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A venti anni dalla scomparsa del grande cantautore, amici e lettori di Vorrei lo ricordano con aneddoti personali. Intervengono la scrittrice Sabrina Campolongo, la giornalista Federica Fenaroli e l'editrice Giovanna Zoboli

 

Sabrina Campolongo

Il disco, il 33 giri allora, il vinile oggi, stava in scompagnata compagnia nel mobiletto dello stereo tra quelli di mio padre, incastrato tra i Pooh e Battisti, forse vicino ai biondoni Abba vestiti di bianco o all’uomo in fiamme dei Pink Floyd. Non vicino al Greatest Hits di Simon and Garfunkel, perché quello l’avevo scoperto da tempo e spostato sul limite del mio spazio, per ascoltarmelo di tanto in tanto in cuffia, rigorosamente quando mio padre era al lavoro, sia mai che lo scoprisse e mi costringesse ad ammettere che mi piaceva la sua roba.

 

L’ho ascoltato tutto, avidamente, e poi in modo esclusivo per settimane e mesi, leggendo e rileggendo il romanzo delle sue parole, della sua voce, della sua vita

In seguito ne ho ascoltata parecchia, di quella roba (non i Pooh e molto poco Battisti) ma il disco con l’indiano no. Tra gli scotti più salati pagati al conflitto generazionale c’è sicuramente quello di avere scoperto Fabrizio De Andrè troppo tardi per andare a un suo concerto, troppo tardi per accalcarmi sotto a un palco e sperare di incrociare anche solo per un secondo il suo sguardo. Ho trascurato allora il disco con l’indiano perché quella copertina senza parole richiamava nella mia testa la passione di mio padre per i film western, da quelli più beceri a quelli di Leone, che comunque, allora come oggi, trasudavano ai miei occhi un certo compiaciuto machismo. Roba da uomini, roba da vecchi, nel grumo indistinto delle convinzioni adolescenziali era tutt’uno. Quando, troppi anni dopo, ho scoperto De Andrè e in pochi giorni l’ho ascoltato tutto, avidamente, e poi in modo esclusivo per settimane e mesi, leggendo e rileggendo il romanzo delle sue parole, della sua voce, della sua vita, ho chiesto a mio padre quel disco, anche se già non avevo più uno stereo su cui ascoltarlo (lui nemmeno, del resto, l’ingombrante vecchio aggeggio riposa smontato in più di uno scatolone dall’ultimo trasloco).

Ha risposto che me lo lascerà in eredità.

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Federica Fenaroli

È entrato nella mia vita in punta di piedi, durante gli anni dell’università. L’ho scoperto tardi, anche se avevo scelto “Il suonatore Jones” per un tema durante gli anni del liceo: a sedici anni la gonna di Jenny e il flauto spezzato mi erano rimasti in testa ma non mi erano entrati nel cuore.

C’è voluto ancora qualche tempo e, allora, ecco che davvero galeotta è stata la tesi magistrale dell’amore in cui ero inciampata ai tempi della Statale, che aveva scelto di “leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura”: sono state giornate a Genova nei labirinti dei caruggi, le ricerche in biblioteca e gli approfondimenti in fondazione, i cd ascoltati di sera, in macchina, in qualche parcheggio della Brianza - lontani anni luce dalla caccia al bisonte di Coda di lupo. Ci sono state le pagine lette rilette e corrette e il voler andare in quella direzione ostinata e contraria con tutta la forza degli ideali, e degli assoluti, che solo a vent’anni si prova e si avverte, anche fisicamente.

Ripetere “ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano” dopo ogni scivolone

C’è stato un lento viaggio verso Roma nell’agosto di chissà quale estate scandito dai passi delle scarpette blu di Angelina. In questi anni i giorni incerti di nuvole e sole sono stati così tanti che, alla fine, ho smesso di contarli - su quelli lunghi e senza parole non apro nemmeno il capitolo, silenziosa come sono. Tante, troppe canzoni cadute a pennello, come pioggia sottile, come balsamo a lenire le inquietudini più dolorose.

Ritrovarsi a pensare che “l’amore che strappa i capelli è perduto ormai” dopo ogni litigio, ripetere “ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano” dopo ogni scivolone, stupirsi ancora della sensualità che può contenere quel lenzuolo che “si gonfia sul cavo dell’onda” mentre “la lotta si fa scivolosa e profonda”.

I cd, sempre i suoi in macchina, consumati dai troppi ascolti (le giornate di loop sull’Ave Maria sarda), e il volume che ancora oggi automaticamente si alza per urlare contro tutte quelle storie sbagliate che mi hanno fatto arrabbiare e innamorare. Dopo dieci anni ogni ascolto regala ancora una sfumatura nuova: la costellazione di riferimenti culturali, le influenze, le letture - la scoperta di Álvaro Mutis e del suo inquieto gabbiere. Più che una compagnia, è stato una presenza, costante. Di quelle che non stancano, mai. In questi anni di lavoro per le strade della città, a caccia di storie da raccontare, diverse volte ho avuto l’onore e la fortuna di incontrare qualcuno, o di imbattermi in qualcosa, che fosse in grado di consegnare alla morte una goccia di splendore: questo, per me, è stato l’insegnamento più grande, quello che ho cercato, e cerco, sempre, di seguire.

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Giovanna Zoboli

Ho cominciato ad ascoltare De André alle medie. Al liceo diventò un innamoramento. La “Canzone dell’amore perduto” probabilmente è ancora il suo pezzo che più mi piace. Un giorno, in età adulta, ho scoperto che la musica viene da un brano del Concerto in Re Maggiore per tromba, archi e continuo di G. P. Telemann, cosa che, a mio avviso, rende la canzone anche più interessante.

Non so quante volte ho ascoltato “La buona novella” e anche “Non al denaro né all’amore né al cielo”. Ma comunque di De André mi piaceva tutto, scriveva testi bellissimi e la sua voce non aveva uguali; fra i molti cantautori del periodo mi pareva anomalo, poco inquadrabile, misterioso.

Nonostante l’avessi ascoltata mille volte, mi resi conto che neppure la migliore registrazione poteva renderne l’ampiezza, la profondità, la natura. Era velluto, velluto nero, arrivava dritta da un luogo inimmaginabile.

A proposito della sua voce, una sera, in Sardegna, dove ero in vacanza con degli amici, ma questo dopo il liceo, scoprimmo che la sera ci sarebbe stato un concerto di De André e decidemmo di andarci. Non lo avevo mai sentito dal vivo, un po’ perché non mi era mai capitato, un po’ perché non sono mai stata un animale da concerto nemmeno all’età in cui lo si è. Ricordo lo sgomento che mi prese quando intonò le parole della prima canzone. Fu incredibile. In un secondo la sua voce sommerse ogni cosa, riempì ogni anfratto dello spazio, era come se uscisse dalla notte stessa, fatta di buio. Nonostante l’avessi ascoltata mille volte, mi resi conto che neppure la migliore registrazione poteva renderne l’ampiezza, la profondità, la natura. Era velluto, velluto nero, arrivava dritta da un luogo inimmaginabile. Non provocava una consueta esperienza di ascolto: era come se entrasse direttamente nelle cellule, pervadeva, scuoteva, aveva una qualità che non mi è più capitato di sentire. 

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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