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Molti fautori delle lotta contro le disuguaglianze sostengono che, prima di usare i sistemi fiscali come strumento correttivo, occorre agire sui fattori che le determinano (scuola, sanità, condizione femminile, infrastrutture…).

Ma il ragionamento fila fino a un certo punto: per prevenire le disuguaglianze occorre disporre di ampie risorse. Si può agire contro gli sprechi, l’inefficienza, le malversazioni della PA, e contro l’evasione fiscale, ma alla fine non si può fare a meno di un sistema fiscale che raggiunga contemporaneamente tre obiettivi: raccogliere le risorse necessarie per la collettività, correggere gli squilibri di ricchezza e di reddito, promuovere lo sviluppo economico.

E’ quello che propongono Emmanuel Saez e Daniel Zucman, giovani economisti francesi, allievi di Thomas Piketty, che insegnano all’Università di Berkeley, California (quella che anticipò i movimenti studenteschi degli anni 60), con il loro “The Triumph of Ingjustice”, W.W. Norton & C., 2019. I loro ragionamenti si riferiscono agli USA, e alimentano i programmi dei candidati democratici all’elezione di novembre del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Ma per molti versi valgono anche per gli altri paesi, compresa l’Italia, citata più di una volta come caso di studio.

Con un’ampia documentazione di dati estesi al lungo temine (dall’inizio del 900 ad oggi) e articolati per decili di contribuenti, dal 10% dei più poveri al 10% (e in certi casi all’1 e allo 0,1%) dei più ricchi, contestano l’idea, dominante dagli anni ottanta ad oggi, che i sistemi fiscali progressivi, cioè basati su aliquote fiscali marginali sempre più alte al crescere della ricchezza e del reddito, scoraggino le attività economiche, la produzione di reddito e quindi le entrate fiscali.

Essi dimostrano che negli anni che vanno dal 1930 al 1980 il sistema fiscale USA come quelli di molti altri paesi, pur essendo fortemente progressivo (arrivando a toccare aliquote marginali, cioè per le fasce di reddito altissime, fino al 90% dal 1951 al 1963!), e quindi assicurando un livello accettabile di disuguaglianza dei redditi e delle ricchezze, non ha contrastato la crescita economica e l’entità dei gettiti fiscali. Al contrario, negli anni che vanno dal 1980 ad oggi, l’appiattimento della progressività delle aliquote fiscali a favore dei contribuenti più ricchi e la riduzione delle tasse sulle società di capitali (corporate), si sono accompagnate con una minore crescita economica e un ampliamento abnorme delle disuguaglianze. L’1% della popolazione in USA incamera oggi il 20% del reddito nazionale, contro il 10% nel 1980. Il contrario accade per il 50% più povero (dal 20% al 13%).

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Disuguaglianze - Tiara Audina - Oxfam

In realtà una tassa sulla ricchezza colpirebbe solo una ristrettissima classe di super-ricchi, detentori di una quota altissima della ricchezza nazionale

La riduzione delle tasse a carico delle società di capitali è stata determinata dall’affermarsi di un paradigma che considera queste come motrici dello sviluppo economico. Questa visione, sostenuta da teorie economiche liberiste, ha cancellato quella dell’equità fiscale, ha messo in moto una competizione tra paesi, tendente alla riduzione delle tasse sulle imprese (fino alla tassazione zero di alcuni paradisi fiscali), e favorito "l’industria dell’elusione fiscale” al servizio delle multinazionali.

Nonostante tutto ciò, è tuttora comune considerare le imposte sul reddito delle società un fatto negativo. Ma Saez e Zucman fanno notare che se la tassazione sui redditi d’impresa, cioè di capitale, è inferiore all’imposta personale, i ceti più ricchi non hanno difficoltà a trasformare i propri redditi “da lavoro” in redditi d’impresa, costituendo società-guscio puramente strumentali all’elusione. Gli autori sostengono pertanto una integrazione e parificazione della tassazione dei redditi da capitale e da lavoro, considerando la prima semplicemente come una sorta di pre-pagamento delle tasse sulle persone fisiche.

Propongono pertanto non solo un’adeguamento delle tasse sui redditi d’impresa e più in generale delle persone giuridiche, (fondazioni, ecc.) che collocano intorno al 25%, ma anche trattati internazionali, ad esempio a livello dei G20, che mirino a uniformare queste tasse, in modo da ridurre la deleteria competizione al ribasso e l’incentivo all’elusione attualmente in atto.

Un atro tabù è quello della tassazione della ricchezza. La gente comune viene convinta che essa comporti una tassazione sugli immobili, sostanzialmente sulla casa. Ciò è vero soprattutto in Italia, dove il 75% delle famiglie possiede la casa in cui abita. Ma in realtà una tassa sulla ricchezza colpirebbe solo una ristrettissima classe di super-ricchi, detentori di una quota altissima della ricchezza nazionale. Il patrimonio di questi ultimi è costituito per la massima parte di attivi finanziari (azioni e obbligazioni), e per la parte immobiliare di una pluralità di stabili. Data la concentrazione attuale della ricchezza, anche il gettito potrebbe essere interessante. Per gli USA gli autori propongono di tassare con il 2% le ricchezze superiori ai 50 milioni di dollari, e con il 3,5% quelle superiori a un miliardo!

Una riflessione interessante gli autori fanno anche a proposito dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), assente negli USA ma sostituita da una vasta congerie di tasse sui consumi. L’una e gli altri sono fortemente regressive, penalizzano i ceti meno abbienti, che sono costretti a spendere tutto o quasi il loro reddito in consumi, mentre i ceti più ricchi ne spendono solo una parte, destinando una quota consistente a risparmi e all’accrescimento della loro ricchezza. Gli autori propongono una grande semplificazione del sistema, abolendo IVA e imposte sui consumi e sostituendoli con una leggera (6%) imposta piatta generale su tutti i redditi, sia da lavoro che da capitale.

Per quanto riguarda l’imposta sui redditi personali, Saez e Zucman propongono un recupero della progressività del passato, limitando l’aliquota marginale massima al 60%.

In sintesi, la loro proposta complessiva per gli USA è la seguente:

Una tassa sulla ricchezza. Il 2% di aliquota per chi possiede oltre 50 milioni di dollari, il 3,5% oltre un miliardo.
Una tassa progressiva sul reddito personale, con un’aliquota marginale massima del 60%
Una tassa sul reddito delle società di capitale, 30% federale, minimo 25% per i singoli stati.
Una tassa piatta su tutti i redditi del 6%.

Secondo gli autori, la loro proposta consentirebbe di coprire integralmente il fabbisogno di risorse per la sanità e l’istruzione gratuita per tutti, e di eliminare le tasse sui consumi. In sostanza, di introdurre “un meritevole stato sociale in America per il XXI secolo, analogo a quello degli stati europei ma più avanzato, semplice ed organico”. Debbo dire che, considerando il livello dell’incidenza delle imposte sui PIL nella maggioranza degli stati europei, la proposta sembra un po’ utopica.

Ma Saez e Zucman ritengono questo cambiamento essenziale per la conservazione di un sistema democratico e per una globalizzazione non distruttiva. A loro parere, «invece di competere abbassando le aliquote fiscali, i paesi dovrebbero competere creando infrastrutture, investendo nell’accesso all’istruzione, e finanziando la ricerca. Invece di migliorare prima di tutto l’”ultima riga” (cioè il profitto, n.d.r.) degli azionisti, la competizione internazionale dovrebbe contribuire a una maggiore eguaglianza tra i paesi». E «se i paesi del G20 imponessero domani una minimum tax alle loro multinazionali, ovunque esse operino e paghino tasse, più del 90% dei profitti mondiali verrebbero tassati immediatamente ed effettivamente al 25% o più».

 

Qualsiasi ragionamento serio sulla tassazione deve porre la disuguaglianza in primo piano (front and center), tanto più oggi in un mondo di crescente concentrazione della ricchezza

E’ comunque indubbio che per l’attuazione della proposta degli autori è necessario un profondo cambiamento del “comune sentire” attuale sul rapporto tra pubblico e privato nell’economia. Gli autori auspicano un ritorno al modo di pensare dominante dai tempi di Roosevelt a quelli del post seconda guerra mondiale, quando il senso della giustizia sociale e del valore della spesa pubblica era diffuso nell’opinione pubblica.

Forse c’è qualche avvisaglia di questo cambiamento, non solo in USA ma in ogni parte del mondo, dall’Italia a Hong Kong. Ma esso non sembra ancora sufficientemente esteso. Eppure, dovrebbe essere facile far capire che esso sarebbe vantaggioso per il 90 o il 99% dei cittadini! «Tutti i gruppi sociali dal basso fino al 95esimo percentile pagherebbero meno tasse, comprendendo tra queste l’assicurazione sanitaria, rispetto ad ora… La mediana scenderebbe dal 38% al 28%», scrivono gli autori. Una prova del fuoco sarà sicuramente il risultato delle elezioni presidenziali in USA in novembre: una vittoria di Trump significherebbe, nel migliore dei casi, un rinvio dell’auspicato secondo “new deal”.

Gli autori dichiarano esplicitamente che si tratta di una proposta tra le altre, che offrono alla discussione. Essa è riferita agli USA, ma è evidente la sua utilità per io sistemi fiscali di altri paesi.

Proprio in questi giorni il nostro Ministro per lì’Economia Roberto Gualtieri ha prospettato l’intenzione del Governo italiano di una globale riforma fiscale. Mi auguro che chi la formulerà avrà preso in seria considerazione le proposte di Saez e Zucman, che concludono: «Qualsiasi ragionamento serio sulla tassazione deve porre la disuguaglianza in primo piano (front and center), tanto più oggi in un mondo di crescente concentrazione della ricchezza».

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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