegato che il copywriter è uno scrittore di annunci pubblicitari il mio interesse si accese all’istante. A sedurmi non era l’idea della pubblicità, fenomeno che mi lasciava indifferente, ma la parola magica writer, scrittore.

Anche allora, come oggi, la pubblicità aveva i suoi detrattori, sebbene fosse meno invasiva, petulante e fastidiosa di com’è diventata negli ultimi vent’anni. Einaudi aveva pubblicato l’edizione italiana di un libro intitolato I persuasori occulti, di un certo Vance Packard. Chi aveva letto quel libro, o ne aveva sentito parlare, si era fatto della pubblicità un’idea demoniaca. Packard sosteneva che i pubblicitari usavano stregonerie per fare il lavaggio del cervello alla gente. Una di queste stregonerie consisteva nell’introduzione di un fotogramma pubblicitario, uno solo, praticamente invisibile a livello cosciente, in una pellicola cinematografica – per esempio l’immagine di una bottiglia di Coca-Cola nel bel mezzo di una scena d’amore o di un duello; ed ecco che lo spettatore veniva colto da una sete improvvisa e impellente di Coca-Cola, da un irrefrenabile impulso all’acquisto...

Erano pure fandonie, ma il libro di Packard diventò un bestseller mondiale. Molti, del resto, odiavano la pubblicità e proclamavano di non tenerla in alcun conto: mi accorsi però che erano proprio i più critici a esserne maggiormente influenzati.

Io imparai a considerarla con rispetto. Mi persuasi facilmente, per esempio, che era un cardine irrinunciabile della libertà di stampa e di opinione, essendo la principale fonte di finanziamento dei giornali e dei periodici. Ma non era questa la sua sola virtù. In quegli anni di grandi trasformazioni sociali, la pubblicità fu anche una maestra di modernità. Insegnò agli italiani a lavarsi i denti dopo i pasti, ad aver cura della persona, a utilizzare gli elettrodomestici, ad alimentarsi più correttamente, a viaggiare, a migliorare insomma la qualità della vita. La pubblicità non era inflazionata, invadente, insolente come oggi. Era persino una fonte di divertimento. Le generazioni cresciute con Carosello ne provano talvolta nostalgia.

Dalla mia introduzione si potrebbe arguire che nel corso degli anni io abbia modificato il mio atteggiamento nei confronti della pubblicità. Che considerassi con benevolenza quella d’un tempo, e con fastidio quella di oggi. In realtà sono sempre stato ferocemente critico sul mio lavoro, allora come adesso. Ovviamente non ho mai condiviso le sciocchezze di Vance Packard, ma ho lottato tutta la vita contro gli aspetti più banali e cinici della professione. La pubblicità è come l’edilizia, la pizza, la politica, la canzone: può essere buona o cattiva, interessante o inopportuna, una prova di immaginazione e di talento o pura e semplice spazzatura. Dipende.

Di certo è improprio condannarla o assolverla in blocco, e ancor più improprio giudicarla come fenomeno a sé, indipendente dal contesto in cui agisce. Si tende spesso a incolpare la pubblicità di fomentare il consumismo più bieco, di diffondere aspirazioni fatue, di rimbambire il prossimo fino a fargli smarrire il senso stesso della vita e dei suoi valori più autentici. Ma la pubblicità non sorge dal nulla. Rispecchia, nel bene e nel male, il modello economico, politico, culturale del momento: se tutta la pubblicità vi fa inorridire, vuol dire che non state vivendo nel migliore dei mondi possibili.

La si può amare, tollerare, odiare in tutta libertà. Ma se provate a scrutarla con spirito indagatore, a smontarne i meccanismi retorici, ad analizzarne i linguaggi, potreste fare qualche scoperta interessante. Persino utile, sia pure indirettamente, a chi esercita la professione di educatore: giacché ogni messaggio pubblicitario si configura come un piccolo Lehrstück, una messinscena concepita con evidenti intenti didattici. I personaggi e le situazioni della rappresentazione pubblicitaria, o almeno di quella più diffusa e convenzionale, non sembrano vivere di vita propria ma solo in funzione del prodotto e della sua tesi. Nella pubblicità per le automobili si vedono scorci suggestivi di paesaggio e adoratori di automobili; in quella dei biscotti e delle merendine la felicità si conquista mangiando; nei settori dell’igiene dentale o della pulizia domestica lo spot è una vera e propria lezione scolastica sull’azione benefica del prodotto, comprovata da stilizzazioni grafiche che ne semplificano il comportamento chimico o fisico. Tipici della pedagogia pubblicitaria sono la reiterazione, l’ossessivo impiego di stereotipi, il ricorso a simboli scopertamente allusivi, la predilezione per i cosiddetti testimonial – personaggi noti al pubblico e variamente carismatici, reclutati per conferire fascino, autorevolezza, simpatia, credibilità alla marca.

Se è vero che la comunicazione commerciale consiste nell’applicazione di una serie di collaudate formule didattiche, prevalentemente orientate a suscitare consenso e ottenere adesione, è anche vero che la concorrenza di mercato impone, a chi voglia emergere da questo panorama piatto, una rottura degli schemi: un colpo di scena, un’infrazione brillante, un atto di coraggio. Quando la pubblicità smette di considerare il suo pubblico come una scolaresca dell’asilo o una folla di ritardati mentali, rende miglior servizio a chi la fa e a chi la subisce, perché si fa accettare più volentieri. E assume, qualche volta, persino un po’ di quella dignità che si usa riconoscere a forme di espressione più elevate – il cinema, il racconto, l’arte figurativa. Sarà utile ricordare, del resto, che la pubblicità ha amoreggiato con l’arte assai prima di spassarsela col marketing. Per oltre mezzo secolo – dai poster di Toulouse-Lautrec fino alle soglie della seconda guerra mondiale, ma anche, più sporadicamente, in seguito – l’arte, la grafica d’autore e la pubblicità hanno flirtato scopertamente e senza suscitare alcun imbarazzo. Alle relazioni reciproche fra comunicazione commerciale, avanguardie e movimenti d’ogni sorta è stata dedicata, nel 1990, una colossale mostra al Centre Pompidou di Parigi: Art & Pub. Art & publicité 1890-1990.

La comunicazione commerciale è fenomeno antico. Gli studiosi citano persino un documento risalente alla fine del secondo millennio a.C.: un papiro egiziano con il quale Hapú, tessitore di Tebe, si rivolge ai cittadini e promette una ricompensa a chi lo aiuterà a ritrovare uno schiavo fuggito. «Fin qui sarebbe eccessivo parlare di vera pubblicità, poiché si tratta solo di un proclama pubblico, senza alcun autentico intento persuasivo; senonché Hapú deve aver pensato di non sprecare uno strumento che oltretutto era probabilmente costoso e decise di aggiungere, dopo una descrizione minuta delle caratteristiche del fuggitivo e l’offerta della ricompensa di una moneta d’oro, una frase apparentemente incongrua: “Il negozio del tessitore Hapú, dove si tessono le più belle tele di tutta Tebe, secondo il gusto di ciascuno.”»1

Ma è con la nascita della stampa e dell’industria che comincia l’era della comunicazione moderna. Il primo incontro fra giornali e pubblicità avviene in Francia nel 1631, quando il medico ed editore Théophraste Renaudot pubblica sulla sua Gazette l’annuncio per un’acqua minerale che Sua Maestà «beve come cura preventiva; esempio imitato da tutta la corte.»2

1 Marco Vecchia, Hapú. Manuale di tecnica della comunicazione pubblicitaria, Lupetti Editori di Comunicazione, Milano 2003.

2 M. Vecchia, op. cit.

 

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Henri de Toulouse-Lautrec, “Troupede M.lle Églantine”, 1899.

 

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Fortunato Depero, “Campari”, 1926.

 

Più tardi, con l’esplosione della rivoluzione industriale e lo sviluppo delle tecnologie di stampa, la grafica e la pubblicità partecipano da protagoniste – insieme all’architettura e alle nuove correnti artistiche che vanno sorgendo in Europa – alla fondazione di una nuova cultura della città, della produzione, della merce, del lavoro, dell’editoria, dell’immagine. Le metropoli cambiano faccia: si riempiono di fabbriche, negozi, infrastrutture, monumenti, servizi e segnali che celebrano la nuova era. La rivoluzione industriale non inaugura solo il culto della macchina e della produzione, ma di tutto ciò che al grande teatro della merce si connette: dai padiglioni delle fiere e delle esposizioni universali, monumentali santuari della nuova era, alla pubblicità in tutte le sue forme. La modernità si manifesta con inaudita grandeur. La torre Eiffel, tanto per citare un esempio, è solo la réclame di un’Esposizione universale e come tale andrebbe smantellata dopo l’evento: diventa invece il simbolo più famoso, stabile e vistoso di Parigi.3

Non staremo qui ad approfondire le relazioni che, per una lunga stagione, le belle arti, il disegno industriale, le avanguardie del costruttivismo e del futurismo intrattennero con la pubblicità, considerata tra le forme d’espressione più aperte all’avvenire. Il problema che oggi ci sta a cuore è accertare se e quanto la pubblicità sia ancora capace di stabilire un rapporto altrettanto fertile col presente; se e quanto abbia saputo rinnovarsi, non tanto nelle tecniche quanto nei contenuti; se e quanto sappia essere una testimonianza non superficiale, ma profonda e attendibile, dei sentimenti e delle tensioni del nostro tempo; quale o quali visioni del mondo si riflettano, come in uno specchio, nei messaggi pubblicitari che ci incalzano da ogni parte.

Se stasera un marziano approdasse sulla terra e si mettesse in poltrona a guardare la televisione, si farebbe un’idea veritiera ma solo parziale di chi siamo e come viviamo. Ci vedrebbe come maniaci del telefonino e della merenda, come un popolo felice di usare e consumare una miriade di manufatti miracolosi; e sarebbe fortemente spiazzato dal telegiornale, dove il pianeta appare funestato da molestie e tragedie incredibili, da problemi che non mostrano alcuna connessione né con l’Isola dei famosi, né coi pacchi di Pupo, né con la pubblicità. Più che una visione del nostro tempo, la pubblicità – soprattutto quella televisiva – esprime una visione da supermercato: fa il suo mestiere, e non perderemo troppo tempo a biasimarla per questo. Il marziano però, prima di entrare nel nostro salotto, aveva intravisto per strada personaggi, ambienti e situazioni che non ritrova negli spot: dove sono gli operai e gli immigrati? Che fino hanno fatto gli anziani e le badanti? Perché i bambini della tv mangiano e giocano tutto il giorno senza mai andare a scuola? Perché gli adulti sono tutti così snelli e di bell’aspetto? Perché tutti sorridono, spesso senza un motivo plausibile?

La pubblicità è tutto questo, ma può essere qualcosa di diverso e di più – come vedremo in alcuni esempi raccolti in ogni parte del mondo.

3 È stato coniato il termine brandscape (fusione di “brand” e “landscape”) per indicare l’impatto delle marche sull’architettura e l’urbanistica: non solo le insegne, i cartelloni, i manifesti, ma anche le sedi degli uffici e delle banche (si pensi al “grattacielo Pirelli” o al “Citycorp building” newyorkese), le stazioni di servizio, i parchi-giochi (Disneyland), persino i monumenti (la torre Eiffel)... Intere piazze urbane come Times Square o Piccadilly Circus si presentano come gigantografie esplosive e tridimensionali di una rivista, di un break televisivo, di un portale internet disseminato di banner.

 

Allusioni al reale: la pubblicità come sguardo critico sul presente.

 

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Les Echos (Francia) e Grande Reportagem (Portogallo). Due giornali che si fanno pubblicità puntando sul proprio ruolo specifico – quello dell’informazione – anziché sulle promozioni. Ciascun annuncio è uno sguardo, preciso e tagliente, sul mondo d’oggi e sui problemi che lo inquietano. “Lavoro minorile nell’industria dell’abbigliamento in India, Pakistan, Indonesia. Se comprendi l’economia, comprendi il mondo.»

 

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Bandiera dell’Angola. Legenda: Rosso = Persone infette da HIV.
Nero = Persone infette da malaria. Giallo: Persone che hanno accesso alle cure mediche.

 

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Friends Diapers. Questa campagna arriva dall’India, paese – al pari della Cina – economicamente emergente. Anche se la pubblicità orientale si ispira, per formule e linguaggi, a quella angloamericana, rivela spesso una particolare inclinazione estetica o, come in questo caso, un carattere di maggiore sincerità. Prodotto: pannoloni per adulti incontinenti. Titolo: «Quando non c’è un bagno a portata di mano.» Da noi, il tema dell’incontinenza è preso più alla larga, trattato di solito con melensa ipocrisia.

 

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Associazione RoadCross, Zurigo: «L’alcool crea nuove realtà.» Tipica “campagna sociale”, mirata a educare i cittadini su problemi di interesse comune. L’obiettivo è scoraggiare chi ha bevuto dal mettersi al volante, tema purtroppo di tragica attualità. La foto mostra con efficace eloquenza le distorsioni percettive indotte dall’abuso di alcool. Un esempio di come si possano usare con intelligenza creativa le nuove opportunità offerte dai software di grafica.

 

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Smart Photography. Ancora dall’India, un’immagine che fa riflettere. Perché rovescia il luogo comune della macchina fotografica appannaggio di turisti e papà benestanti. Qui è un umile lavoratore a coltivare l’hobby della fotografia. La pagina sintetizza, in modo imprevedibile, gli ideali di uguaglianza, di pari opportunità, di democrazia, in una società tuttora irrigidita in un intricato sistema di caste. E’ come se da questa pubblicità si affacciasse il volto di un’India in accelerata fase di trasformazione, quella parte del paese più determinata ad affermarsi – da protagonista – sui mercati internazionali.

 

 

Tendenze: la pubblicità come “opera aperta”.

Fedele alla sua funzione didascalica, la pubblicità tende spesso a conchiudere le sue tesi in formule dichiarative e assiomatiche, in modo da non lasciare spazio al dubbio o a una pluralità di interpretazioni: «Dash lava più bianco», «Dove c’è Barilla c’è casa», «Opel Astra. Una station wagon da celebrare.» Nelle sue espressioni più autoritarie, non esita a usare l’imperativo: «Questo weekend cambia programma. Vieni a scoprire la Fiat 16.»

Sono comunque molteplici le eccezioni alla regola: si pensi per esempio alla pubblicità, volutamente laconica, delle griffe di moda, dei profumi, dei gioielli, il cui messaggio è prevalentemente affidato a una immagine suggestiva e al solo marchio aziendale. La scelta della reticenza dipende, in questi casi, dal fatto che l’alta moda, i profumi, i prodotti di lusso, promettono vantaggi talmente immateriali da risultare ineffabili. Si teme che una parola, una frase, un minimo tentativo di spiegazione possa compromettere o persino spegnere quel soffuso alone di magia, di desiderio, di seduzione che circonda certi prodotti (in genere costosi).

La comunicazione che, come in questi casi, sceglie di non definire, di non esporsi alla concretezza perentoria delle parole, di esprimersi solo attraverso la suggestione estetica, è potenzialmente “aperta” a più d’una lettura: anche se, a limitare la varietà delle interpretazioni, interviene un rigido sistema di codici ripetitivi, ormai assorbiti dalla maggior parte del pubblico. Le variazioni sul tema dell’eleganza e della seduzione non sono molte: la modella è sempre alta e magra, talvolta persino anoressica; uomini e donne raramente superano i trent’anni e ostentano sguardi preferibilmente accigliati, talvolta tenebrosi; l’erotismo è dosato a seconda delle marche e del pubblico di riferimento, in una gamma che va dall’allusione discreta al nudo parziale o totale, dalla celebrazione idealizzata del corpo umano fino agli atteggiamenti palesemente trasgressivi.

A partire dagli anni Ottanta si fa strada una tendenza all’opera aperta di nuovo genere. Una tendenza che differisce profondamente da quella appena descritta, perché non gioca sulla suggestione ma sulla provocazione concettuale. Famose campagne come quelle di Nike, di Apple, di Diesel e di altre marche globali sfidano costantemente l’immaginazione del proprio pubblico, proponendo messaggi “aperti” e ricchi di molteplici implicazioni.

Qualche esempio:

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The Economist. Il periodico inglese celebra l’intelligenza dei suoi lettori, individuati come una élite moderna, colta, esigente, razionale. E li sfida con una serie di provocazioni intellettuali.

 

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Absolut. Ovvero: la vodka e il mondo delle idee secondo Platone. A partire dalla forma della bottiglia (l’idea della purezza e della trasparenza assoluta), la pubblicità di Absolut tenta un catalogo enciclopedico dello scibile, sintetizzando – con grazia e ironia – millecinquecento “idee assolute” in altrettante immagini pubblicate dal 1980 al 2005.

 

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Apple. “Think different”: pensa differente. Un’esortazione a sbarazzarsi dei cliché, dei modi convenzionali d’intendere e di agire, a reinventare in modo creativo il proprio lavoro. Dopo aver semplificato al massimo la tecnologia del computer e mentre continua a lanciare sul mercato prodotti sorprendenti per funzione e design, Apple sfida il suo pubblico a competere con la propria genialità – e con quella dei massimi talenti del secolo nei campi delle scienze, delle arti, dello spettacolo.

 

 

Tendenze: la pubblicità come blitz estetico sui media e sull’ambiente.

Sempre più intimidita e sopraffatta quando è destinata ai tradizionali mezzi di comunicazione, la creatività sembra prendersi, in tutto il mondo, una rivincita sul piano locale – in quella dimensione territorialmente assai circoscritta che va sotto il nome di ambient advertising. È vero che la pubblicità è stata, è e sempre sarà “ambientale” per natura, giacché la sua vocazione è quella di interagire con lo spazio fisico che la ospita: ogni manifesto affisso sul muro, ogni fiancata di tram è ambient advertising. Non solo: ogni automobile che passa fa pubblicità a se stessa, tutti i prodotti allineati sugli scaffali del supermercato fanno self-promotion ambientale, tutta la città è impaginata come un immenso catalogo di marche. Negli ultimi anni è andata tuttavia affermandosi una forma di azione ambientale particolare, definibile come una variante, applicata alla pubblicità, delle installazioni e degli happening tipici dell’arte contemporanea. Si tratta di interventi consapevoli sull’ambiente, concepiti come blitz – spesso provocatori – tesi a rileggere e modificare, in modo paradossale, scorci urbani, frammenti di paesaggio, locali pubblici. Le variazioni sul tema sono infinite: a volte sono proprio gli spazi ufficialmente destinati alla pubblicità (p. es. i cartelloni stradali) a subire una manomissione imprevista (oggetti incollati, buchi, deformazioni, sagomature, trompe l’œil); sempre più spesso l’intervento viene realizzato direttamente su elementi architettonici e infrastrutture (pilastri, gradinate, scale mobili, etc.) e ovviamente sui muri della città, da sempre utilizzati come pagine o fogli d’album (pubblicità “povera”, graffiti, murales). Spesso entrano in gioco elementi della natura – l’azione del vento e dell’acqua, la luce e il buio – a completare, secondo un piano prestabilito, l’opera e il messaggio. La gamma di questi coups de théâtre va dal minimalismo assoluto (es. messaggi tracciati col gesso o una vernice spray sui muri o sull’asfalto) alla magniloquenza (a Buenos Aires, un intero obelisco rivestito con un preservativo in concomitanza con un convegno sull’Aids).

 

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“Ehi, tu che ci guardi dal finestrino. Annoiato? Scomodo? La prossima volta vola con Virgin.”

 

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Il consumatore come medium. Shopper di una catena belga di librerie per promuovere i romanzi di un autore di thriller.

 

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Clemenger BBDO, Nuova Zelanda. La gonna è fatta di stoffa e si solleva col vento.

 

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Installazione Electrolux in un cantiere di Copenhagen. Agenzia: Young & Rubicam.

 

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Tampax si appropria di una diga. (Brasile?)

 

Conferenza-Monza_rasoio

Metropolitana di Shanghai: lungo pannello “peloso” per visualizzare l’effetto di una rasatura ultra smooth (rasoi Schick, agenzia J. Walter Thompson).

 

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Veri panni, acqua e sapone nei copriruota trasparenti di un taxi di Amsterdam,
per pubblicizzare i servizi di una lavanderia (PPGH JWT).

 

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Pannello provvisto di lampadina e cellula fotoelettrica. Un esempio di interazione fisica (e intellettuale) coi passanti.

 

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Installazione Lego in un cantiere.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
Pasquale Barbella