20081122-poltrona.jpg

Al momento in cui scriviamo Riccardo Villari non ha ancora abbandonato la carica di presidente della Commissione di Vigilanza Rai, l’organismo di garanzia che vigila sul servizio pubblico e a cui per quanto riguarda l’emittenza privata corrisponde l’AGCOM. I fatti sono noti: la prassi vuole che la commissione sia in mano all’opposizione, il Pd spinge per Leoluca Orlando ma il siciliano non ha il placet del Partito delle Libertà. Come risposta alla mancata disponibilità al dialogo, il Pdl elegge a sorpresa un esponente dei democratici, l’ignaro Villari, che altrettanto a sorpresa non si dimette come scontato, ma resiste al suo posto. Si obietta che chi fa politica conosce le regole del gioco, e che Villari deve uniformarsi alla disciplina di partito. Senza dare troppo peso al fatto che un presidente c’è già, e regolarmente eletto, i mezzi di informazione riportano poche ore dopo che l’accordo tra maggioranza e opposizione si è trovato sul nome di Segio Zavoli, grande vecchio del giornalismo televisivo italiano. Ma arriva la il coup de theatre: Villari non ha alcuna intenzione di dimettersi. In quanto senatore, può accedere alla carica di presidente della commissione di vigilanza tanto quanto Orlando. Apriti cielo. Si sprecano gli appelli bipartisan alla “coscienza” e al “senso civico”, che dovrebbe per responsabilità lasciare il posto a Zavoli. Persona estremamente competente, certo: ma non si poteva pensarci prima? Chi può parlare di “coscienza”, alzi la mano. E lo scriviamo tra virgolette.

Non conosciamo il senatore Villari, e non ci stupirebbe che il suo nome sia stato scelto in base a precisi calcoli. Non ci sentiamo nemmeno di giudicare le sue attitudini. Ma con Villari si è aperto un caso che dovrebbe far riflettere il Paese. La democrazia rappresentativa si basa su un contratto di fiducia tra elettori e classe di governo. Ne parlava Rousseau e non ha niente a che fare con le scrivanie di ciliegio. Il contratto non è stato rispettato. Farebbe bene allora il Villari a resistere e rispettare il mandato che le Camere gli hanno assegnato. Non è il suo personale destino che ci preoccupiamo ma quello di istituzioni sempre più svilite. Questo gli è costato l’espulsione dal partito? L’isolamento? C’è da scommettere che salterà fuori qualcuno che gli fornirà il sostegno morale di cui ha bisogno. Ma da questa vicenda nessuno esce bene. E questo carneade del Parlamento, magari democristiano e trasformista, ha in cartella una lezione: gli errori, anche in politica, qualche volta si pagano.

Post scriptum
In un’epoca in cui le nomine in Parlamento sono decise dalle segreterie di partito e non dagli elettori, in cui mafiosi e pluricondannati affollano le Camere offrendo bignè ai giornalisti, il “gioco sporco” del Pdl ha avuto se non altro l’effetto di scoperchiare un calderone che da troppo tempo ribolliva. Nonostante questo, eleggere con un colpo di mano un candidato che nessuno vuole è una mossa fuori da ogni dialettica democratica. C’è una seconda lezione nel manuale del perfetto senatore: se non ci ti chiami Fassino, Rutelli, Finocchiaro rimani al tuo posto, sei solo un portavoti al servizio dei capi. Il che non è necessariamente un male data la caratura della media dei parlamentari, da Totò “vasa vasa” Cuffaro a Marcello Dell’Utri. Ma questa si chiama oligarchia, semmai ci fosse bisogno di scriverlo.

Gli autori di Vorrei
Antonio Piemontese
Antonio Piemontese