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Vent'anni dopo Tangentopoli, ancora una volta assessori e alte cariche regionali indagate per corruzione. La storia si ripete ma non insegna?

 

E

ra il giorno dei morti, 2 novembre 1992. Triste, come al solito, ma in quell’anno ancora di più per due altrettanto tristi coincidenze: la scomparsa proprio in quel giorno del tesoriere del Partito Socialista, l’onorevole Vincenzo Balzamo, colpito da infarto una settimana prima, e la fine, in verità alquanto ingloriosa, della Giunta della Regione Lombardia, guidata dal 31 gennaio 1989 dal DC Giuseppe Giovenzana e da una maggioranza pentapartito. Quella mattina nella vecchia sede del Pirellone, il Consiglio regionale era riunito per tentare ancora una volta di rimettere in sesto una baracca che faceva acqua da tutte le parti. Improvvisamente comparvero i militari della Guardia di Finanza e al presidente Giovenzana e a ben 14 fra assessori in carica ed ex, consegnarono una informazione di garanzia, firmata dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale. Il provvedimento faceva riferimento agli abusi commessi con soldi che la Cee aveva stanziato per organizzare utilissimi corsi professionali, ma passati purtroppo alle cronache come corsi fantasma. Nel senso che non si fecero ma furono pagati ugualmente come fatti. Quello dei fondi Cee si era rivelata una occasione d’oro per il sistema tangentizio in atto allora. Di quella Giunta solo in quattro si salvarono: i socialisti Roberto Biscardini, Francesco Zaccaria e Nino Rossi e il liberale Giancarlo Morandi. Fu la fine.

Non fu una decimazione improvvisa. I guai per Giovenzana e soci erano iniziati in aprile, poco dopo lo scoppio di Tangentopoli. Ne aveva fatto le spese l’assessore socialista Michele Colucci che a proposito dei corsi fasulli, e non solo di essi, si rivelò un strepitoso organizzatore. Fu arrestato, e venne addirittura mandato al confino a Ruino, nel Pavese: una sorta di soggiorno obbligato. E con lui finirono nei guai anche 9 funzionari. L’accusa era di aver dato vita, tutti assieme, ad una vera e propria associazione a delinquere. Per Colucci poi scoppiò la grana delle rivelazioni del collega di Partito, Mario Chiesa. A quel punto decise di dimettersi da assessore. Ma non da consigliere regionale, anzi il Psi lo nominò capogruppo.

È l’8 maggio quando la Giunta Giovenzana annuncia di dimettersi. Per decenza. Tra arresti, informazioni di garanzia, rinvii a giudizio la situazione si era fatta insostenibile. Sempre a maggio tocca agli assessori Carlo Facchini e Vittorio Caldiroli, entrambi PSI di Varese (a Facchini furono congelati persino tutti i beni). A giugno è la volta di Vigilio Sironi, detto anche “ Sua Sanità”, incappato fra l’altro nella famosa retata scattata nella notte tra il 18 e il 19 giugno all’ombra dell’Arengario. E poi ancora: Francesco Rivolta, DC, pure lui ben noto ai monzesi, Antonio Simone dirigente dei quel Mp tanto caro a Roberto Formigoni, Franco Massi di Bergamo.

Anche allora la bufera colpì, come oggi nel caso del leghista Davide Boni, la presidenza del consiglio rappresentata dal presidente Claudio Bonfanti, PSI, (per vicende legate ad una discarica bergamasca) e il suo vice Ferruccio Gusmini. Una valanga.

La maggioranza tentò una disperata ricomposizione attraverso il varo di una nuova giunta targata sempre Giovenzana, ma il colpo di scena del giorno dei morti, del 2 novembre, mandò tutto per aria. Giovenzana, con ben 11 tra assessori e consiglieri di maggioranza finiti in galera, lasciò l’11 dicembre '92 e il suo posto venne preso dalla cremonese Fiorella Ghilardotti, ex dirigente della Cisl, eletta nella lista del Pds. Guiderà sino al 3 giugno '94 una Giunta di minoranza formata da Pds, Psdi, Pli, Verdi e Antiproibizionisti e supportata dalla benevola astensione di una Dc in piena confusione. Molti i mal di pancia in casa Pds dopo la promessa di Achille Occhetto che mai il Partito si sarebbe alleato con uomini dello scudo crociato.

Perché questo racconto? Innanzitutto perché ricordare fa sempre bene. Eppoi per dimostrare che le vicende di venti anni fa non hanno insegnato niente. È vero che le situazioni sono diverse, ora non si ruba più per il Partito o per le correnti del Partito, ora si ruba sempre più spesso per se stessi (per la verità anche venti anni fa, più d’uno, faceva l’uno e l’altro). Ora in ballo ci sono i leghisti che puri non sono, i pidiellini che dal loro maestro di Arcore hanno imparato il peggio del peggio e poi anche spezzoni della sinistra o del centro sinistra che mai hanno voluto fare seriamente i conti con una questione morale che va anche da loro affrontata e risolta, se vogliono guadagnare la fiducia degli elettori e battere l’accusa del “tanto sono tutti uguali”. Se il celeste Roberto Formigoni non ha tanto da rallegrarsi, anche chi lo contrasta dovrebbe esibire con i fatti che le sue mani, a Milano e in ogni altra parte del Paese, sono veramente pulite ed ammettere finalmente che per questo nostro paese i giudici, pur con i loro vari difetti, sono una manna. Altrimenti quel poco di democrazia che ci resta, sarebbe andata veramente a schifio.