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Intervista all'autore e regista dello spettacolo Mai morti. Interpretato da Bebo Storti, torna in scena al Teatro dell'Elfo a quasi venti anni dalla prima. Un termometro per il livello di intolleranza in Italia

Nei prossimi giorni, dal 24 gennaio al 10 febbraio, Renato Sarti e Bebo Storti riportano in scena, al Teatro dell’Elfo di Milano che lo produce, lo spettacolo Mai morti. Come recita la presentazione «Bebo Storti dà voce e corpo a un nostalgico delle "belle imprese" del ventennio fascista, oggi impegnato in prima persona a difesa dell'ordine pubblico, contro viados, extracomunitari, zingari e drogati.» Dal 2000 continua ad essere riproposto con notevole successo e attenzione. Segno, un po’ inquietante, del fatto che quei temi non sembrano trovare soluzione. Abbiamo voluto parlarne tornando a intervistare chi lo ha scritto e lo dirige, Renato Sarti. Direttore artistico del Teatro della Cooperativa, negli scorsi anni qui su Vorrei avevamo parlato del suo lavoro con Elio De Capitani su Goli Otok, della trilogia presentata all’Università Bicocca e, andando ancora più indietro fino agli esordi della rivista, della sua idea di teatro.

 

La prima di “Mai morti” risale a quasi 20 anni fa. Cosa è cambiato in tutto questo tempo, per voi che lo portate in scena e per chi viene a vederlo?

Quando l’ho scritto sentivo molto forte l’esigenza di reagire al clima della Milano di allora. Con le manifestazioni forcaiole di Bossi, Fini e Berlusconi in corso Buenos Aires. Con Borghezio che inveiva contro i migranti e le folle che urlavano “Ai forni, ai forni”. Con gli anni gli animi si sono poi un po’ rasserenati, perché quando si entra nelle istituzioni gli atteggiamenti cambiano. Però Mai morti me lo hanno sempre richiesto. Le repliche le abbiamo sempre fatte, da quindici a trenta l’anno da noi al Teatro della Cooperativa o in giro. Ora l’esigenza è tornata più forte, siamo di nuovo in un clima simile. Con Salvini che ha quel piglio lì, che piace alla gente per l‘atteggiamento risolutivo da “quattro schiaffi e risolviamo la cosa”. L’esigenza e la richiesta di questo spettacolo è un po’ il termometro di quanto succede nel Paese. Mai morti in sé non è cambiato, a parte il finale che all’epoca era dedicato al Berlusca e ora che torna in scena all’Elfo è dedicato a Salvini.

Sapere che un tuo lavoro è così attuale dopo così tanti anni è motivo di orgoglio o di frustrazione?

Dal punto di vista professionale sono molto felice, ma è motivo di grande dispiacere per il mio senso di responsabilità sapere che ancora il Paese è attraversato da fenomeni xenofobi, razzisti e fascisti. Per come sono cresciuto, la mia felicità è legata a quella degli altri, non vivo bene se sto bene io e basta.

Il protagonista è una figura completamente inventata?
Non me lo sono mai chiesto. All’epoca stavo scrivendo un testo su Pinelli, poi la mano andò altrove. Il personaggio nacque perché dovevo dare una dimensione teatrale a tutti gli elementi della storia: il gas in Africa, le torture al Piccolo Teatro, le nefandezze della X Mas… Pensai che vista dal di dentro, attraverso un nostalgico, potesse essere teatralmente più efficace. Ci sono sicuramente persone in giro che fanno molto peggio, il nostro quantomeno si limita a rievocare e basta, ma ci sono quelli che cantano, si vestono, vanno a Predappio, festeggiano la marcia su Roma.

La questione del linguaggio. Io ho il timore che per tanti la parola “fascismo” rappresenti qualcosa di molto lontano e quasi irreale, come se si parlasse delle guerre puniche. Perché vengono in mente l’olio di ricino, il fez, le parate, i balilla. Forse per questo tanti pensano che sia una esagerazione parlare di fascismo oggi, perché quelle cose non ci sono e quindi non si viene presi sul serio. Non sarà il caso di usare un nuovo vocabolario?

Su questo hai ragione, la difficoltà è proprio mantenere presente qualcosa che man mano scivola sempre più indietro. Io vado nelle scuole e qualcuno non sa neppure cos’è Piazza Fontana, per dirne una. Certo si rischia di sembrare dei dinosauri del passato, ma non ci sono altri modi. Ricordare cos’è stato il fascismo come fa il libro di Antonio Scurati (M. Il figlio del secolo, Bompiani Ndr) parlando della violenza con cui si è imposto è importantissimo perché ti fa capire la natura di quel movimento. Pensa ai motti, quelli che io metto alla fine dello spettacolo, tipo «La guerra è lo stato naturale dell’uomo maschio». Il termine può sembrare un po’ vetusto e lo è, però noi abbiamo il dovere finché possiamo di ricordare. Il problema grosso è che i sopravvissuti come Liliana Segre ormai sono pochissimi. Il fascismo dovrebbe essere un argomento all’ordine del giorno, invece c’è stata la rimozione, un’opera sistematica di oblio, voluta, cercata. È mancato un lavoro sistematico di raccolta delle testimonianze di partigiani e deportati, salvo le iniziative di singoli professori e maestri. Come Giuseppe Valota che ha fatto ricerche su quanto accaduto a Sesto San Giovanni, a Cinisello e a Monza. In Germania invece è stato fatto un lavoro serio a partire dagli anni Sessanta.

 

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Luciano Canfora nell’intervista rilasciata all’Espresso questa settimana, parlando di Renzo De Felice dice testualmente “uno studioso talvolta discutibile ma serio, che solleva il velo su un problema trascurato dalla retorica dell’antifascismo: il consenso”. Una cosa che mi sorprende sempre è l’accanimento contro quelli che sono di volta in volta i rappresentanti della destra (da Mussolini fino a Berlusconi, oggi Salvini), quasi sorvolando sul consenso che costoro raccoglievano e raccolgono.

Infatti il problema è il popolo italiano che vota Salvini. Non è andato al governo con la marcia su Roma: è stato eletto e prenderà ancora più voti perché piace quel modo lì. Di Berlusconi stesso ci siamo disfatti per questioni anagrafiche, ma del berlusconismo no. Io non dò mai tutta la colpa ai politici, anzi. Noi il senso del bene collettivo, dello Stato non ce l’abbiamo. Forse perché, come diceva Calamandrei, lo abbiamo sempre visto come uno strumento per gabbare il popolo.

Secondo me negli ultimi trent’anni circa in Italia c’è stato un grande buco formativo. Anagraficamente credo di appartenere all’ultima generazione a cui si è dato modo di capire, di comprendere cosa sia la solidarietà. Dagli anni Ottanta in poi l’essere uniti, l’essere comunità non è più stato un valore: nel lavoro, nella politica, nella formazione. Individualismo e competizione ovunque. Quindi i “giovani” (e intendo fino ai quarantenni) hanno visto un mondo in cui ognuno deve pensare a sé, facendo così il gioco di chi parte in posizione di vantaggio.

È rischioso fare il discorso “la mia generazione” perché anche noi ne abbiamo fatte di cazzate.

Certo, quello che voglio dire è: come faccio a capire oggi il valore della solidarietà? Dove la vedo messa in pratica? Dov’è che mi fanno sentire parte di una comunità?

Sono d’accordo con te, ma per fortuna l’Italia non è tutta come la stiamo descrivendo. Ci sono ovunque delle sacche, delle associazioni. Certo, il livello di guardia è molto alto. Per di più (a destra, Ndr) hanno trovato un leader capace di muovere le masse. Uno furbastro, che ha capito lo slang, come stare vicino alla gente, che incontra il consenso. Per tutto questo Mai morti diventa indispensabile.

 

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Il teatro non sembra toccato dall’evoluzione digitale. Musica, cinema, informazione sono stati completamente rivoluzionati nei tempi, nei modi, nelle economie. Il teatro è immune a tutto ciò?

Una buona parte del teatro “che conta”, seguito da critica e giornali, fa uso di video eccetera. Io personalmente sono poco affascinato da tutto ciò perché sono vecchio e sono legato al teatro di parola. Io faccio muovere molto gli attori sul palco ma quello che mi piace e affascina del teatro è che tramite il ragionamento emoziono e tramite l’emozione seguo il ragionamento.

Dal punto di vista della distribuzione e della fruizione il teatro, al contrario della musica e del cinema, ha il vantaggio di essere irriproducibile.

Lo scambio fra l’attore e il pubblico non passa attraverso un quadro o un disco, passa attraverso te uomo. Cercherei di preservare questa unicità. C’è un detto triestino: so andà baule e son tornà casson. Cioè vuoto ero e vuoto son rimasto, invece a me piace il teatro che mi fa venire qualche dubbio, qualche perplessità, che crea un cortocircuito con la tua vita reale.

Come vanno le cose per il Teatro della Cooperativa, in via Hermada?

Sempre con grande difficoltà. Dopo tanti anni di lavoro e pur facendo tutto in economia ci ritroviamo ancora a contare fino all’ultimo centesimo. Noi non abbiamo grandi finanziamenti, solo negli ultimi anni siamo arrivati a qualcosa di un poco consistente. Ciò nonostante dodici persone vengono pagate sempre puntualmente e riusciamo anche a fare qualcosa di importante per Milano e non solo, come i cinque giorni di pieno al Piccolo dello scorso anno che ci ospiterà ancora nella nuova stagione. Siamo più che soddisfatti, ma sono del ’52, ho 67 anni e sono un po’ stanchino. Qualche piccolo conforto di carattere economico sarebbe auspicabile. Lavoriamo lo stesso e per certi versi sono pure più orgoglioso, ma un po’ mi lamento. Il teatro italiano qualche aiuto in più avrebbe potuto darcelo. Per fare un esempio non sono mai andato nel circuito più grande d’Italia, l’ERT. Forse sono io che non sono capace, ma allora perché vado al Piccolo, all’Elfo, in tante città? Un po’ più di attenzione me la sarei aspettata. È andata così, nella prossima vita andrà meglio.

 

Le foto dello spettacolo sono di Matteo Di Domenico / Teatro dell'Elfo

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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