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La grande arte non ha mai un solo livello di lettura. Al teatro di Alberto Astorri e Paola Tintinelli l'asterisco di Vorrei

 

Avviso al lettore: questa è una premessa piuttosto lunga, se vuoi andare dritto alla parte che riguarda Astorritintinelli, clicca qui e saltala, non mi offendo.

 

Da qualche tempo si fa sempre più forte in me la sensazione che in questi anni fra le arti la più “viva” sia quella teatrale. Questo è per me, allo stesso tempo, motivo di felicità e di sconforto. Felicità perché il teatro mi fa scoprire ogni settimana autori e poetiche interessanti, ma perché di sconforto? Io di formazione sono artista visivo, vado in estasi per un quadro di Kiefer o per una pala di Bergognone, per una installazione di Kounellis o per una tela di Lorenzo Lotto. Che siano opere di 600 anni fa o di oggi non fa differenza, quella la fa la qualità (un insieme di piacere estetico, sollecitazione intellettuale, sovrapposizione dei piani di lettura…). Frequento biennali, gallerie e musei da quasi 30 anni e mai come negli ultimi dieci ho provato la sensazione di noia e di autoreferenzialità nella stragrande parte delle produzioni degli artisti contemporanei, anche quelli super acclamati a livello mondiale. Troppe volte ci si trova davanti a idee piccole piccole camuffate da produzioni grandi grandi. Intuizioni assai banali ricoperte di verbosissime quanto incomprensibili tiritere intorno a concetti irrilevanti per chiunque al di fuori del sistema. Ve ne propongo una giusto per capirci e con tutte le premesse del caso (non si citano parole fuori dal contesto, occorre essere esperti eccetera eccetera) e sottolineando che non c’è nulla di personale nei confronti dei diretti interessati.

 

Non potendo disporre ancora di una app o di un dispositivo tecnologico che misuri e avvisi in caso di irrilevanza, ho dovuto mettere a punto un sistema tutto mio — tanto elementare quanto infallibile — per valutare di volta in volta l’importanza di quanto trovo in una mostra; funziona così: osservo con attenzione, ascolto se c’è da ascoltare, leggo per quanto si riesce (delle didascalie parliamo un’altra volta…) e poi mi pongo la domanda “Se non l’avessi visto, starei meglio o peggio di adesso? Sarei una persona migliore o peggiore? Il mondo potrebbe farne a meno?”. Provateci anche voi.

Molto meglio di me (e da posizioni anche molto diverse fra loro) hanno affrontato la questione studiosi e intellettuali come Marc Fumaroli, Jean Clair e Mario Vargas Llosa sottolineando come il micromondo dell’arte contemporanea sia precipitato in un gorgo in cui a smuovere l’acqua non sono più le grandi ambizioni intellettuali, poetiche, politiche e culturali degli artisti, ma più prosaicamente quelle commerciali. In una sintesi molto rozza potremmo riassumere: oggi per il sistema dell’arte non sono più i migliori artisti a valere di più (sul mercato), ma sono quelli che valgono di più sul mercato a essere considerati i migliori artisti. Un sintomo? Su giornali, tv e media mainstream di qualsiasi natura si parla di arte solamente quando arriva la notizia di quotazioni eclatanti o di “eventi” eccezionali come le folle per Christo sul Lago d’Iseo nel 2016. Fumaroli, Clair e Vargas Llosa vengono generalmente derisi (dinosauri! conservatori! anti-moderni!) dalla stampa e pubblicistica di settore, organica com’è a questo sistema che se la suona e se la canta sulle barricate in difesa del mercato e di se stessa come neppure la moda, commerciale per sua natura, saprebbe fare.

 

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Alberto Astorri e Paola Tintinelli in Immaginazione al potere - Foto di Gabriele Lopez

 

Annoiato (tradito?) dalle arti visive, trovo sempre più conforto nel teatro. Lì dove già in partenza sappiamo che nessuno diventerà mai ricco sfondato come un Jeff Koons o un Damien Hirst, possiamo immaginare che le ambizioni tendano ad essere ancora romantiche — ma preferisco dire artistiche — e che gli artisti vogliano ancora provare a cambiare il mondo e non solo il proprio conto in banca. Va da sé che non parlo del teatro figlio degli show televisivi con relative figurine o dei tromboni da palcoscenico, vecchi o giovani che siano. Parlo di un teatro coraggioso nel non assecondare supino il marketing, capace di stimolare e sfidare lo spettatore senza fornire consolazioni, colto senza essere saccente, imprevedibile senza essere irritante. Divertente anche.

 

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Fra le realtà che rispondono a questo laconico identikit possiamo di certo annoverare Astorritintinelli, ovvero la coppia formata da Alberto Astorri e Paola Tintinelli. Da 15 anni lavorano su tracce del passato come del contemporaneo, tendenzialmente non scrivono e danno vita ai loro titoli partendo da una gran mole di spunti, letterari, artistici e ovviamente teatrali. Nei giorni scorsi sono passati da Monza per la rassegna L’altro binario nella sala Picasso del Binario 7 con 45 giri, che sono due lavori in uno. Il Lato A, Immaginazione al potere, e il Lato B, Folliar. La loro forza sta nella grande capacità di mettere insieme tutti gli elementi del linguaggio teatrale, tutti i suoi strumenti senza rinunce. Fisicità, movimento, voce, luce, scena, interazione, suono, rappresentazione, immaginazione, presenza e assenza. Divertendo, commuovendo, infastidendo anche. Aprono tanti sentieri, a noi il compito di scegliere su quale incamminarci, per arrivare da qualche parte o per perderci. Perché no.

Solleticano l’attenzione ora con un dialogo lineare, ora con lo scarto di senso. Il senso. «Deve l’arte avere un senso?» si chiedeva a fine spettacolo Astorri dialogando col pubblico. Certo che sì — direi — è proprio quella la differenza fra arte e intrattenimento, purché non si confonda il senso con il significato nudo e crudo, con il messaggio didascalico, con il dover capire per forza tutto e facilmente. Come facevano notare sia Astorri che il padrone di casa, Corrado Accordino, non si deve confondere l’arte con la comunicazione. Aggiungo: non si deve confondere l’arte con la propaganda, con lo slogan inequivocabile. «L’arte non è comunicazione, è espressione» aggiungeva ancora Astorri. Sempre la grande arte è fatta da più livelli di lettura, sta allo spettatore (al lettore, al visitatore, all’ascoltatore) decidere quanto scavare: fermarsi alla superficie? Individuare i rimandi alle scritture di riferimento? Tornare a casa e rileggerseli? Ecco cosa intendo quando parlo di qualità: la capacità di offrire “soddisfazione” a chi vuole verticalità in un tempo, il nostro, in cui siamo quasi rassegnati ad una piatta, omologata, orizzontalità.

 

 

I lavori belli, importanti, rilevanti sono quelli che sedimentano nel profondo e a lungo. Sono quelli che non hanno timore di affrontare i grandi temi della vita (dolci o dolorosi, di oggi o di sempre). «L’arte non può cambiare il mondo. Può aiutare a cambiare noi stessi forse». Potrebbe sembrare un ripiego, la pietra tombale sui grandi pensieri, sui sogni collettivi del secolo scorso. Forse, invece, è un inizio. La chiamano resilienza. Dopo il grande botto, ci stiamo ritrovando, per adesso singolarmente, uno per uno a immaginare e sognare il futuro? Senza illusioni forse, con disincanto probabilmente. Ma da qualche parte bisogna ricominciare. Non possiamo e non dobbiamo rassegnarci ad idolatrare il mercato e la moneta. Non vogliamo essere telecomandati dal marketing. Laciamolo fare all’art system. Noi proviamo a respirare e vivere.
L’asterisco di Vorrei questa volta va a questi due bellissimi artisti.

 

In apertura Corrado Accordino, Paola Tintinelli e Alberto Astorri al Binario 7 di Monza

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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