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In “C’era una volta un cacciatore” si è servito delle parole per l’interrogazione dello smarrimento, del prima e del compiuto, per l’ouverture e il finale di questo canto d’amore, per tentare di dare forma all’inquietudine del sorprendersi.

«Dove vai, tu cacciatore?
Cerchi guai o cerchi amore?
Cacciatore, dove vai?
Se muori lo saprai.»

Se c’è un ambito dell’esistenza in cui le parole dimostrano il loro rarefarsi, il non bastarsi nel conferire sostanza all’unicità di ciò che si sta rivelando, questo è il dire dell’innamoramento e il suo racconto. Fabian Negrin ha fatto tesoro anche di questa mancanza nel dare alla luce “C’era una volta un cacciatore”, il suo ultimo albo illustrato, meglio il suo ultimo libro d’artista. Delle parole si è servito per l’interrogazione dello smarrimento, del prima e del compiuto, per l’ouverture e il finale di questo canto d’amore, per tentare di dare forma all’inquietudine del sorprendersi. E poi più, il resto lo ha affidato alle figure. Opere pittoriche che aprono a quell’immaginazione indispensabile alla vita e che anticipa e prepara il coraggio del passo nell’incontro con l’altro. Ma sfogliando le pagine ci si accorge via via che anche il vedere è pretesto e compie la sua funzione lasciando che il sentire del corpo prenda il sopravvento e consapevolezza, confidando su quell’intelligenza “prima” che decide in noi il farsi di ogni altra cosa. 

In questa sospensione si è affidato al mito, in particolare a quello di Atteone, all’eco di questi nel sedimento del racconto delle fiabe che lega l’Occidente e l’Oriente, nelle “Mille e una notte”, nella traccia lasciata in “Fratellino e sorellina” dei Grimm, nei recitati di “Re Cervo” di Carlo Gozzi e nei balzi della scrittura di Madame d’Aulnoy. 

 

275 C era una volta un cacciatore

 

Del mito di Atteone esistono diverse versioni. La più conosciuta racconta della collera di Artemide scorta da questi mentre faceva il bagno nuda nel bosco del monte Citerone. Atteone, cacciatore figlio di Apollo e della ninfa Cirene, per il suo vedere fu trasformato dalla dea in cervo così che i cinquanta cani che formavano la sua muta, aizzati dalla medesima, non potendo riconoscerlo, lo divorassero. Negrin si prende la libertà di regalare una nuova possibilità al mito originario, traducendo la sua forza distruttiva in potenza generativa. 

C’era una volta un cacciatore che, con il suo arco, colpì una cerva. La cerva scappando si fermò per abbeverarsi nel piccolo lago del bosco. Il cacciatore la inseguì e quando arrivò a lambire la stessa acqua si inchinò, bevve, si specchiò e si trasformò metà in uomo e metà in cervo e, nello stesso momento, la cerva in donna. Marie Louise von Franz scrisse che “il cacciare e la caccia sono nel fondo segretamente identici”, individuando - nel cercatore l’uno, nella meta spirituale l’altra e nel cammino che conduce l’uno verso l’altra - una sorta di triplice unione. Nella simbologia, dall’Europa antica, al Giappone medioevale al Nord America degli indiani nativi, il cervo incarna la purezza e la sublimità, ha la capacità di spostarsi da un mondo all’altro, da quello terreno a quello spirituale. “Il cervo selvaggio vagando il sentiero salva l’anima dal suo pensiero”, scriveva William Blake, mentre in quel risveglio alla meraviglia che è “Auguries of Innocence” esortava a «Vedere il mondo in un granello di sabbia / E un paradiso in un fiore selvaggio, / Tenere nel palmo della mano l’infinito / E l’eternità in un’ora. /». Non è così che ci sentiamo quando siamo innamorati? Non è così che pensava Giordano Bruno nei suoi “Eroici furori”, quando usò il mito di Atteone per dire del filosofo, di quell’ “intelletto eroico” che si mette a “caccia” della conoscenza, della sapienza, per scorgere la verità ovvero la bellezza del divino in sé stessi?
Ma non si ferma qui, Fabian Negrin, e porta quei due innamorati dove nessuno aveva ancora saputo od osato condurli. Dopo quella notte, dopo l’incontro tra l’uomo cervo e la cerva divenuta donna, ciascuno dei due provò a tornare al proprio universo, ma inutilmente. Perché la forza dell’attrazione, quando sconvolge mutandoci, chiede di essere obbedita e non permette che chi si appartiene possa vivere disgiunto, e fosse anche solo per questo Negrin disegna per loro un nuovo incontro, l’aurora del giorno dei giorni, che darà vita alla vita. È una questione di corpi, che si mostra in questo racconto perfetto, della metamorfosi profetica che accade nascosta agli occhi di tutti, tranne dei due innamorati, che avviene o non avviene. Quella morte che fa rinascere a se stessi. Che si fa grazia o non è. Che libera dalla paura. Che nasce dal desiderio silente e incontenibile e trova forma ed espressione, riconoscimento e accoglimento nell’altro. Non un altro qualsiasi. Da quella passione che splende nella profondità della libertà dell’essere, amato e amabile, nel pieno del senso della vita. Del significato della propria vita. E trovo che sia un libro imperdibile e prezioso, questo, nel mostrare l’essenza del nostro essere, che è quell’Eros bambino, figlio di Afrodite forse qui generato, così sostanzialmente e profondamente bambino, che in ogni modo cerchiamo di opprimere e di farlo al più presto, di farlo sentire sbagliato, ingiusto, impuro e che quando siamo fortunati continua a sopravvivere, sentiamo quella forza calda che ci sostiene in fondo a noi, che dice così bene di noi, che guida la nostra unicità, il principio animatore dell’universo. Della conoscenza e della gioia, sì dell’attrazione sessuale ma insieme dell’attenzione intensa verso qualcosa che ci conduce a destinazione. Dell’amore, forza fondamentale del mondo. Di ciò che gli altri, al di fuori di noi, non potranno mai essere e mai capire, se non siamo noi a realizzarci. Fin da bambini, per il resto della nostra infanzia che è il tempo che ci è stato dato per fare la differenza ed esserne luminosamente ed eternamente felici, della nostra differenza, che ci farà grandi e grati. Oggi più che mai abbiamo bisogno di libri così.

«Cerva, cerva
tu cambi se ti si osserva.
Chi sei tu? Chi sono io?
Sei della foresta un dio?
Scocco una freccia nell’aria
ma sei preda immaginaria
e dall’arco delle tue corna
la saetta mi ritorna.
Sono l’animale ferito
o un cacciatore pentito?
D’acqua e di luna sembri fatta
Tu sei donna o sei cerbiatta?
Lo specchio dell’amore muta,
mi mostra una figura irsuta.
Sono un uomo o un animale?
Posso vivere al plurale?
Cerva, cerva
nessuna forma si conserva.»

 

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Fabian Negrin, “C’era una volta un cacciatore”, Orecchio Acerbo Editore , Roma 2019

Gli autori di Vorrei
Elisabetta Cremaschi
Elisabetta Cremaschi
Mi occupo di Pedagogia delle narrazioni, che significa di letteratura, di arte, di illustrazione, cinema, danza, teatro partendo e mantenendo come centro del tutto la visione dell’infanzia.