Dietro i soliti guru a gettone, un “progetto” senza capo né coda ma di brutale cementificazione padana.

Milano è da alcuni anni l'epicentro del virus dell'eccellenza. Questo virus megalomane si è propagato a macchia d'olio nel discorso pubblico e mediatico, intossicando in modo trasversale con la sua retorica ogni ambito della comunicazione politica, amministrativa, universitaria, giornalistica, sanitaria, architettonica, perfino gastronomica. Ciò che rende difficile da sopportare l'epidemia retorica dell'eccellenza è il fatto che essa cresce in rapporto di diretta proporzionalità allo scadimento della vita di ogni giorno nella regione metropolitana milanese, all'indecenza che caratterizza la progettualità nella dimensione quotidiana e ordinaria di molta parte delle istituzioni e della cittadinanza. Si pensa di curare la perdita della capacità di prendersi cura della "città di tutti i giorni", della capacità di investire energie nel senso civico quotidiano -che è il segno di ogni urbanità civile -a colpi di eccellenza, progetti straordinari, grandi opere, allo stesso modo in cui la perdita profonda della capacità di fare festa, oggi produce la serie infinita di festival, kermesse, eventi, intrattenimenti. È chiaro quindi che in questo quadro l'Expo 2015 "vinta" da Milano arriva come il cacio sui maccheroni: Grande Opera e Grande Intrattenimento, insieme, in un solo colpo.
Ma prima di venire all'Expo, è necessario capire meglio la scena sulla quale essa ora si affaccia come un deus ex machina: un angolo visuale privilegiato per farlo, per descrivere la mancanza di decenza nella costruzione della città ordinaria, e per osservare gli effetti dell'avvento del discorso retorico dell'eccellenza che avrà poi il suo apogeo nell'Expo, può essere quello delle trasformazioni urbanistiche e architettoniche milanesi degli ultimi anni.

Di certo emblematica è la prima generazione di trasformazioni delle aree industriali dismesse, avvenuta a cavallo tra anni novanta e duemila: un'occasione irripetibile prodotta da un cambio di paradigma produttivo di rilevanza epocale, che si è risolta nella costruzione di una serie di quartieri monofunzionali - residenza mono-ceto (medio-alto) più centro commerciale - all'insegna del più tradizionale consociativismo - grande proprietà, comune, cooperative bianche e rosse, grande distribuzione commerciale - e nella più totale incoscienza delle questioni urbane nodali del nostro tempo - energia, viabilità, integrazione sociale, ambiente. Questa generazione di interventi (detta dei Pru, dal nome dello strumento urbanistico utilizzato: Programmi di recupero urbano) è avvenuta in sostanziale continuità con le modalità proprie delle ultime grandi operazioni immobiliari della stagione pre-tangentopoli, quali i quartieri del famigerato Piano Casa di Ligresti (poi messo a riposo per un brevissimo periodo di quarantena, e come sappiamo oggi ampiamente terminato) e come essi, tra l'altro, contrassegnata da un'architettura anche formalmente indecorosa, progettata da professionisti impresentabili, per quanto spesso in posizione di forza all'interno delle università. La realizzazione dei Pru è stata il principale fiore all'occhiello delle politiche urbanistiche delle giunte Albertini, insieme al Piano dei parcheggi, che consisteva nella realizzazione di oltre un centinaio di parcheggi sotterranei (molti ancora oggi in corso di realizzazione), su suolo pubblico in concessione a privati, in buona parte in zone centrali della città: un esplicito incentivo all'uso abituale dell'automobile negli spostamenti urbani.

Questo quadro molto sommario - al quale bisognerebbe aggiungere almeno l'ondata di sopralzi generalizzata promossa da una legge formigoniana che, al di là di importanti effetti negativi sul piano urbanistico, ha soprattutto fornito un ritratto impietoso dell'analfabetismo architettonico dei tecnici e committenti milanesi - ha avuto un progressivo punto di svolta cinque o sei anni fa, quando ha cominciato a diffondersi la parola d'ordine dell'eccellenza. Questa trasformazione è ben rappresentata proprio dalle strategie di Ligresti, che fino ai primi anni novanta affidava il progetto di centinaia di migliaia di metri cubi ai geometri del suo ufficio tecnico, e che oggi, a capo della cordata che ha comprato all'asta l'area della ex Fiera Campionaria, ingaggia le più grandi star dell'architettura commerciale mondiale (tra l'altro, su consiglio dell'ex operaista tafuriano Francesco Dal Co, oggi potente manovratore della critica e del management architettonico). Su questa traccia fortemente mediatizzata e spettacolare, e sul modello delle dinamiche del cosiddetto Real Estate affermate in tutto il mondo, da Londra a Shanghai, si allineano le successive trasformazioni delle grandi aree dismesse residue nel milanese. O meglio, sulla base del più casereccio precedente modello "indecente" dell'architettura lottizzata e impresentabile, viene innestato il nuovo modello "eccellente" dell'architettura-spettacolo. La seconda serve anche a vendere la prima, la prima tenta di "aggiornarsi" imitando la seconda: è ciò che succede per esempio nell'area Garibaldi-Repubblica, o ancor più emblematicamente al supermediatizzato progetto di Santa Giulia, dove la parte scadente già quasi terminata e realizzata dalle cooperative (bianche e rosse) rischia di rimanere senza quella eccellente disegnata da Norman Foster, che forse non si farà più a causa dei guai finanziari di Zunino e del contemporaneo afflosciarsi della bolla del mercato immobiliare.

Va visto in questa chiave di urbanistica mediatica, anche se qui le superstar dell'architettura non c'entrano, pure l'Eco-Pass, la congestion charge del sindaco Moratti, un provvedimento teso chiaramente a comunicare un messaggio anti-inquinamento senza intaccare i diritti degli automobilisti, più che a ridurre drasticamente il numero di auto circolanti in città. Un provvedimento oggettivamente ridicolo, visto che la limitazione riguarda solo la cerchia dei Bastioni e solo le auto "vecchie": in tutta la parte di città costruita dal Seicento a oggi (e nel frattempo Milano è diventata una città-regione) le auto possono circolare liberamente.
Così la Milano del nostro tempo è una città che, con più enfasi di altre in Italia, punta all'eccellenza dello straordinario e nell'ordinario razzola nell'indecenza. È in primo luogo in rapporto a questo scenario che si può comprendere quanto poco ci sia da essere contenti della vittoria di Milano nella gara per l'assegnazione dell'Expo 2015 e quanto sia costernante l'u- nanimità pressoche assoluta dei consensi che l'hanno accolta. Assegnare l'Expo a Milano è un po' come regalare a un matto megalomane un vestito da Napoleone.
La vicenda dell'Expo milanese dimostra che Guy Debord, descrivendo quarant'anni fa la Società dello Spettacolo, se aveva sbagliato, aveva sbagliato per difetto. L'Expo conferma che la politica non può governare se non mediante lo spettacolo, l'evento. Un consigliere comunale di Forza Italia, membro del comitato organizzatore, nel corso di un dibattito radiofonico alla vigilia dell'assegnazione dell'Expo mi dice innocentemente che capisce tutte le mie perplessità, ma che con gli strumenti e le risorse ordinarie non si sarebbero potuti purtroppo soddisfare i bisogni fondamentali della città, le infrastrutture e i servizi di cui Milano assolutamente necessita, e che l'Expo servirà proprio a quello. Che diamine di bisogni abbiamo, a quali standard ci rifacciamo per misurarli, quali modelli di città abbiamo in mente, se le risorse di uno degli otto paesi più sviluppati del mondo non bastano a soddisfarli? Ed è a partire da questo sovradimensionamento dei propri bisogni che questa città si propone di affrontare, come recitano i depliants pubblicitari dell'Expo, "i grandi problemi dello sviluppo sostenibile del pianeta"? A rendere ancora più grottesco questo tema c'è poi il fatto che - se sono riuscito a capire qualcosa nella ridda di cifre spesso incoerenti tra loro diffusa dai media - dei 4,1 miliardi di budget previsti per la costruzione dell'Expo, solo il 20 per cento viene da fonte privata, ovvero l'80 per cento saranno fondi pubblici, stanziati da Comune, Provincia, Regione e soprattutto Stato. Ciò significa che, posto che tali necessità siano davvero inderogabili, le risorse per rispondervi che sembrerebbero reperibili nella quasi totalità anche senza l'Expo, senza la scusa catartica del Grande Spettacolo in realtà non lo sarebbero affatto.

E se ufficialmente a sostenere la "necessità" dell'Expo vengono portate ragioni “scientifiche", di ferreo realismo economico, in realtà una dimensione magica, salvifica, taumaturgica, ai limiti della superstizione, viene attribuita a questo evento da moltissimi sostenitori, compreso il sociologo Aldo Bonomi, che nel corso dello stesso dibattito sostiene che "la Sciura Maria che torna dal mercato con le borse della spesa, se l'Expo non venisse assegnata a Milano, avrebbe una conferma del declino della città e del paese, e questo sarebbe tragico". L'Expo come talismano contro il declino!
Tutta la vicenda dell'Expo milanese è una galleria di situazioni grottesche. Nell'atmosfera calcistico-patriottica prodotta ad arte dai media dopo la vittoria, si sostiene che a trionfare è stata la serietà e completezza del dossier di candidatura presentato da Milano, sostenuta dalla testimonianza di Al Gore che assicura che "Milano è una città amica dell'ambiente" (pazienza se i rapporti dell'Organizzazione mondiale della sanità indicano l'area metropolitana milanese come una delle zone più inquinate di Europa), o che il successo è frutto del lavoro di squadra bipartisan, oppure al contrario si rivendica il merito esclusivo della vittoria, come fa Berlusconi la sera stessa dell'assegnazione. Ma si sa perfettamente che l'appoggio dei diversi paesi membri del Bureau (o di quelli che non lo erano, ma che sono stati convinti a entrarvi: negli ultimi giorni prima della scadenza il numero è improvvisamente aumentato del 50 per cento) è stato comprato sguinzagliando negli ultimi tre mesi assessori di Comune, Provincia e Regione in giro per il mondo: voti comprati in cambio di "aiuti allo sviluppo" dei generi più strampalati - una centrale del latte alla Nigeria, un ct italiano alla nazionale di calcio del Vietnam - con una caparra anticipata di complessivi dieci milioni di euro e un conguaglio a saldo, a votazione positiva avvenuta, di altri cento milioni. Ma neppure in questa compravendita quasi nessuno trova qualcosa di un po' schifoso, né a destra né a sinistra: è capacità di costruire partnership internazionali, arte di tessere reti geopolitiche.

Grottesco, se non osceno, a me appare il tema stesso scelto per l'intera kermesse – tema che invece entusiasma anche i pochi scettici illustri dell'Expo: Renzo Piano e Adriano Celentano - e fa abbastanza impressione vedere tra i membri del comitato scientifico, tra gli altri, i nomi di Carlo Petrini e Amartya Sen: dietro allo slogan generico "Nutrire il pianeta / Energia per la vita" viene tracciata una linea che congiunge il tema dell'eccellenza gastronomica, il famoso italian food, a quello della fame del mondo. Il tema di questo grande spettacolo da 4 miliardi di euro, ma dall'indotto complessivo stimato in oltre 40 miliardi, è in sostanza il mangiare, in senso molto lato, fino a comprendere il suo opposto: il non-mangiare. Si evince dai depliants promozionali che illustrano il programma che il problema di chi comprensibilmente si ostina a far riferimento al secondo versante, cioè a non mangiare, o a mangiare molto poco, è un problema medico, tecnico e tecnologico, dietetico, di educazione alimentare, di innovazione, e giammai il prodotto di un preciso modello di sviluppo politico-economico fondato sulla diseguaglianza, sull'iperconsumo di alcuni e sulla miseria e lo sfruttamento di molti. La medicalizzazione della fame nel mondo, la sua rubricazione nella categoria delle disfunzioni della filiera produttore-consumatore, è un messaggio così rivoltante che sinceramente stupisce che neppure nelle parti più decenti del fronte pro-Expo nessuno abbia avuto niente da dire.

Tra i molti precedenti di grandi opere o grandi eventi milanesi che si potrebbero ricordare, a partire dai disastri economico-urbanistici dei campionati mondiali di Italia ‘90, è bene evidenziarne almeno due tra i più recenti. Del potenziamento dell'autostrada Milan-Torino e della contestuale realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, ancora in corso, i giornali si sono occupati a lungo concentrandosi sui costi e sui tempi astronomicamente lievitati e sulle massicce infiltrazioni mafiose nei loro appalti. Ma quest'opera è anche un esempio lampante di che cosa significa oggi da un punto di vista fisico, ambientale, paesaggistico la corsa allo sviluppo, alla crescita, all'eccellenza: un tratto di territorio della lunghezza di un centinaio di chilometri è stato trasformato d'un colpo da paesaggio semirurale a scenario periferico lineare, una concatenazione ininterrotta di viadotti ferroviari sopraelevati e di bretelle, svincoli, sotto passi autostradali necessari a superare le continue intersezioni fra i due sistemi di trasporto (perché, come è ormai noto, ogni aumento della velocità di comunicazione in una direzione, costituisce un ostacolo e un rallentamento per gli spostamenti nella direzione trasversale alla prima, e rende necessarie ulteriori infrastrutture per il loro che a loro volta divengono ostacoli nell'altra direzione, eccetera...). È lo scheletro infrastrutturato di un futuro suburbio lineare sovraregionale, la megalopoli Torino-Trieste che manda in brodo di giuggiole Fuksas, la città infinita che ambiguamente descrive Bonomi.

Proprio Fuksas immagina la sua Fiera di Rho-Pero - che è il secondo esempio a cui volevo accennare e che si salderà con il villaggio Expo che le sorgerà giusto accanto – non come una semplice fiera, ma come un brano di questa futura megalopoli. E su questa dismisura essa è sintonizzata: la sua dimensione è tale che, da quando esiste, la Fondazione Fiera - feudo di quella Compagnia delle Opere senza la cui presenza si può capire ben poco delle dinamiche non solo urbanistiche milanesi - ha il problema di cosa farne. La struttura funziona a pieno regime solo nei cinque giorni del Salone del Mobile, quando ogni anno per l'affluenza di visitatori l'intero sistema della mobilità milanese va in tilt: ingorghi colossali, code di centinaia di metri fuori dalla metrò e alle fermate dei taxi. Per il resto dell'anno molta parte della megastruttura è inutilizzata e per compensare gli insostenibili costi di gestione l'ente progetta di vendere l'ultimo pezzo della vecchia Fiera Campionaria che aveva mantenuto in città, trasformandolo in centro commerciale e cinema multisala. Il modello per cui si finanziano con risorse pubbliche grandi strutture d'eccellenza tese a competere sul famigerato scenario globale, e poi si rimane con il problema di che cosa farsene, è in grande espansione: dal PalaFuksas di Torino al PalaGregotti di Milano, cioè il Teatro degli Arcimboldi costruito da Pirelli alla Bicocca, inutilizzato per gran parte del tempo.

Il tema di un'architettura ipertrofica e drogata che ha invertito il suo rapporto di servizio con l'uso e la necessità, è uno dei grandi temi tragicomici dell'architettura contemporanea. Che tocca anche l'Expo: su un'area di oltre un milione di metri quadrati verranno costruiti edifici che in minima parte - sembra solo i padiglioni dei paesi stranieri - verranno smontati dopo il 2015. Il resto dovrà essere riconvertito dall'eccellenza alla vita quotidiana. Su questo tema il progetto dell'Expo è di una vaghezza sconfortante: si parla di residenze universitarie e atelier per creativi. Un milione di metri quadri di atelier per creativi? Ma è lo stesso progetto architettonico e urbanistico dell'Expo a essere assolutamente aleatorio, tanto che all'indomani dell'assegnazione il sindaco Moratti, sull'onda di una campagna populista contro i grattacieli storti guidata da Berlusconi e Celentano (progetti orrendi, attaccati per la ragione sbagliata) ha cancellato in pochi minuti la torre di duecento metri che ne era il perno. Un progetto fantasma, disegnato da ghost-designers per aggirare la normativa europea che impone di affidare progetti pubblici solo mediante gare o concorsi. Una aleatorietà che non è solo un limite specifico di questo progetto ma un fattore strutturale di tutta l'architettura contemporanea della mega-macchina: le operazioni in cui essa viene messa al lavoro hanno ingredienti e procedure complesse, toccano interessi così poderosi e capitali tanto fluttuanti che la sua flessibilità deve essere totale, ma allo stesso tempo essa deve essere immediatamente spendibile sul piano dell'immagine e dello spettacolo. Avere cioè una forma memorabile ancor prima che qualcuno sappia a cosa dovrà servire. L'architettura dell'eccellenza è quindi pura aleatorietà compensata da iperrealismo. È un architettura che ambisce a quella smaterializzazione, a quella disincarnazione che Illich e Virilio hanno individuato come tratto cruciale della disumanizzazione con-temporanea, un'architettura-playstation che cancella ogni terrestrità: senza gravità, senza materia, senza luogo. Visti di sfuggita nella videoanimazione promozionale dell'Expo, mentre la telecamera virtuale vola come in un videogioco, l'edificio che si protende a sbalzo per cinquanta metri, senza appoggi, o i padiglioni con gli spigoli smussati come elettrodomestici o Suv, raccontano la favola agghiacciante che piace a tutti di una landa tra Milano e Rho, tra l'autostrada per Torino e il carcere di Bollate, trasformata in scenario di second Life.

Da Lo Straniero, Numero 96 - giugno 2008, via eddyburg.it