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Teatro. Flannery e la sua bizzarra brava gente di campagna alle 16 e alle 21 al Mulino Colombo

Riceviamo e pubblichiamo

Nell’ambito della manifestazione

 pH­_performing Heritage 2013

VILLE APERTE IN BRIANZA

il gruppo culturale

SENZASPAZIO

presenta

FLANNERY E LA SUA BIZZARRA BRAVA GENTE DI CAMPAGNA

lettura scenica da Flannery O'Connor

drammaturgia e regia Elisabetta Raimondi

con Berardino Clemente, Eleonora Galliani, Federica Mosca, Chiara Negro Cusa, Davide Roberto

alla chitarra  Matteo Redaelli

luci Andrea Monguzzi

SABATO 28 SETTEMBRE 2013 – ore 16.00 e 21.00

MULINO COLOMBO – Piazzetta Ufficio Igiene – MONZA

 

prenotazioni www.villeaperte.info

Ingresso gratuito

PRESENTAZIONE

Con Flannery e la sua bizzarra brava gente di campagna il gruppo culturale Senzaspazio continua il percorso di esplorazione di grandi autori statunitensi, dopo gli spettacoli incentrati su John Steinbeck e su Paul Auster. Questa volta lo studio si è focalizzato su un’originalissimascrittrice del sud degli Stati Uniti, morta nel 1964 a soli 39 anni per le conseguenze del lupus eritematoso che l’afflisse per metà della sua vita. Il progetto di Senzaspazio è costituito da due parti indipendenti ed autoconclusive. La prima, ora in scena, è ispirata al racconto Brava gente di campagna, mentre la seconda, un lavoro multimediale in fase di lavorazione, è incentrato sul racconto  Rivelazione.

Spesso incasellata in definizioni molto riduttive, se non addirittura fuorvianti, Flannery O’Connor è stata denominata a seconda dei casi scrittrice “cattolica”, “grottesca”, “gotica”, “del sud”, oppure “gotica del sud” che nell’espressione originale “southern gothic” suona almeno un po’ meglio. Tutte etichette che esprimono indiscutibilmente alcuni aspetti della sua narrativa, ma nessuna delle quali ne restituisce la dimensione universale e simbolica, che invece attiene tanto al suo lavoro quanto alla consapevolezza che del suo lavoro lei stessa aveva. Che Flannery O’Connor fosse una donna del “profondo sud” è testimoniato non solo dalla sua breve vita vissuta quasi interamente in una fattoria di Milledgeville in Georgia insieme alla madre e ad un allevamento di pavoni, ma anche dall’ambientazione dei due romanzi e della trentina di  racconti che costituiscono la sua produzione narrativa e che si svolgono per lo più nella cosiddetta “Bible belt”, la cintura della Bibbia di quel sud prevalentemente rurale, protestante e razzista, che l’autrice ha descritto con tanta concretezza ed efficacia. Quanto al suo essere “gotica”, è altrettanto indiscutibile che gli elementi tipici di quel genere letterario quali il mistero, il male, le deformazioni, la morte, l’horror insomma, siano una costante della sua narrativa. Così come lo è l’impronta grottesca che caratterizza molti dei suoi personaggi, in cui la frattura tra ciò che credono di essere e ciò che in realtà sono crea situazioni paradossalmente comiche. Quanto poi alla incrollabile e profonda fede cattolica, che non la abbandonò mai nemmeno nei momenti peggiori della malattia, essa risuona costantemente nelle sue storie. Storie anticonvenzionali, per nulla conformi ai buoni sentimenti e al moralismo facile che generalmente si associano all’idea di letteratura cristiana. Storie alla cui lettura un certo tipo di cattolici, quelli  che Flannery non esita a definire “vittime di concezione estetica provinciale e di isolamento culturale”, inorridirebbero. Storie dove il male e il peccato non sono ipocritamente nascosti come se non esistessero, perché Flannery O’Connor sa che esistono, e li mette in scena continuamente. E lo fa in una maniera talmente cruda che persino Quentin Tarantino ha assunto la scrittrice come modello letterario di riferimento per i suoi film, così come hanno fatto Bruce Springsteen o Nick Cave, che di storie di “maledette” ne hanno composte e cantate tante. Flannery non sente di sporcarsi le mani o la coscienza nel presentare la violenza, e  non solo perché la violenza fa parte della vita, ma anche perché è convinta che spesso la grazia divina si manifesti proprio attraverso di essa. Ma è altresì convinta che stia sempre e comunque alla scelta individuale degli esseri umani la decisione di come reagire agli sconvolgimenti che il violento intervento della grazia porta con sé. 

Oggi Flannery O’Connor è considerata una scrittrice di culto da tutti coloro che sanno vedere quanto le sue storie sorprendenti trascendano la limitatezza geografica, sociale e religiosa della loro ambientazione. E se riescono a farlo è grazie alla concretezza con cui “quegli” ambienti e “quei” personaggi vengono presentati, permettendo al reale di assumere un significato simbolico che va al di là degli apparenti confini temporali, spaziali, sociali e religiosi delle storie. È un po’ come per i quadri di Edward Hopper, il grande pittore del “realismo americano”, quello dei bar notturni e diurni, delle vertine dei negozi nelle strade deserte, delle pompe di benzina su strade che portano chissà dove, delle donne alle finestre di stanze anonime, degli interni di uffici e di vagoni ferroviari e di stanze di alberghi o di appartamenti sbirciati dall’esterno attraverso una finestra, di case solitarie forse abitate forse abbandonate. Immagini tipicamente americane, ma talmente sospese, enigmatiche e misteriose da apparire simboli universali della condizione umana. È probabilmente per via di questa analogia tra i due artisti, così abili nel trascendere il reale attraverso il reale, che parecchie edizioni italiane dei racconti di Flannery O’Connor hanno in copertina alcuni quadri di Hopper. È sicuramente per questa analogia che nella realizzazione della locandina del progetto di SENZASPAZIO su Flannery O’Connor è stata fortissima la tentazione di utilizzare un dipinto di Hopper. Poi però il gioco e il divertimento hanno avuto la meglio sulle riflessioni serie ed esistenziali, e così l’immagine di questo altro marchio nazionale della pittura americana che è “American Gothic” di Grant Wood, ci è parso ideale per sottolineare il taglio gotico-grottesco, e anche un po’ postmoderno, con il quale abbiamo impostato il nostro lavoro, nella convinzione che la grande ironia di Flannery saprebbe perdonare le libertà che ci siamo permessi di prenderci.

Elisabetta Raimondi