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 I redditi dei ministri, quelli dei supermanager. Le esagerazioni - guai a dimenticarlo - sono, nel caso degli apparati statali, pagate con soldi nostri, della intera comunità chiamata a duri sacrifici. Esse rappresentano un costo che potrebbe essere impiegato meglio, molto meglio.

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ualcuno l’ha molto argutamente definito “guardonismo fiscale”. E tale è stato per l’intero pomeriggio di martedì 21 febbraio quando il sito web della presidenza del Consiglio ha cominciato a trasmettere i redditi dei ministri e del loro capo, il professor Mario Monti. Bravo. La trasparenza prima ancora di essere una ottima cosa, è un atto democratico più volte rivendicato ma mai ottenuto. Lo testimonia quel clic di massa che ha mandato in tilt l’intero sistema e per molte ore. Notizia da telegiornale. La carta stampata, il giorno dopo, ha fatto il resto: pagine e pagine, cifre su cifre, commenti, raffronti, tabelle. E fotografie, ad accompagnare l’entità del reddito, quanto versato al fisco, le proprietà. Poi è toccato ai maggiori manager di Stato, che a mettere in piazza i propri guadagni soffrono parecchio. In casa e nei bar tutti a parlare di Paola Severino, di Corrado Passera, di Elsa Fornero e del capo della Polizia , del presidente dell’Inps, di chi guida la Consob, l’Antitrust, l’Istat e di tanti altri che fanno parte del coro che ha intonato l’inno alla austerità, al rigore, ai sacrifici. Il velo è stato strappato. Casta canta, ha titolato molto bene Il Fatto quotidiano.

Adesso che la curiosità è stata soddisfatta, che succede? Qualcuno si limita ad osservare che si è trattato di uno choc culturale, un invito alla emulazione. Personalmente mi sembra una tesi singolare. Uno choc certamente lo è stato ma non culturale, come non mai si è capita la ragione per la quale la trasparenza in questa materia è sempre stata predicata ma mai praticata. Per la verità avevano cominciato i parlamentari con tutta una serie di però e di ma che non hanno certo favorito la conoscenza dei loro redditi reali, poi sono seguite le pensioni dei medesimi e anche questo è stato un spettacolo choccante. Ma c’è anche il settore privato: non ha forse pure lui qualcosa da farsi perdonare? Pensiamo allo stipendio di Sergio Marchionne, ad esempio, che più chiude fabbriche più cresce. E il giorno che lascerà si porterà via addirittura un pezzo di Fiat, più grande di quella portata via a suo tempo da Cesare Romiti. Ma quelli sono soldi privati, si dice: è vero, tuttavia è un bello schifo. Dovrebbero riconoscerlo anche certi aedi del liberismo economico.

Riflessione: questa trasparenza è scoppiata nel bel mezzo di una situazione economica grave e meno male che è scoppiata. Quando si dice che il tale alto funzionario dello Stato guadagna il doppio del presidente degli Stati Uniti, non fa incazzare ovviamente Obama, ma mette in luce una esagerazione che è tale anche per chi non considera la ricchezza un crimine. E infatti il professore , che non è certamente un assatanato comunista vecchio stampo, vuole tagliare. Perché le esagerazioni - guai a dimenticarlo - sono, nel caso degli apparati statali, pagate con soldi nostri, della intera comunità chiamata a duri sacrifici. Esse rappresentano un costo che potrebbe essere impiegato meglio, molto meglio.

Ma c’è di più: questa trasparenza pone con forza la necessità di risolvere alla svelta il problema di una maggiore equità sociale. Alla Robin Hood, togliere ai ricchi per dare i poveri? Anche. Certo gli investimenti di denaro necessari sono più grandi ma quelli ci sono: pensiamo ai 60 miliardi di euro che si porta via la corruzione ogni anno, oppure i 120 miliardi di evasione fiscale. Ecco alcuni numeri più importanti e decisivi per risolvere la questione della crisi, ma tutto fa brodo anche l’attenuazione (si bene, non la eliminazione) di differenze che non sono più sopportabili da chi vive con i mille euro al mese oppure da chi addirittura un reddito fisso non ce l’ha. E che è chiamato (udite, udite!) a fare ulteriori sacrifici. Per evitare il default dell’Italia. E allora: Viva la trasparenza.