20170310 dalema veltroni

 Al disgraziato matrimonio sull’altare della storia si sono ritrovarti ex democristiani, tutt’altro che mondati dei loro peccati, e comunisti senza radici (o che alle radici hanno disinvoltamente rinunciato, in qualche caso addirittura abiurandole). È da quell’incontro che è nato il renzismo.

Fra le tante altre cose dette da Walter Veltroni, intervistato nei giorni scorsi da Eugenio Scalfari, ce n’è una che io considero molto importante: “La grandezza storica di Berlinguer fu proprio quella di prendere un partito che si chiamava comunista, al quale lui non voleva recidere le radici. Aveva molto forte il senso delle radici ma la grandezza della sua esperienza fu quella di trasformarle e lo potè fare perché c’era Gramsci alle origini del Partito comunista. Nella sua visione una grande sinistra democratica rappresentava le persone oneste e gli ultimi della società. Berlinguer conquistò con questa politica il 35 % dei consensi”.

Domanda. Ma allora perché i suoi eredi, e fra questi ci metto lo stesso Veltroni, decisero di chiudere il Pci trasformandolo prima in Pds e poi in Ds, con il risultato che nel Pd arrivò più che una forza (egemonica non lo era più da tempo) una debolezza, un vero e proprio fantasma, lontano parente di quello che era stato il Partito di Togliatti, Longo e Berlinguer ? Che pena. Non fu cambiato solo il nome (il che ci poteva anche stare) ma si cominciò a tagliare con cura le radici nel quadro di un rinnovamento imposto più dalla convenienza politica del momento che da una attenta e scrupolosa revisione ideologica.

Morto Berlinguer il Partito passò, piano piano e attraverso molte contraddizioni, nelle mani dei cosiddetti riformisti, agevolati nella operazione da un gruppo dirigente (Occhetto e D’Alema in primis) preoccupati soprattutto di andare al potere. Occhetto sbagliò: sottovalutò la discesa in campo di Silvio Berlusconi e prima ancora il fenomeno Lega Nord, cianciò di una presunta e fantasiosa macchina da guerra, fra l’altro intaccata da pesanti schizzi di fango di tangentopoli. Ma noi comunisti non eravamo lo specchio di un costume superiore, di una invidiabile capacità amministrativa, esaltata anche da chi ci dava contro? Certamente che lo eravamo, ma il motto “dobbiamo anche cominciare a sporcarci le mani con il potere, basta opposizione, dobbiamo fare come i socialisti, altro che diversità” si infilò nell’animo e nel comportamento di molti. E le cronache giudiziarie cominciarono a pullulare di tanti Tizio e Caio, seguiti dalla sigla pds e poi ds. Quelli con la sigla dp non si contano più. Giovani e meno giovani, padri e figli. Quel costume berlingueriano era stato messo in soffitta. Oggi gli ex, che sono tanti anche se non si vantano del loro passato, anzi tentano di sconfessarlo, fanno spettacolo. Un ben triste spettacolo.

Berlinguer muore nel 1984, il Pds nasce nel 1991. Quei 7 anni scarsi, contengono almeno per me una sorta di mistero, di qualcosa di non detto con chiarezza. La parentesi Natta, l’ascesa tutt’altro che soft di Occhetto alla segreteria e poi la Bolognina (persino D’Alema ebbe qualche riserva per il modo in cui fu fatta) rappresentano un punto chiave della operazione taglio delle radici. I segni non mancano: meno feste dell’Unità, meno entusiasmo, meno volontariato, scarsa partecipazione alla vita delle sezioni, fine della diffusione militante del giornale fondato da Antonio Gramsci e... scarsa democrazia interna. Sembrava quasi che quel ricco patrimonio di passione politica, di intelligenza, di gioioso spirito di sacrificio desse fastidio a qualcuno. Due episodi (ma ovviamente ce ne sono tanti altri) mi hanno seriamente impressionato nell’avvio del Pds.

Siamo ai primi giorni di febbraio 1991, a Rimini si celebra il XX congresso nazionale, l’ultimo del Pci ed è anche quello che trasforma la Cosa in Pds (Partito democratico della sinistra). Il crollo delle iscrizioni è purtroppo all’ordine del giorno. I delegati che decretano la fine del Pci sono 807, 73 i contrari, 49 gli astenuti ma ben 328 risultano assenti al momento del voto. Scarso entusiasmo in sala, pochi gli applausi. Il Pds nasce male e si trova improvvisamente senza... segretario. I membri del consiglio nazionale, che è l’organismo preposto al compito, non riesce a raggiungere la maggioranza dei 274 voti. Achille Occhetto ne ottiene 264, dieci in meno del necessario. Clamoroso. Eppure sulla carta l’elezione sembrava sicura. Occhetto è sconvolto, abbandona l’assemblea profondamente amareggiato. “Allora fatevi un altro segretario”. Rifacendo bene i conti salta fuori che ben 36 esponenti di quella che avrebbe dovuto essere la sua maggioranza hanno negato il loro appoggio. Uno scherzetto del genere negli anni successivi sarà riservato a Romano Prodi, dato per sicuro candidato alla presidenza della Repubblica. Naturalmente poi si rimedierà a fatica e Occhetto sarà rieletto, alcuni giorni dopo, dal consiglio nazionale convocato a Roma.

Il secondo episodio, riferito sempre a quel periodo, è la nomina di Massimo D’Alema. Dopo le elezioni del giugno ’94, che segnano l’insuccesso dei progressisti e di converso una seconda vittoria del centro-destra, Achille Occhetto si dimette da segretario del Partito. In maniera irrevocabile, amareggiato per le intensioni interne e per quelle esterne. Più che da sinistra, vengono da destra, dai riformisti di Giorgio Napolitano. C’è da fare quindi un nuovo segretario. I candidati sono due: Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Si sceglie la strada di una sorta di referendum tra i quadri dirigenti del Partito, che pur assottigliato resta tuttavia una grande organizzazione democratica. Le Federazioni dicono Veltroni: 64 a 42, l’apparato centrale D’Alema  (129 a 118). Il testa a testa è evidente. Ma la preferenza sembra andare all’allora direttore de l’Unità. Si va al consiglio nazionale: il quorum da superare per essere eletti è di 226 voti. D’Alema ne prende 279, Veltroni invece si ferma a 173. La differenza è secca e sorprendente, pure essa rivela qualcosa che ha a che fare con le radici, violentemente strappate.

Veltroni preferisce recitare la parte del buono con una disarmante dichiarazione: “Dirò alle mie figlie che zio Massimo ci ha salvato le ferie”. Il Partito si spacca ? Non lo si può dire perché spaccato lo era già, certamente non si rafforza, più d’uno ha dei dubbi. E si lascia andare a ricordi del passato quando queste cose non succedevano. Persino l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che comunista non era mai stato, alla vigilia di quel voto si era raccomandato che i due contendenti “non disperdessero la tradizione di Antonio Gramsci, di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer”. Stupefacente.

Poi ci sono le questioni politiche, gli ideali e i valori. Anche su questo fronte più di una radice è stata tagliata. Il lavoro, il futuro dei giovani, la schiena dritta che tanto piaceva ad Indro Montanelli, un costume superiore e migliore soprattutto quando si amministra la cosa pubblica, l’onestà, la solidarietà, la lotta alla corruzione, ai privilegi, all’evasione, al debito pubblico che ha raggiunto livelli insostenibili, alle diseguaglianze. Tutte cose di sinistra che oggi come oggi rappresentano problemi per l’Italia ma pressoché insolubili perché in realtà manca una sinistra con annessa una politica di sinistra. Abbonda solo la confusione.

Perché questo sfogo? No, non voglio riproporre il passato che ormai non c’è più. Voglio solo ricordare che quando si parla del Pd e si dice ci vorrebbe... bisogna pensare che al disgraziato matrimonio sull’altare della storia si sono ritrovarti ex democristiani, tutt’altro che mondati dei loro peccati, e comunisti senza radici (o che alle radici hanno disinvoltamente rinunciato, in qualche caso addirittura abiurandole). È da quell’incontro che è nato il renzismo.

Concludo con un’altra citazione. In una lettera a L’Espresso della scorsa settimana Attilio Guadagni, 67 anni, ingegnere, scrive: “Io, alla svolta della Bolognina, dove il Pci diventò Pds, c’ero e ho pianto... La mia vita politica di giovane comunista, e più tardi di maturo militante, è stata invece tempestata da uno slalom di gioie e dolori. La gioia di avere un leader come Enrico Berlinguer che ebbe il coraggio di staccarsi dall’Urss, il dolore per la sua morte, lo smarrimento di vedere sparire un partito, alla Bolognina appunto, che tanto aveva significato dalla Resistenza in poi”.

La sottoscrivo.

 

Ps: per scrivere questo articolo ho ovviamente consultato il mio e altri archivi. E ho fatto una una triste scoperta. Dal primo gennaio 2017 è scomparso dal web l’archivio storico de l’Unità. In esso erano state digitalizzate tutte le pagine nazionali del giornale fondato da Antonio Gramsci a partire dal numero 01 del 1928, comprese le edizioni clandestine. Si trattava di una importante documentazione sulla storia del Pci e della vita politica italiana. Rottamata pure questa?