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Hanno scioccato mezzo mondo, provocato incidenti diplomatici, raccolto strali e querele dalla Sicilia al Missouri, fatto arrabbiare persino il Vaticano e la Casa Bianca. Un bilancio delle campagne “United Colors of Benetton” dalle origini al post-Toscani.

Colori e Dolori

Hanno scioccato mezzo mondo, provocato incidenti diplomatici, raccolto strali e querele dalla Sicilia al Missouri, fatto arrabbiare persino il Vaticano e la Casa Bianca. Ma in oltre vent’anni di casino le attività pubblicitarie della Benetton, quelle che vanno sotto l’insegna verde di United Colors, in Italia hanno agitato soprattutto una polemica – isterica, infinita e tutto sommato mediocre – fra Oliviero Toscani e la comunità pubblicitaria nazionale. Ad aizzarla ci hanno pensato i mezzi d’informazione, soprattutto quelli – e sono la maggioranza – che non sanno o non vogliono distinguere la differenza tra uno scoop esplosivo e l’incendio di un fiammifero. Questo strepito da saloon, irruvidito da metaforiche bottigliate sul cranio e sparatorie frontali, ha distolto tempo e spazio a uno studio meno emotivo e più rigoroso sul caso Benetton e sulla vastità delle sue implicazioni: etiche, semantiche, estetiche, sociali, legali, giudiziarie, politiche. Per la rilevanza dei temi affrontati, l’entità degli investimenti, la diffusione internazionale, la continuità nel tempo e i controversi effetti prodotti sull’opinione pubblica di vari paesi, la pubblicità di Benetton si presta in modo esemplare a una riflessione sui sottotesti dei messaggi commerciali: sulle loro valenze, sul loro impatto, sui criteri di esecuzione e di giudizio, sul confine tra opportunità e opportunismo, sulla liceità o illiceità degli sconfinamenti dal dominio del marketing a quello ideologico, sul concetto stesso di “scandalo”, sulla definizione e misurazione dei limiti, sul bilancio degli eventuali danni o contributi a qualche causa superiore, sulla qualità culturale dei valori esibiti, sulla coerenza fra il comportamento e la comunicazione degli imprenditori e delle aziende – tanto per citare le prime polpette che vengono in mente. Non che nessuno ci abbia provato; alla dinamite Benetton sono stati sì dedicati saggi, analisi, tesi di laurea, peana, invettive, querele e processi, ma il sussurro della ragione è stato costantemente sovrastato dal frastuono prodotto dalle campane dei mass media, o dai refrain canticchiati, non senza stonature, in un passaparola più lungo di mille anaconda messi in fila. Una cosa è certa: sembra impossibile parlare o scrivere di Benetton (dell’impresa e della comunicazione) senza perdere l’aplomb. La recensione più illustre e appassionata di “United Colors” è probabilmente quella di Jacques Séguéla, contenuta nel più avvincente e meno famoso dei suoi libri: Pub Story: L’histoire mondiale de la publicité en 65 campagnes (Parigi, Hoëbeke, 1994). In sole otto pagine Jacques passa dall’ammirazione viscerale al conato di vomito. «Benetton aveva trovato il suo carattere: la fratellanza. Quella nuova forma di meticciato delle razze, delle idee, degli stili di vita che prefigura la democrazia universale. Che concetto geniale!» Ma quando nel 1991 le immagini di Toscani prendono una piega decisamente più scottante, Séguéla si dissocia di brutto. Manifesta il massimo disgusto per la megalomania del fotografo, ricordandogli che varcare certi limiti solo per far risuonare la grancassa mediatica non è un buon servizio reso alla marca: «Hitler, l’uomo che agitò più di chiunque altro l’opinione pubblica negli anni Quaranta, non fu esattamente quello che finì con la reputazione migliore.»

A voler essere freddi e neutrali quanto basta, occorre ricominciare dai fatti e metterli in ordine con un po’ di pazienza. La benettonite comincia nel remoto 1982, quando Luciano Benetton incontra Oliviero Toscani, un fotografo di moda consigliatogli da Elio Fiorucci, ed è subito colpo di fulmine. I due concordano di trattare la comunicazione in un laboratorio intimo e defilato dall’establishment delle grandi agenzie. Breve e deludente tentativo con Planad, uno studio di Treviso. E subito dopo il posto giusto, la cellula che farà germinare il seme fatale. Il luogo ha un nome esoterico e carico di presagi, Eldorado. Ed è uno shop parigino in ascesa, fondato nel 1976 da un trio creativo di qualità: Bruno Suter, Pacha Bensimon e Françoise Aron. Toscani e Suter si conoscevano dai banchi della Kunstgewerbeschule, l’istituto d’arti grafiche che avevano frequentato insieme a Zurigo.

 

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L'origine di tutto. Parigi, agenzia Eldorado, 1984.

 

Gli annunci iniziali del team franco-elvetico-italiano hanno uno stile convenzionale e mostrano gruppi di giovani che indossano capi Benetton. La scintilla scatta nel 1984, quando nei poster e nelle pagine dei periodici si cominciano a vedere gruppi di adolescenti di varia provenienza etnica che mostrano di andare d’amore e d’accordo tra di loro, con ciò superando simbolicamente le intolleranze e le tensioni – razzistiche, religiose, politiche – che da sempre intossicano l’umanità. Le immagini, ancora fortemente segnate dai codici della moda e dei suoi cataloghi, sono accompagnate dal titolo “Tutti i colori del mondo” in varie versioni linguistiche, a seconda dei mercati di destinazione. La campagna non suscita né choc né malumore: la si apprezza per la levità con cui la moda si mette a dialogare con la speranza (pacifista, antirazzista, unificante); il messaggio è saldamente ancorato agli stilemi della moda giovanile; i colori che esibisce sono innanzitutto quelli dei capi d’abbigliamento e solo a una seconda lettura si coglie l’allusione ai colori della pelle. L’idea che, rivista con gli occhi di oggi, può apparire troppo “acqua e sapone” e naïf nella sua esecuzione, è potenzialmente formidabile. Nel 1984, certo, si sono viste – nella cittadella universale della pubblicità – manifestazioni creative più eccitanti, a cominciare dal lancio di Apple Macintosh con lo storico spot di Ridley Scott. Ma i colori di Benetton appartengono comunque, già in questa prima fase, alla vena nobile del pensiero pubblicitario, quello che risale al maestro dei maestri, Bill Bernbach. La memoria degli addetti ai lavori ritorna con affetto a un precedente indimenticabile del 1960-1961, quella serie di manifesti e pagine di quotidiano intitolati “You don’t have to be Jewish to love Levy’s” (Non è necessario essere ebrei per apprezzare Levy’s, il vero pane di segale ebraico). Una piccola galleria di simpaticoni soddisfatti della loro fetta di pane yiddish: non ebrei ma goym afroamericani, irlandesi, polacchi, cinesi, persino un Native American. Meravigliosa anteprima di tutte le pubblicità idealistiche ed ecumeniche venute più tardi. In sei ritratti la sintesi del melting pot metropolitano, in controtendenza rispetto alle idee circolanti a quel tempo. Erano anni in cui bianchi e neri erano ancora costretti a viaggiare su autobus diversi e a fare la pipì in toelette pubbliche separate; quanto agli ebrei, si sa che fu uno di loro, per l’appunto Bernbach, a rompere il monopolio White Anglo-Saxon Protestant di Madison Avenue e dintorni, elitario, targato Ivy League e con la puzza sotto il naso; fu la rivoluzione creativa di Bernbach ad aprire le porte dell’advertising a ebrei, greci, italiani e altri oriundi di talento, non importa se provenienti da Brooklyn o dal Bronx.

 

Colori, contrasti e cliché

Mi sono permesso di infilare questa digressione su Bernbach perché ci aiuterà ad analizzare meglio il caso Benetton. Si tende, giustamente, a riconoscere le innovazioni bernbachiane nell’umorismo, nell’understatement, nella disinvoltura del cosiddetto “approccio negativo”. Ma la lezione più incisiva, il vero marchio di fabbrica di quella rivoluzione, stava nella ricerca di insight finalmente autentici. Un insight è autentico quando proviene dalla vita reale delle persone e non da un’astratta liturgia di prodotti e consumi; e occuparsi di insight autentici comporta sempre qualche deviazione, piccola o grande, dalle convenzioni pubblicitarie. Sebbene la storia della comunicazione commerciale sia ormai annosa e matura, o forse anche per questo, il pensiero ordinario tende a tenere ben separato il campo del mercato dal campo delle opinioni profonde. La storia di Bernbach e dei suoi seguaci e affini si reggeva e si regge sulle infrazioni a questa regola non scritta.

La maggior parte delle aziende che investono in pubblicità, allora come ora, conserva un atteggiamento ambiguo rispetto al problema dei “sottotesti”, cioè dei significati secondari delle attività di comunicazione. Li cerca e, allo stesso tempo, li teme come la peste. Spesso investe molto denaro in ricerche, proprio per spiare a fondo non solo le abitudini di consumo delle persone ma anche le loro motivazioni, i loro sentimenti, le loro esistenze. Delle conoscenze così acquisite adotta però una frazione così modesta, e così insignificante, da rendere inutile lo sforzo e il costo di quelle indagini. Se ha poco coraggio corre a rifugiarsi nei cliché, e i cliché sono l’esatto contrario dell’autenticità.

Come qui ricorderemo, gran parte delle polemiche esplose intorno a “United Colors of Benetton” parte esattamente dalla convinzione che le opinioni devono restare separate dalle pratiche commerciali. Un dualismo – etica, costume, realismo versus consumo – persistente e inossidabile non solo nel mondo del marketing ma anche di molta consulenza creativa.

La case history Benetton procede per tappe, tentativi di avvicinamento alla mèta finale: che consisterà nel rovesciare il rapporto tra testo e sottotesto del messaggio. La causa sociale di turno diventerà il perno delle campagne istituzionali; mentre il prodotto, la marca, la merce ne diventeranno il sottotesto.

Nel 1985 il colore della pelle, che prima aveva il respiro di un’allusione, passa in primo piano e diventa la sostanza della proposta. Dalle foto di gruppo si passa alla sintesi e alla stilizzazione didascalica. Su fondo bianco, il titolo diventa “United Contrasts of Benetton”; nei layout orizzontali – poster di 6 metri per 3 e doppie pagine di riviste – spiccano, scontornati e accostati, da una parte la mano o il piede d’un bambino, dall’altra il ritratto d’un secondo personaggio; l’età dei modelli svaria dalla prima infanzia alla prima adolescenza. Il poster più riuscito, in quanto a impatto visivo, ci mostra la nuca di un punk giallocrestato accanto a una mano nera vista dal dorso e aperta a ventaglio. Se nelle figure intere dei gruppi precedenti c’era il trionfo dei vestiti in “tutti i colori del mondo”, qui l’abbigliamento si indovina da avari dettagli: un polsino rosso, un colletto blu, poco altro. Toscani e Suter cominciano a spingere il prodotto oltre i margini del foglio, un po’ alla volta, con grazia, per dare più spazio e più voce all’idea di fondo: liberté, égalité, fraternité. Ma sempre nell’85 compare un altro set di annunci, questa volta con il titolo “United Colors of Benetton”. Del resto era il colore il trait d’union fra la maglietta e l’amicizia universale; i contrasti, le differenze, non hanno bisogno di essere nominati con le parole; Benetton, insomma, non vende contrasti ma colori. Questa tappa è decisiva nell’evoluzione della campagna, anche se l’estetica concede qualcosa di troppo al didascalismo e allo stereotipo: le coppie di ragazzini visualizzate esibiscono bandierine e altri simboli di provenienza geografica, forse per compiacere i diversi target nazionali con un po’ di adulazione. O forse per farsi comprendere al volo da una fascia di pubblico che non ha ancora raggiunto l’età della scuola media superiore. Siamo ancora all’anticamera delle campagne di culto; prevale un buonismo da sillabario, vergine e, per il momento, vagamente velleitario. Ma il seme c’è.

Nel biennio 1986-1987 i personaggi sono leggermente più grandi d’età e i contrasti, da geografici ed etnici, si fanno anche ideologici. La guerra fredda e la questione palestinese entrano di striscio nel repertorio dei moventi d’ispirazione, insieme a pensierini più slavati. Il ragazzo nero ha una falce e martello sul papillon rosso e sul cappello; la biondina che gli sta accanto ha gli occhi azzurri e bandierine a stelle e strisce dappertutto. Uno sceriffo in erba di nome Andy Rider, con tanto di stella di latta sul petto, posa orgogliosamente con una Patricia boliviana very folk. Insieme condividono un mappamondo, e così fanno, in un’altra immagine della serie, un giovanissimo ebreo con occhiali e treccine e un coetaneo palestinese con la kefiah. Nel 1988 si cazzeggia un po’: un Leonardo da Vinci teenager posa incongruamente accanto a un Giulio Cesare coetaneo, in una serie intitolata, ahinoi, “United Superstars of Benetton”. Ci sono anche Adamo ed Eva parzialmente abbigliati in denim anziché in foglia di fico, e poi una Giovanna d’Arco in uniforme militare moderna che brandisce la spada accanto a, chissà perché, una giovane imitazione di Marilyn Monroe.

Alcune intuizioni sincere annegano in un campionario di stereotipi che rischiano di sotterrare l’idea di partenza sotto una coltre di fuffa. Più tardi, tuttavia, qualcuno provvederà a demonizzare persino questi timidi e goffi tentativi di aggancio all’immaginario popolare. Riferendosi a due doppie pagine consecutive uscite sul numero di marzo 1987 di The Face, la professoressa britannica di cultura fotografica Liz Wells commenta: «Toscani dice cose diverse sull’America e l’URSS attraverso le pose dei modelli e le insegne che esibiscono. Il ragazzino sovietico sta dritto e impettito, e ci saluta con un’espressione severa. Con la mano sinistra regge un razzo di carta nei colori delle tute mimetiche – probabile riferimento alla corsa agli armamenti. La ragazzina americana, invece, ci sorride gentilmente con una statua della Libertà in mano. A livello simbolico, abbiamo un’America gentile presentata come paladina di libertà, in contrasto con una Unione Sovietica severa e inflessibile presentata come responsabile della proliferazione degli armamenti. In molte fotografie della Benetton c’è un evidente supporto all’ideologia capitalista. In un’altra immagine, un ragazzino cinese vestito di blu ha in mano una copia del Libretto Rosso di Mao. Il libro è capovolto.» (L. Wells, Photography: A critical introduction, Londra, Routledge 1997).

Dubito che Toscani, Benetton o chi per essi abbiano scientemente tinto in salsa CIA gli innocui ritratti di cui scrive la Wells. Il problema della pubblicità in generale è che, essendo pensata per ottenere consensi, suscita il costante dissenso di chi la considera un insieme di manovre occulte e truffaldine. Questo pregiudizio peserà immensamente sulla comunicazione successiva di Benetton.

 

La parete di fango

Il 1989 è l’anno dei miracoli. La campagna ha finalmente un’impennata sublime. Per i contenuti, innanzitutto. Ma anche per la modernità ed efficacia del layout. E per quell’idea di trasformare il claim in un logo, una bandiera, uno statement che va oltre le convenzioni di sempre.

 

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La frase UNITED COLORS OF BENETTON si alterna ad altri titoli fin dal 1984, ma il rettangolo verde compare solo a partire dal 1989.

 

Partiamo dal rettangolo verde con la frase UNITED COLORS OF BENETTON. Luciano Benetton mette in gara due o tre colossi mondiali del design per sprovincializzare il vecchio logo di famiglia. Così Bruno Suter rievoca la svolta: «Un giorno Luciano mi chiama e mi fa: “Vieni a Londra, stanno per presentarmi la ricerca che hanno fatto.” Vado a Londra, guardiamo il lavoro e alla fine del meeting Luciano chiede cosa ne penso. “Pietoso”, dico. Era la verità. Avevano fatto del graphic design. Non era graphic design ciò che ci aspettavamo. Erano fuori. Di tutto avevano fatto, tutti i font del mondo, tutte le forme del mondo, ma si erano scordati del contenuto, e il contenuto è una filosofia. Ci rilavorarono, e sbagliarono un’altra volta. Dissi a Luciano: “Se la strada è questa, tanto vale non cambiare niente, tieniti il logo vecchio; non è male, non dà fastidio a nessuno. Se non si può migliorare...” Rispose: “Okay, non se ne fa nulla.” Un giorno che ero da loro in Italia per dare un’occhiata alla nuova collezione, vidi che alle confezioni avevano applicato delle etichette colorate con il nostro claim, United Colors of Benetton, invece di usare il logo come al solito. Staccai una di quelle etichette e andai da Luciano. Gli dissi: “Se vuoi cambiare il logo, mettici dentro la tua filosofia, United Colors of Benetton.” “Non è troppo lungo?” “No, basta usare un carattere condensed. Stesso verde, stessa forma, angoli retti anziché arrotondati così è un po’ più moderno, e il typeface più neutro possibile. Vuoi vedere? Andai giù dove avevano un computer, feci quello che dovevo fare, lui vide e approvò.» (Da un’intervista pubblicata nel sito del fotografo francoamericano Jacques Moury Beauchamp, http://tiny.cc/qwfs3).

Escono nel nuovo format diversi annunci, tutti più moderni e brillanti dei precedenti. In alcuni si vedono ancora delle facce: infarinate quelle di due fornai, uno nero e uno bianco; annerite quelle di due minatori; la farina e il carbone tendono ad omogeneizzare, in modo simpaticamente ironico, i diversi colori della pelle. Scatto in più in alcuni still senza volto: un braccio africano che inalbera un bouquet di fiori multicolore; il braccio bianco di un pittore che mostra la sua palette; quattro mani bianche e nere che reggono insieme una manciata di biglie colorate. Insomma si passa dalla foto didascalica alla sintesi simbolica, alla radice concettuale di quegli “United Colors”; il tema si fa più semplice e, al tempo stesso, più efficacemente segnaletico. Ma il botto vero lo fanno due immagini di intensità straordinaria: l’uomo bianco e l’uomo nero ammanettati insieme e la nutrice nera che allatta il neonato bianco.

L’annuncio con le manette mi ricorda un gran bel film di Stanley Kramer del 1958, The Defiant Ones, uscito in Italia col titolo La parete di fango. I forzati Tony Curtis e Sidney Poitier approfittano di un incidente occorso al furgone cellulare che li trasporta per svignarsela. I due evasi si odiano a morte e non hanno niente in comune, se non le manette che li tengono saldamente incollati l’uno all’altro. Braccati da poliziotti, cacciatori di taglie e doberman, sono costretti a trovare una via d’intesa per non soccombere. In una delle sequenze più drammatiche, dopo essere saltati d’impulso in una fossa paludosa per sfuggire agli inseguitori, si trovano alle prese con l’impegno più difficile: risalire lungo la scivolosa parete di fango. Potranno farcela solo a costo di una totale e dolorosa collaborazione.

 

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Tony Curtis e Sidney Poitier incatenati insieme in The Defiant Ones, 1958.

 

L’annuncio dell’allattamento – immagine purissima, versione aggiornata e inattesa delle Madonne con Bambino della storia dell’arte – apre ufficialmente la stagione dei premi, dei riconoscimenti internazionali, delle critiche e delle controversie. In America qualcuno accusa la foto di razzismo in quanto rievocatrice della vita nei campi di cotone, quando tra i compiti affidati alle schiave nere c’era anche quello di allattare i figli del padrone. Lettura superficiale e del tutto avulsa dal contesto, che è programmaticamente antirazzista. Ancora una volta è la natura “pubblicitaria” dell’oggetto ad accendere sospetti e diffidenze, a scatenare reazioni di insofferenza.

 

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1989. Uno degli annunci più premiati della saga.

 

Ma l’arsenico non arriva solo dall’esterno. In Eldorado serpeggiano dissapori. I due galli del pollaio, Toscani e Suter, cominciano a contendersi la paternità dei lavori. Il primo nega i contributi dell’altro, e sostiene che le idee sono sue e soltanto sue. Oliviero ha un caratteraccio, e Suter non dev’essere di certo un tipo remissivo. Vince Oliviero. Impone a Luciano Benetton un aut-aut (“fuori lui o fuori io”) e, con il consenso del cliente, scarica definitivamente l’avversario. Addio Parigi. Mette su un’agile squadretta di assistenti e procede da solo. A testa bassa contro la pubblicità, i pubblicitari e il mondo intero.

Non è vero, come sostiene Séguéla, che a partire da questa separazione la campagna e la marca cominciano a perdere colpi. Non è vero che Toscani, lavorando da solo e disponendo di totale carta bianca, tradisce la continuità dell’impresa in cui si è cacciato. Continuano a fioccare poster e pagine di alto livello creativo e simbolico, accreditate a lui con la collaborazione di un graphic designer italiano, Salvatore Gregorietti. Tra il 1990 e il 1991, Toscani razzola ori, argenti e nominations dell’Art Directors Club Italiano per una ventina di exploits. Per non parlare dei premi internazionali.

L’annuncio in cui si vedono affiancate dodici provette con campioni di sangue, etichettate con i nomi senza cognome di altrettanti leader planetari (da Margaret a Fidel, da Nelson a Yasser), è semplice e geniale. Estremo nitore grafico al servizio di un’utopia che è la madre di tutte le utopie: la fratellanza universale, il superamento di dissidii e sfruttamenti, l’equivalenza assoluta di diritti e doveri. Può stupire, semmai, che il poeta della tolleranza sia Toscani, il più intollerante e scorbutico dei nostri fratelli. (E possiamo dare per scontato che non si offenderà per l’aggettivo scorbutico, ma per avergli dato del fratello).

 

L’effetto Rousseau

Quando, nel 1762, Jean-Jacques Rousseau pubblicò il suo capolavoro pedagogico, Émile ou de l’éducation, aveva sulla coscienza cinque figli abbandonati all’ospizio dei trovatelli. I suoi detrattori non smisero mai di sminuire il suo lavoro a causa di tale contraddizione. Ma Rousseau è Rousseau e l’Émile è l’Émile: a un certo punto le opere dell’uomo hanno il diritto di vivere di vita propria e di essere giudicate indipendentemente dal comportamento dei propri autori.

Su Toscani grava un “effetto Rousseau” che impedisce ai pubblicitari di analizzare serenamente il suo lavoro. Ma un “effetto Rousseau” ancora più severo grava, come vedremo, su Luciano Benetton, colpevole di essersi imbarcato nei problemi più complessi dell’umanità al solo scopo di vendere quattro magliette. L’accusa è uguale e contraria: Toscani forse razzola bene ma predica male (le sue dichiarazioni pubbliche sono sempre offensive e inquietanti), mentre Benetton predica bene e razzola male.

Torniamo al 1990. Toscani e Benetton non hanno ancora inserito la cattiveria, la rabbia, la provocazione dura nella loro galleria di quadri, dominati da una cifra ancora dolcissima di speranza, affetto, condivisione. Al contrario di Rousseau, Toscani adora i bambini; con loro si ingentilisce, e si vede. Come dimenticare il bianchino e il negretto che si fronteggiano dai rispettivi vasini, scherzando insieme e scambiandosi effusioni? E la manina nera fiduciosamente posata, palmo a palmo, sulla grande mano bianca? E l’altro negretto addormentato in una selva di orsetti bianchi di peluche? Anche gli animali vengono convocati a questa grande festa cartacea dell’amore universale: il lupo bianco, amico dell’agnello nero, è prudentemente interpretato da un tenero husky siberiano. “United Colors of Benetton” fa sparire il vestiario e la moda per volare con la forza delle immagini, dei contrasti apparenti, dell’idealismo allo stato puro.

Il 1991 è l’anno in cui nello schema della campagna cominciano a moltiplicarsi argomenti e linguaggi molto diversi tra loro. Il format mostra, a mio avviso, uno dei suoi punti di forza: l’estrema flessibilità. La strategia dei “colori uniti” e la sua articolazione grafica bastano da sole a unificare i diversi capitoli di uno stesso racconto: e anche questa è un’opinione personale, perché so che non molti sono stati, sono o saranno disposti a condividerla. Un primo gruppo di annunci si limita a prolungare il filone poetico della natura (l’autunno col suo mosaico di foglie colorate), dei bambini (il trio di monelli che fanno linguaccia), degli animali (il pappagallo dai colori vivaci in groppa alla zebra), delle coppie miste che si vogliono bene (un bacione bianco sulla guancia nera). Altri annunci filosofeggiano con lieve ironia (un bel rotolo di carta igienica il cui biancore immacolato contrasta col bordino grigiastro; cinque Pinocchi che marciano in fila indiana, uguali ma realizzati con legni di colore diverso). 

 

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Angel and Devil, 1991. Protestano alcune comunità afroamericane.

 

Ma ecco apparire i primi annunci-scandalo. Preservativi a colori fluttuanti contro l’Aids. Altri preservativi disposti a cerchio in numero di cinque, come gli anelli delle Olimpiadi, in vista dei giochi di Barcellona (1992). Un cimitero di guerra pieno di croci cristiane tra cui si intravede una lapide con la stella di David. Il sorridente putto bianco abbracciato al diavoletto nero. Il seminarista e la novizia che si baciano languidamente. La bambina appena estratta dall’utero materno, insanguinata e non ancora liberata dal cordone ombelicale. Materiale, insomma, già in odore di infrazione, offesa al pudore, censura, bumbùm mediatico, tribunale, aula accademica, conferenza, elzeviro, mostra d’arte, Biennale, Triennale, inchiostro, microfono, sdegno popolare, indignazione stellare, esultanza di fan, parole grosse, lapidazione morale, ostracismo, scontro ideologico, pornografia, scontro culturale, vilipendio alla religione (cattolica), anarchia, razzismo, antirazzismo, iconocrazia, iconoclastia, e al brodo aggiungete pure altri ingredienti con tutta la fantasia gastronomica di cui siete capaci. 

 

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1991. L'opinione pubblica si divide in favorevoli e contrari. Con questa immagine in copertina esce il primo numero di Colors.

 

Credo sia utile sottolineare che nel frattempo Toscani, con la collaborazione del grande designer americano di origine ungherese Tibor Kalman (1949-1999), ha fondato per Benetton la rivista sperimentale Colors (quattro lingue per una quarantina di paesi, periodicità irregolare): un preciso fil rouge congiunge, da questo momento, le campagne istituzionali con la nuova attività, squisitamente editoriale, della Casa. La neonata Giusy appare simbolicamente sulla copertina del primo numero, datato luglio 1991, che contiene al suo interno anche l’annuncio dell’allattamento. Kalman occupa un ruolo rilevante nello sviluppo del sistema “United Colors of Benetton”. Si autodefinisce attivista sociale del graphic design, contesta le aziende che fanno del gran bel design ma sfruttano i loro lavoratori, collabora con riviste di culto come Artforum e Interview. Parla di Colors come del «primo magazine per il villaggio globale, destinato a un pubblico dalla mente flessibile, giovani tra i quattordici e i vent’anni, o curiosi di ogni età» (www.aiga.org/medalist-tiborkalman/). Muore a cinquant’anni per un linfoma. Quando l’AIGA, l’associazione dei professionisti del design, gli dedica una medaglia alla memoria, nella nota biografica commemorativa paragona il suo contributo a quello di Apple Macintosh per aver impresso una svolta decisiva al design, a metà degli anni Ottanta: «Tibor non sarà stato determinante come il Mac nella pratica quotidiana del graphic design, ma la sua influenza sul pensiero dei designer – sul loro modo di definire il proprio ruolo nella cultura e nella società – è incontestabile. Per una decade è stato la bussola morale di questa professione e il suo provocatore più fervente.» (ibidem)

Il diavoletto nero, con due ciocche di capelli rizzate simmetricamente a mo’ di corna, suscita costernazione tra gli afroamericani. Il bacio del prete e della suora fa inorridire, com’era prevedibile, il Vaticano e i fedeli. La neonata divide a metà il popolo dei commentatori: da una parte coloro che ci vedono un commovente inno alla vita, dall’altra coloro che trovano immorale l’intrusione della macchina pubblicitaria in uno dei due momenti più sacri dell’esistenza. L’altro momento, la morte, esplicitamente evocato dal cimitero militare, suscita ancora più scandalo: rifiutato da tutte le altre testate trova spazio solo su Il Sole 24 Ore, mentre nel Golfo Persico infuria la guerra. Che dire? Il destino delle “opere aperte” è proprio questo: provocare una gamma di reazioni estremamente varia e articolata, che può andare dall’adesione al rigetto, dal disorientamento all’indignazione. Succede anche con l’arte: Maurizio Cattelan ne sa qualcosa. Solo la cronaca tende a salvarsi dall’opposizione di massa, anche quando insiste – morbosamente – nelle rappresentazioni più crude.

Il fatto che Luciano Benetton rischiasse di rendere impopolare il suo marchio è qualcosa su cui riflettere. Il “venditore di magliette”, “magliaro”, “magliettaro”, come spesso è stato etichettato dai detrattori, ha accettato quel rischio (di cui non poteva non essere consapevole) e si è messo un po’ nei panni del mecenate, un po’ in quelli del cittadino engagé. Ha subordinato il marketing alle idee. Molti lo accusano del contrario: di aver profanato i valori più elevati dell’umanità subordinandoli ai più bassi scopi commerciali. Ma io non credo che il bacio della novizia gli abbia procurato vistosi incrementi di share. Né credo che sia stato plagiato da Toscani come può esserlo un Faust minorenne tra le braccia di Mefistofele.

Un imprenditore ha o non ha il diritto di mobilitare opinioni che non siano strettamente correlate al consumo? Il fatto che la comunicazione commerciale possa occuparsi di cose importanti quali l’Aids, la guerra, il razzismo, è negato dai più. Questione di parole, definizioni, contesti, categorie. Se prendi la mamma nera col bambino bianco attaccato al seno e, anziché targarli Benetton, li firmi Pubblicità Progresso, tanti animi si rasserenano. Se prendi il cimitero di guerra e lo firmi con la sigla di una onlus l’annuncio diventa non solo accettabile, ma benemerito. Ciò che sembra imperdonabile è l’accostamento – sempre considerato impuro – tra l’anima e il commercio. Se lo stesso Benetton, o chi per lui, invece di usare quei temi in una campagna “pubblicitaria” avesse sponsorizzato le stesse immagini (senza il rettangolo verde e la scritta incriminata) in una mostra, gli avrebbero detto grazie. Eppure le ragioni di una sponsorizzazione non sono drasticamente dissimili da quelle dell’advertising. Un’azienda può esprimersi con tutto ciò che ha a disposizione: relazioni pubbliche, spazi a pagamento, squadre di calcio o di Formula Uno, conferenze stampa, promozioni, beneficenza, persino – come si è visto in questo paese – “discese in campo”; ma la voce è sempre una, il fine è sempre uno, non c’è differenza tra finanziare mostre e comprare pagine. So di essere in scarsa compagnia a pensarla così, ma non me ne rattristo: aspetto fiducioso una più diffusa alfabetizzazione sui temi della comunicazione di massa, della pop culture, dei meccanismi mediatici. Gli strumenti disponibili oggi, anche alla critica accademica, non sempre aiutano a far luce nel complesso sistema di un mondo in cui le informazioni s’infittiscono a velocità esponenziale, s’intrecciano fra loro, preludono a cambiamenti epocali di prospettiva e di giudizio.

Se negli anni Settanta si discusse fino allo spasimo sull’assunto “il mezzo è il messaggio”, il caso Benetton si presta alla dimostrazione di un nuovo teorema: “il messaggero è il messaggio”. Con variazioni e aggravanti successive che riguardano altri comportamenti aziendali e che proveremo ad esplorare alla fine di questa ricognizione.

 

Il messaggero è il messaggio?

Un venditore di noccioline offre la sua mercanzia all’ingresso di un vasto parco paludoso. A ciascun visitatore raccomanda di tenersi alla larga dal sentiero n. 3, perché sfocia all’improvviso nelle sabbie mobili sebbene manchino, al momento, i regolamentari cartelli di avvertimento. Alcuni dei visitatori ringraziano e i più generosi, per ricambiare la cortesia, gli comprano un cartoccio di noccioline. Altri, più sospettosi, lo guardano di traverso e tirano dritto, per dimostrargli che non si lasciano impressionare dalle chiacchiere di uno spacciatore di arachidi. Qualcuno, infine, lo denuncia alle autorità per essersi preso la briga di sorvegliare un sito pubblico senza averne la licenza.

Più o meno allo stesso modo reagiranno il pubblico e le istituzioni alla campagna Benetton del 1992. Kalman e Toscani, i nostri metaforici arachidisti, si sono lanciati a capofitto in una missione impossibile: risvegliare le coscienze del prossimo squadernandogli sotto gli occhi una mappa di sentieri uno più lugubre dell’altro. Non si tratta di una palude immaginaria ma di una geografia apocalittica, reale, disseminata di insidie: Aids, Disastro ambientale, Disperazione, Emarginazione, Emigrazione, Esodo, Fame, Guerra, Infanzia abbandonata, Inondazione, Lavoro minorile, Mafia, Miseria, Pena di morte, Sfruttamento, Violenza. Per rendere più verosimili le piaghe del mondo, Toscani ha messo a riposo la sua macchina fotografica e selezionato, con Kalman, una serie raccapricciante di foto di reportage, sulle quali si limita ad applicare il rettangolo verde degli United Colors. L’unico intervento di qualche consistenza è sulla famosa fotografia di David Kirby scattata in bianco e nero da Therese Frare, colorata artificialmente per l’occasione.

 

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L'annuncio più controverso della storia della pubblicità secondo il Guinness dei Primati. La morte di David Kirby in una foto di Therese Frare.

 

Il giovane Kirby, attivista anti-Aids e malato terminale, giace in un letto dell’Ohio State University Hospital, a Columbus, assistito dal padre Bill, dalla sorella Susan e dalla nipote Sarah. Sta esalando l’ultimo respiro e somiglia a un Cristo appena deposto. La foto della Frare risale al maggio del 1990, è stata pubblicata su Life e ha vinto il World Press Photo Award del 1991. La famiglia ne ha autorizzato la pubblicazione nella campagna Benetton, sebbene informata dell’uso che ne sarebbe stato fatto: «Noi non abbiamo la sensazione di essere usati ma di usare la Benetton: David parla a voce molto più alta ora che è morto che non quando era vivo», dice la madre Kay (v. Marco De Martino, Panorama n. 1347, 9.02.1992). Molti mezzi di informazione rifiutano di ospitare l’annuncio. Esce comunque su varie testate (tra cui, in Gran Bretagna, The Face e Arena): quanto basta per tirarsi addosso una montagna di guai. Proteste alle stelle e ingresso nel Guinness dei primati (2000) come “la campagna pubblicitaria più controversa di sempre”.

 

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La copertina di Colors n. 7, 1994.

 

Gli altri annunci-reportage non sono meno impressionanti: profughi africani all’assalto di un container; quattromila profughi albanesi che cercano di imbarcarsi su un cargo diretto in Italia (cover story del n. 2 di Colors, gennaio 1992, con ampio servizio sui forzati dell’immigrazione); maiali affamati in una discarica peruviana; un uomo e una donna in cerca di riparo mentre sono immersi nell’acqua durante un’alluvione monsonica a Calcutta; auto in fiamme davanti a una pizzeria siciliana; soldato liberiano con kalashnikov a tracolla e un femore umano tra le mani, ripreso di spalle da Patrick Robert; il cadavere di un uomo ucciso dalla mafia, ancora sul marciapiede dove è stato colpito e vegliato da tre donne vestite a lutto (foto di Franco Zecchi); una zulu albina in Sudafrica, tenuta a distanza dal resto della tribù che la osserva inorridita; bambini piccolissimi al lavoro in un cantiere colombiano; emaciata bambina salvadoregna che vende carbone ai passanti mentre stringe fra le braccia una bambola più triste di lei; una sedia elettrica nella camera vuota; un uccello acquatico intriso di petrolio nel Golfo Persico, fotografato da Steve McCurry durante la prima guerra del Golfo (4oo galloni di grezzo in mare: catastrofe ambientale provocata dal governo di Saddam Hussein per bloccare lo sbarco dei Marines, oppure dai bombardamenti della coalizione sulle petroliere irachene, a seconda delle fonti)... La foto di McCurry compare anche sulla copertina del n. 3 di Colors, marzo 1993: prende sempre più corpo il progetto di una informazione polimediale a sfondo umanitario, educazionale, controculturale, le cui modalità editoriali sono affidate alla creatività di un team di sperimentatori di varia nazionalità (tra gli altri, nella redazione del magazine, Karrie Jacobs, Lucy Shulte, Alice Albert e Gary Koepke sotto la guida dei già citati Toscani e Kalman).

 

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Soldato liberiano con femore umano e kalashnikov, 1992. La foto è di Patrick Robert.

 

Le situazioni riprodotte nella campagna sono senza dubbio orribili: non perché siano state usate in una pubblicità, ma perché raccontano le sofferenze e le mostruosità del nostro tempo. Mi turbano nella pubblicità di Benetton allo stesso modo con cui mi turbano se le vedo nelle pagine redazionali dei quotidiani, del National Geographic, dei libri di storia. Mi turbano quale che sia la fonte d’informazione, e ritengo prevalente su qualsiasi altra considerazione la necessità di vedere immagini come queste e meditarci sopra.

C’è, naturalmente, un altro problema che turba la mia coscienza. Io stesso ho collaborato alla stesura di un manifesto deontologico, quello dell’Art Directors Club Italiano, nel quale fra l’altro si dichiara: «Ogni volta che creiamo un messaggio noi soci Adci ci interroghiamo sulla sua appropriatezza. I nostri messaggi entrano nelle case e nelle vite altrui: dobbiamo chiederci sempre se quello che a noi pare appropriato lo sia anche per gli altri. La vera creatività non risiede nella trasgressione distruttiva e fine a se stessa, ma nel reinventare la norma aprendole prospettive nuove e fertili.» Mi rendo dunque ben conto che ciò che a me pare etico e appropriato non lo sia necessariamente per gli altri, e viceversa. Personalmente mi sento offeso e disgustato da centinaia di campagne pubblicitarie assolutamente inattaccabili da qualsiasi giurì, conformi alle normative scritte e non scritte, aderenti al sentire comune, ma indecenti per intrinseca volgarità; pubblicità che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, soprattutto televisive, con martellanti e sorridenti balordaggini su pance gonfie, ascensori puzzolenti d’urina, automobili rifiutate perché costano poco, gocce d’aceto da leccare sull’erba del prato, istigazioni al gratta e vinci e altri giochi similmente alienanti...

Io mi interrogo sull’appropriatezza degli annunci Benetton più contestati, ma anche su quella di annunci che la maggior parte delle persone tende a giudicare innocui. Come professionista eviterei di fare gli uni e gli altri: i primi per rispettare il sentimento comune, gli altri per rispettare un’idea di decenza e dignità forse più sottile ma costantemente pericolante. Il mio cuore, comunque, sta dalla parte dei primi.

Molti dei temi di cui si è occupata nel tempo la saga Benetton – l’Aids, il razzismo, la violenza, etc. – sono oggetto di campagne sociali non profit. Lo stesso sentimento comune che rimane inorridito davanti a un manifesto United Colors accetta senza riserve la necessità e l’efficacia delle campagne di sensibilizzazione pubblica su quegli argomenti. Se l’annuncio più problematico di tutti, quello di Kirby in punto di morte, fosse riuscito a salvare una sola vita e lo si potesse dimostrare, tutte le accuse si sgonfierebbero come un pallone bucato. Purtroppo è una prova a discarico che non troveremo mai.

 

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Gli indumenti insanguinati di Marinko Gagro ucciso nella guerra in Bosnia, 1994.

 

Con riferimento agli episodi più discussi, i critici meno superficiali della comunicazione Benetton le imputano la colpa di aver “decontestualizzato” la cronaca; di aver ridotto i malesseri del mondo ad astrazione pura, sintetica, inspiegata, peggio ancora: estetica (di specie iperreale e dark), trasformandoli in icone usa-e-getta, merce da consumare più in fretta di un etto di popcorn. Può essere vero, ma solo fino a un certo punto: in una civiltà come la nostra, bersagliata ventiquattr’ore su ventiquattro da informazioni e immagini d’ogni tipo, la mente umana tende a stabilire relazioni e raccordi fra eventi eterogenei decostruendo e ricostruendo ciò che le pare e come le pare; il tutto senza neanche l’aiuto di quelle ideologie che, fino alla soglia degli anni Novanta, indicavano alle coscienze – nel bene e nel male – i percorsi da seguire. I “contesti” di cui disponiamo sono futili: categorie semplificate (questa è pubblicità, questa invece no; questo l’hanno detto al telegiornale, dunque dev’essere vero; quello è musulmano, dunque sarà un terrorista).

Critici meno accademici tendono a rifiutare in toto l’approccio sociale di “United Colors of Benetton” un po’ per motivi già detti (come si permette un venditore di magliette?), un po’ perché le punte più shocking della serie – una minoranza nel calderone di oltre cento annunci e manifesti di qualche rilievo –gettano una luce sinistra sull’intera operazione. Non credo sia un buon metodo quello di giudicare tutti gli episodi della serie con lo stesso metro. Bisogna vedere, caso per caso, chi si offende e perché. Benissimo ha fatto, per esempio, la figlia del morto ammazzato dalla mafia a querelare la Benetton per aver sbattuto sui muri quell’immagine dolorosa e profanato il dolore della famiglia. Ha perfettamente ragione. Ma il barcone dei profughi albanesi ha offeso gli albanesi o inquietato gli italiani? E quali italiani ha inquietato? Quelli che vorrebbero ributtare a mare il popolo dei barconi o quelli che si commuovono per le loro disgrazie?

 

Magliette insanguinate e cuori di maiale

Forse un po’ colpiti dalla durezza delle reazioni alla campagna-reportage, Toscani e il suo committente ritornano alle immagini autoprodotte e abbassano un po’ i toni e l’estensione della denuncia. Fra il 1993 e il 1995 si concentrano soprattutto sull’Aids, con annunci educational (anche questi, comunque, molto avversati) che mostrano parti del corpo umano marchiate con la scritta H.I.V. POSITIVE. Il 1° dicembre 1993, giornata mondiale Aids, Benetton e il gruppo Act Up Paris infilano un profilattico gigantesco, alto 22 metri, sull’obelisco di Place de la Concorde a Parigi. E giacché si è in tema di corpo umano, Toscani pensa bene di riempire due pagine di United Colors con gli organi genitali di 56 persone – donne, uomini, vecchi e bambini. Usa lo stesso campionario in Olanda per tappezzare i muri del salone centrale del Bonnefantenmuseum di Maastricht. Le stesse immagini si vedranno anche alla Biennale di Venezia. Il n. 7 di Colors (giugno 1994) è interamente dedicato alla malattia.

 

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Annuncio di sensibilizzazione sull'Aids, 1993.

 

Nel 1994, a Treviso, Benetton inaugura Fabrica, il centro di ricerche sulla comunicazione ospitato nel magnifico complesso architettonico restaurato e ampliato da Tadao Ando. Né scuola, né agenzia né università, come si legge nel sito della sede, ma laboratorio di creatività applicata, culla di talenti aperta a giovani artisti di ogni disciplina e di ogni parte del mondo. Ma lo stesso anno Toscani spara un altro colpo di cannone, i cui effetti mettono davvero in cattiva luce la reputazione della ditta. Si tratta della T-shirt e dei pantaloni insanguinati del giovane miliziano croato Marinko Gagro, ucciso durante la guerra in Bosnia. Il padre del ragazzo protesta in un’intervista rilasciata a Die Woche, settimanale liberal di Amburgo. Dice che gli indumenti gli sono stati estorti con l’inganno e che credeva sarebbero serviti per una campagna non profit contro la guerra. In più, sostiene che la vistosa macchia di sangue sulla T-shirt è falsa. Gli accusati negano l’uno e l’altro addebito. Non manca, però, chi approva incondizionatamente l’idea: Amnesty International, per esempio. Un quotidiano di Sarajevo si attiva per far tappezzare la città con il manifesto incriminato.

Nel 1995 esce nella serie “United Colors” il nudo di Roberto Maurizio Coatti, più noto come Eva Robin’s, caso raro di intersessualità (donna dalla testa ai piedi, timbro vocale compreso, ma dotata di genitali maschili). Alla fine dell’anno Tibor Kalman lascia la redazione di Colors, che esce con un numero speciale senza parole. Gli succederà Alex Marashian.

Nel 1996 uno dei manifesti più belli della serie: il cavallo nero che monta una giumenta bianca. Sfondo limbo, animali scontornati, solo una striscia di sabbia bianca sotto gli zoccoli: impatto impressionante. Poi è la volta di tre cuori allineati sul solito sfondo bianco, sormontati dalle scritte WHITE BLACK YELLOW: un simbolo potente dell’umana uguaglianza, anche se per la foto sono stati utilizzati cuori di maiale. Uscito il 1° marzo 1996 per la giornata mondiale dell’antirazzismo, il manifesto suscita vivaci proteste e viene bollato come “il più razzista” degli annunci Benetton. La legge del contrappasso colpisce ancora: è un destino al quale la campagna non riesce, nemmeno con le migliori intenzioni, a sottrarsi. Per il World Food Summit che si tiene a Roma nel novembre 1996, Benetton opta per un manifesto in collaborazione con la FAO; l’immagine di Toscani, semplice e molto simbolica, è quella di un lungo cucchiaio di legno.

 

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Per il World’s Anti-Racism Day, 1° marzo 1996.

 

Il 1998 è dedicato prevalentemente a una campagna sui diritti umani, in occasione del 50° anniversario della Dichiarazione universale firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 e promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli stati membri. Nessuna provocazione. United Colors con tante facce e citazioni testuali dal nobile documento. Gli assetati di polemiche e di scoop sono in pausa più o meno da un biennio. Non è improbabile che sia già incominciato il braccio di ferro tra Benetton, incline alla prudenza dopo le troppe bastonate subìte, e il suo dark side incarnato nella figura di Toscani. Ma l’imprenditore non sa che il peggio deve ancora venire. Il guaio scoppierà nel gennaio del 2000, con l’operazione “We on death row” (noi del braccio della morte).

 

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Dopo due anni di ricerche e gestazione, Toscani e Benetton varano un imponente progetto internazionale di sensibilizzazione contro la pena di morte. I veicoli di diffusione sono un supplemento editoriale di 96 pagine, un video, il website aziendale e una serie di manifesti e annunci-stampa targati “United Colors of Benetton”. Il servizio consiste in ritratti e interviste a ventisei detenuti nelle prigioni di sei stati americani, tutti condannati a morte in attesa di esecuzione. Il boato suscitato dalla campagna è aggravato da sospetti e fughe di notizie in merito a un banale obiettivo di marketing: incrementare la notorietà della marca negli USA. John Morganelli, procuratore distrettuale della contea di Northampton, Pennsylvania, propone il boicottaggio dei prodotti Benetton e minaccia di presentare non solo al parlamento del suo stato, ma anche al congresso federale, una risoluzione di condanna della campagna; nell’ambito di queste iniziative  attribuisce a Carlo Tunioli, vicepresidente della Benetton USA, un’ammissione pericolosa: «Non c’è alcuna correlazione fra questi tizi (i condannati, ndr) e i nostri pullover. In termini di strategia pubblicitaria, ciò che stiamo realmente facendo è costruire brand awareness.» Mark Major, portavoce di Benetton USA, precisa alla stampa che Tunioli non ha mai rilasciato la dichiarazione incriminata (The Morning Call, 16/02/2000).

 

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Contro la pena capitale, 2000. L’America si arrabbia, il Missouri trascina l’azienda in tribunale e Sears boicotta i prodotti. Benetton liquida Toscani.

 

I familiari delle vittime (sono almeno 45 gli omicidi addebitati ai killer in questione) protestano per il tentativo di “umanizzare i carnefici”. Lo stato del Missouri si costituisce parte civile contro la Benetton, gli autori della campagna e il loro garante, il giurista Speedy Thomas H. Rice, per aver fornito ai responsabili del Potosi Correctional Center motivazioni fraudolente allo scopo di ottenere il permesso di contattare i detenuti (un progetto contro la pena di morte sottoscritto da Benetton, ma senza alcun accenno all’uso pubblicitario che ne sarebbe stato fatto). La società si difende rivendicando il diritto di sostenere una causa sociale, ma si scusa con i parenti delle vittime ed elargisce, a mo’ di indennizzo, una donazione di 50.000 dollari al Missouri Crime Victims Compensation Fund. La Sears, Roebuck and Co., una delle maggiori catene americane di grandi magazzini, rescinde il contratto di distribuzione stipulato con Benetton, punizione che all’azienda italiana costa la perdita di 400 preziosi punti vendita. Anche Dianne Clements, presidente di Justice for All – un gruppo di Houston che si batte per i diritti delle vittime di reati – promuove iniziative di boicottaggio: «Ciascuno ha il diritto di esprimere la propria opinione», dichiara, «ma una campagna pubblicitaria non è un dibattito sociale. Se lo fosse, ci sarebbe equilibrio tra le posizioni. In questo caso non c’entra la pena di morte, c’entrano i prodotti Benetton.»

Questa volta il danno è più tangibile e consistente di quelli che l’azienda ha subìto in passato a causa delle controversie scatenate dai suoi annunci. Talmente insopportabile che, ai ventisei “sentenced to death” immortalati – si fa per dire – da quelle foto e da quelle interviste, se ne aggiunge, metaforicamente, un ventisettesimo: Oliviero Toscani in persona. Condannato ad abbandonare per sempre l’azienda di Ponzano Veneto, il laboratorio Fabrica, la redazione di Colors (l’ultimo numero da lui diretto, il 38-39 di settembre 2000, è uno speciale su moda e antropologia; contiene, fra le altre, anche la foto di sette reclusi in pigiama a strisce nella prigione di Estrella, Phoenix, Arizona). Alla gestione di Colors si alternano, negli anni post-Toscani, creativi e artisti di Fabrica tra cui Renzo di Renzo, Richard Christiansen, Oliver Chanarin, Fernando Gutiérrez, Adam Broomberg, Stefan Ruiz, Kurt Andersen, Emily Oberman, Bonnie Siegler, Grégoire Basdevant, Lorenzo De Rita, Peng Yangjun, Chen Jiaojiao, Cosimo Bizzarri, Patrick Waterhouse, Scott Heinrich, Rose George, Erik Ravelo.

Un’epoca si chiude: quasi definitivamente. Nella pubblicità del rettangolo verde ritorna prepotentemente la moda, che Toscani e Kalman avevano estromesso dal proprio orizzonte; una moda colorata, elegante e futile, affidata a bravi fotografi e modelle glam, amplificata da pagine di social network in cui non si vedono mai né reietti né discariche né condom. Non che l’impegno sociale sparisca del tutto; la rivista Colors mantiene più o meno intatta la sua identità. Ma le nuove iniziative di pubblicità engagé procedono per conto loro, a prudente distanza dalla mainstream campaign e preferibilmente gestite in compartecipazione con organismi e istituzioni al di sopra di ogni dissenso. Gli argomenti e lo stile indulgono a buoni propositi universalmente accettabili: l’Anno internazionale del Volontariato (2001), il World Food Programme dell’ONU declinato in tutte le sue ramificazioni: diritto alla salute, all’istruzione, alla libertà, al lavoro, alla pace e alla speranza di futuro (2003); l’animalismo evocato da primi piani di scimmie in una serie fotografica di James Mollison (2004); il progetto di microcredito in Senegal di Birima, la società di credito cooperativo fondata dal cantante senegalese Youssou N’Dour, alla quale il Gruppo Benetton destina anche un solido sostegno economico (2008).

 

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Una foto di James Mollison per la campagna Food for Life, 2003.

 

Non manca del tutto, comunque, la voglia di rinverdire (è il caso di dirlo) lo spirito di Oliviero Toscani e del suo istinto per le immagini forti. In uno degli annunci del World Food Programme campeggia il torso nudo di un africano fotografato da James Mollison; al posto della mano destra, evidentemente amputata, ha una protesi metallica che, dopo uno snodo, culmina in un cucchiaio. In una doppia pagina del 2008 si fronteggiano su sfondo bianco un monaco tibetano e un soldato cinese, raccolti in comune preghiera per le 70.000 vittime del terremoto che il 12 maggio ha devastato la provincia di Sichuan (credits: Erik Ravelo e Piero Martinello). Pubblicato sui quotidiani italiani e su Le Monde, a debita distanza di sicurezza dalla Repubblica Popolare Cinese, l’annuncio esce in concomitanza con le Olimpiadi di Pechino.

Nel periodo post-Toscani si registra anche qualche iniziativa pubblicitaria locale come Ants, un lavoro (2007) della Ogilvy & Mather di New Delhi, che coglie nel closeup di una cucitura su jeans l’allusione a una fila di formiche operose: la campagna esorta gli indiani a darsi da fare per contribuire allo sviluppo dell’economia nazionale. È un fake, invece, la campagna United Colors contro la violenza domestica, ascritta alla McCann-Erickson di Mumbai e circolante dal 2007 sul web, che espone ritratti di donne dallo sguardo triste, con ferite ed ematomi sul volto, in layout su sfondo bianco che riecheggiano lo stile a noi noto. I falsari sono Denzil Machado, art director, e Jatin Kampani, fotografo.

 

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Nel 2011 si riaccendono le polemiche con la campagna “Unhate”. Suscitano incidenti diplomatici i baci proibiti della serie, come questo tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti d’America.

 

Ma torniamo a Treviso. Chi s’illudeva che, rimosso Toscani, sarebbero finiti i casini, deve ricredersi nel novembre 2011, quando – a dodici anni da “Sentenced to death” – scoppia la bomba “Unhate”. Che le campagne pacifiste facciano più scandalo delle guerre è un paradosso risaputo, specialmente se a promuoverle è ancora una volta Benetton e se si tirano in ballo, in un imbarazzante campionario di fotomontaggi osé, i leader del pianeta, ovviamente senza aver preventivamente interpellato i rispettivi uffici stampa. “Unhate”, gioco di parole polisemico che sta per non-odio, riecheggia la pronuncia di United e, con le due lettere iniziali in font diverso dalle altre, strizza l’occhio alle Nazioni Unite, è una galleria di baci sulla bocca tra coppie di antagonisti illustri: papa Benedetto XVI e Ahmed el Tayyeb, grande imam di Al Azhar, la più importante istituzione del mondo sunnita; Barack Obama e il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao; Angela Merkel e Nicolas Sarkozy; i capi di stato delle due Coree, Kim Jong-il (Nord) e Lee Myung-bak (Sud); Mahmud Abbas, presidente della Palestina, e Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano; ancora Obama e Hugo Chávez, presidente del Venezuela. Accreditata a Carlo Cavallone ed Erik Ravelo (direzione creativa), Robert Nakata e Paulo Martins (designer), la campagna di Fabrica serve al lancio della Unhate Foundation, nuova istituzione con cui il gruppo Benetton si propone di contrastare la cultura dell’odio attraverso una serie di ricerche e progetti concreti. L’intenzione sarà pure benemerita ma le immagini provocano, tra le altre, la protesta ufficiale del Vaticano e della Casa Bianca. Mentre ciò accade, la rete è pervasa da un mormorio più sommesso: la creative community si interroga, preoccupata o semplicemente morbosa, su un inquietante dilemma: la campagna è originale o copiata? Rispunta nei blog e nei social network il bacio del 1979, quello tra Leonid Brežnev, allora segretario generale del Pcus, ed Erich Honecker, presidente del consiglio di stato dell’ex Germania Est, nella celebre versione dell’artista russo Dmitrij Vrubel affrescata sul muro di Berlino. «Signore, aiutami a sopravvivere a questo amore letale», c’era scritto sul bacio dei due leader comunisti. Questione di lana caprina: non solo perché è la stessa Benetton a confermare l’icona di Vrubel come fonte ispiratrice, ma anche perché i problemi sollevati da Unhate, nel bene e nel male, sono di ben altra portata. (Ai cacciatori di analogie e fedeli lettori di Archive non sarà sfuggito un altro bacione, questa volta tra Churchill e Stalin, inventato da un’agenzia lituana per un annuncio intitolato «Capitalist quality meets communist price.»).

 

Maldestri tentativi di conclusione

28 anni di colori Benetton, centinaia di annunci sotto il naso per non contare i progetti d’azione, il magazine, la fondazione, l’attività sul web. Si può dare un giudizio complessivo su tutto questo? L’evidenza ci dice che esiste una solida unità concettuale a collegare le tessere del puzzle, anche se una parte di esse si distingue dalle altre per un “estremismo creativo” catalizzatore di polemiche. Ma se indubbiamente esagerate – e variamente criticabili – sono certe strade intraprese dalla missione “colori uniti”, non si può negare che il contrattacco degli oppositori sia stato e continui ad essere animato da una ferocia non sempre giustificata. L’accusa più iniqua sta nel fare di tutt’erba un fascio; sono in molti a condannare in blocco una case history che, per quanto mi riguarda, ritengo degna di analisi più attente e, lasciatemelo dire, più razionali (per fortuna non ne mancano di lucide, a cura di osservatori e accademici di vari paesi). L’acrimonia contro Benetton ha contagiato persino leggende dell’advertising come Jerry Della Femina, che al Wall Street Journal avrebbe dichiarato, forzando un po’ la consueta ironia: «Se la sentenza di morte fosse applicata a chi si rende colpevole di produrre pubblicità atrocemente volgare e inefficace, e di infliggerla alle masse, Oliviero Toscani, il sedicente genio della pubblicità Benetton, apparirebbe nei suoi stessi annunci pensati contro la pena capitale... Nella cella accanto, anche lui condannato a subire una iniezione letale di inchiostro rosso, ci sarebbe il suo complice, Luciano Benetton.» Della Femina sembra aver dimenticato l’headline che, da giovane, sperava di piazzare in una campagna di prodotti giapponesi importati negli States: «From those wonderful folks who gave you Pearl Harbor» (da quei fantastici tipetti che vi hanno dato Pearl Harbor), poi diventato il titolo di un suo libro molto divertente. Difficile immaginare uno schiaffo più bruciante del suo ai sentimenti del popolo americano; al confronto, i pungiglioni di Benetton fanno il solletico.

Abbiamo tenuto per ultimo il criterio di indagine più corposo e significativo, per lasciarlo alla libertà di ricerca e d’interpretazione di chi legge: stabilire, cioè, se il comportamento etico e sociale dell’azienda sia coerente o in contraddizione con le cause in cui tanto impegno ha profuso con la sua comunicazione. Se fosse irreprensibile, la Benetton andrebbe assolta con formula piena da tutte le scivolate morali che le sono state addebitate e condannata soltanto per le infrazioni alle leggi e al buonsenso (quelle, insomma, che a volte l’hanno trascinata in tribunale). Ma anche sul versante dei comportamenti fioccano accuse a catena, gran parte delle quali riferite a uno dei tarli più spietati della globalizzazione: l’outsourcing, con il suo portato di sfruttamento e cinismo. Stampa Alternativa ha pubblicato nel 2008 un pamphlet di Pericle Camuffo intitolato United Business of Benetton. Sviluppo insostenibile dal Veneto alla Patagonia. Il libro circola sul web con questa sinossi: «Se per “sviluppo sostenibile” si intende un percorso di crescita economica attento e rispettoso delle culture originarie, dell’ambiente in cui si attiva e in generale del tessuto politico, sociale e culturale preesistente, quello proposto dalla Benetton non lo è. Nella sua propagazione dal Veneto all’estremo sud del mondo, lo sviluppo Benetton si è dimostrato quasi sempre “insostenibile”. Ciò che emerge è la vera filosofia su cui è costruito tutto il suo impianto pubblicitario e mediatico. Dietro alla tenda dipinta con i colori dell’arcobaleno ci sono, infatti, storie di sfruttamento, violazione dei diritti umani, minacce e ricatti, povertà e corruzione, situazioni alla cui attenuazione l’azienda di Ponzano dice continuamente di voler contribuire, smentendosi poi con il clamore mediatico dei microcrediti africani, in realtà vere e proprie mance a fronte delle vendite planetarie di qualche altro milione di magliette.» Quella di Camuffo non è una denuncia isolata; la rete trabocca di accuse simili alla sua. E dura da vent’anni lo spinoso conflitto che oppone, nella Patagonia argentina, gli indigeni Mapuche al Gruppo Benetton, proprietario di 900.000 ettari acquisiti nel 1991 e colpevole, secondo le accuse, di sfollarli dalle terre sulle quali hanno sempre vissuto. Va anche detto, per dovere di cronaca, che Benetton ha vinto una causa contro il giornalista Riccardo Orizio per aver pubblicato, sul Corriere della Sera, un servizio sulla presenza di lavoro minorile alla Bermuda e alla Gorkem Spor Giyim, due fabbriche turche che producevano abbigliamento a marchi Benetton.

Non ho la veste né le conoscenze né le competenze per distribuire torti e ragioni. Sono semplicemente convinto che l’outsourcing è la piaga del nostro tempo e che il colonialismo è la piaga di sempre. Il mio pensiero e la mia indignazione coincidono con quelli che hanno guidato la penna di Naomi Klein quando ha scritto No logo. Ma un dubbio continua a rodermi: se le multinazionali sono ciniche e unicamente devote ai propri interessi, devono per forza fare – per coerenza – pubblicità inutile e idiota? Se c’è qualcosa di buono nella comunicazione Benetton è proprio il fatto che essa stessa fornisce, alle persone dotate di sensibilità, le chiavi per criticare i suoi eventuali soprusi. Non sono molte le global corporation di cui si possa dire altrettanto.

 

Pubblicato per gentile concessione dell'autore.
Questo articolo è stato già pubblicato su Bill Magazine e sul blog interpab.blogspot.it/

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
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