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Il pubblico era per i liberali un territorio dove la ragione avrebbe dovuto prevalere sulle differenze sociali. Quello dei marxisti era uno spazio pubblico da concepire sostanzialmente come quello della pari possibilità all’espressione. Oggi è ormai visibile l’immensa bolla di esteriorizzazione del nostro privato da cui non ci si può sottrarre.

Nel corso di questi cinque anni, da quando abito in pieno centro storico, mi sono accorta che lo spazio pubblico è un concetto in radicale mutamento. Sempre in bilico tra parole minacciose come restrizione, degrado e ordinanza, ciò che vedo da questo mio terzo piano è un’altra significativa variante. Non collegato né erede di ciò che nell’arco del XX secolo sia i pensatori liberali che marxisti hanno pensato dello spazio pubblico, cercherò di raccontare quello che ha l’aria di essere una vera e propria mutazione.  

Il pubblico era per i liberali un territorio dove la ragione avrebbe dovuto prevalere sulle differenze sociali. Erano pensatori della spontaneità dei mercati o intelligenti osservatori come Norberto Bobbio che speravano di generare una forma raffinata di sfera pubblica, dove le persone si riconoscono come eguali ma soprattutto pensano al bene comune dall’interno delle loro differenze. Differenze riconosciute appellandosi all’esercizio della razionalità. Quello dei marxisti era uno spazio pubblico da concepire sostanzialmente come quello della pari possibilità all’espressione. Altre teste pensanti del Novecento hanno visto in questo spazio che è per definizione aperto a tutti, uno spazio di relazioni dove purtroppo si rende concreta la differenza di status sociale legittimando il predominio intellettuale di una classe sociale sulle altre.

Bisogna dire che l’avvio di questo ventunesimo secolo e la configurazione dei fine settimana dei ragazzi che frequentano la via centrale in cui mi trovo ad osservarli, mi offre panorami impensati. A tarda serata sono tantissimi e vivono una via centrale – non ancora piazza ma non per questo meno esotica per chi viene dalla periferia – che impone loro una sorta di sistema obbligato del “partecipi se consumi”. Non sembrano ammessi cioè i ragazzi del passavo di qui, a meno che non sia per motivi specifici. Voglio dire che è proprio nello spazio pubblico che s’impongono alcune importantissime differenze che “contano più di altre”, e non solo quelle di genere, con il dominio del maschile ma quelle più genericamente associate alla diversa capacità d’acquisto. Della prima mi appare visibile chiaramente dalla mia finestra la prossemica di alcune significative postazioni sopraelevate reclamate dai gruppi di ragazzi il cui scopo credo sia quello di creare pubblico alla passerella obbligata dell’universo femminile. Ciò che favorisce e accresce il plauso di questa strada è che gode di un portico sopraelevato antistante una scuola che di notte si fa sede di due ristoranti e di altrettanti bar che rimangono aperti fino a tarda notte. È proprio il portico credo, ad essere il vero e proprio luogo di incontro e di scambio, luogo condiviso del vivere urbano. Da questo punto di vista, lo spazio pubblico è quello che si viene a creare tra la strada e il piano sopraelevato. È questo un luogo pubblico della città, così come pubblico è ogni luogo della città nel quale le persone si incontrano. È uno spazio di rappresentazione simbolica estremamente interessante.

Della seconda differenza che conta, quella relativa allo spazio del consumo nel quale mettere in mostra ciò che consumiamo, credo basti la semplice osservazione della quantità di accessori d’alta moda e pelletteria che qui si concentra a partire dal venerdì.

Scompare il cittadino impegnato politicamente di molti decenni fa e dall’altro la politica fugge dalla forma fin troppo pubblica di questi spazi.

Eppure, lo spazio pubblico che osservo è solo una delle sue varianti, se è vero che anche quello invisibile e sotterraneo delle reti idriche e delle fognature è definito “spazio pubblico urbano”! Dunque sto avendo a che fare con uno spazio pubblico che secondo Bauman già negli anni Novanta era sempre più a rischio. Oggi, per contrasto, è ormai visibile l’immensa bolla di esteriorizzazione del nostro privato da cui non ci si può sottrarre. Ma c’è di più: da un lato scompare il cittadino impegnato politicamente di molti decenni fa e dall’altro la politica fugge dalla forma fin troppo pubblica di questi spazi. Non sa più che farsene, impegnata com’è a discutere di spazi di controllo, di telecamere o di soggezione che appella quello pubblico come spazio del degrado.

Credo cioè che lo spazio che guardo da quassù e che mi ostino a chiamare pubblico sia uno spazio artificiale, costruito consapevolmente al fine di esaltare o minimizzare le differenze tra gli habitué che ne fanno uso. Abitudinari che di fatto fanno città se non proprio comunità o addirittura villaggio, ma che in sostanza stanno chiaramente opponendosi ai complessi commerciali del tempo libero che fioriscono in ogni grande città. Anche nella deriva di villaggio insomma – con i rischi che ciò comporta – questo spazio produce in triplice veste risultati che diventano giocoforza politici. E politici proprio nel momento in cui liberismo o marxismo hanno abdicato abbandonando lo spazio pubblico oltretutto sperando di sostituirlo allo schermo del computer di casa. Quello che vedo insomma mi sembra un secco no a quanti sostengono la fine dello spazio pubblico.

Nel Novecento l’urbanistica e l’architettura riflettevano sugli spazi pubblici mentre quegli urbanisti e architetti li costruivano.

C’è di più: nel Novecento l’urbanistica e l’architettura riflettevano sugli spazi pubblici mentre quegli urbanisti e architetti li costruivano. Era quello il momento per proporre le loro ipotesi circa ciò che era giusto o democratico. Oggi invece che quello spazio lo usiamo perché lo abbiamo trovato, non sempre ci accorgiamo di cos’è e dunque non sappiamo farci affidamento. Insomma quando c’è, non si vede. Non è un caso che l’uso e la pratica dell’urban design, del decoro, dell’installazione artistica e i tentativi di riappropriazione dello spazio pubblico siano da collocarsi negli anni Ottanta, momento di grande fase espansiva dei progetti d’arte relativi a quella civiltà occidentale che dal punto di vista politico e ideologico era invece entrata in crisi. Liberismo e marxismo ancora una volta al tappeto, prostrati all’infinita serie di costruzioni volte al divertimento postfordista.

Oggi i più anziani si raccontano gli anni Ottanta con la nostalgia e la preoccupazione di chi si accorge di aver speso poco saggiamente energie e denaro. Ce lo raccontano i progetti conclusi per mancanza di fondi tanto per l’evento d’arte contemporanea quanto per l’idea del progettista urbano. Anche all’interno dei progetti d’arte più disparati, dalla danza alla semplice conferenza e festival, tutti vogliono esplicitare il bisogno del luogo aperto, condivisibile e democratico.   La città delle notti bianche, dei festival, degli eventi, della movida e degli aperitivi ci viene offerta come versione aggiornata e rivista di uno spazio antico che però in molti dicono di essere irrimediabilmente perso. C’è in loro quella continua attenzione al consumo e all’acquisto che ne minaccia il valore e che ritrovo anche sotto casa. Quella di questa via in pieno centro storico, sembra una sorta di palcoscenico nel quale l’abitante si trasforma in qualcos’altro: spettatore di spettatori che a volte si fa attore protagonista di un ruolo che imperterrito tutti i fine settimana propone abiti eleganti insozzati dal vomito obbligato dei quindicenni in coma etilico. Una libertà carica di imposizioni che rovescia l’idea dello spazio pubblico per quel rituale intorno all’occasione della festa che nei secoli scorsi aveva il compito di contrastare la rigidità dominante dei tempi di vita e di lavoro. La città dello spazio pubblico cioè è sempre più quella dell’evento. Pertanto il suo ruolo sembra essere solo quello di vendere con la strategia del marketing, anche il-cosa-bisogna-fare nel nostro tempo libero.  

La soluzione sempre più turistica si traduce in mercificazione e il talento degli amministratori istituzionali non tenta nemmeno di mettere in discussione la creatività di questi manager culturali capaci di tradurre in cifre la bontà di ciò che chiamiamo cultura. È così che si attiva la selezione del pubblico e si fa in modo che l’entrata in città sia concessa solo a una determinata capacità di consumo e di comportamento. Molte sono le città che cercano la propria liberazione dai cittadini “in eccesso”, che nello specifico sono sempre più spesso studenti o turisti per i quali lo spazio pubblico è sempre meno accessibile.

Mi accorgo allora che al di là degli scenari apocalittici o della distopia delle megalopoli dove di spazio pubblico non si parla più, posso guardare questo spazio in un altro modo ancora. Posso vederlo come uno spazio che tende a ridiventare pubblico proprio perché ci troviamo derubati da supporti storici e architetturali stabili o autorevoli. È qui cioè che si corre il rischio tutti insieme di giustificare usi deliranti di questo spazio a metà strada tra il bisogno di far restare tutto così com’è e il semplice disinteresse culturale al punto da trovarsi a vivere uno spazio in maniera vuota di significato perché siamo troppo attenti a quella specie di adesso al quale fa ribrezzo la passione sociale per il futuro o la curiosità per il passato. Un adesso che attraverso relazioni interpersonali fatte anche di percorsi alternativi, rituali tribali e immateriali interessi alla vita in comune è poi tutto ciò che si può prendere dal passato. Specie quando come il secolo scorso ha così poco da insegnare.

 

Gli autori di Vorrei
Matilde Puleo
Matilde Puleo
Storica e critica d’arte, curatrice, organizzatrice di eventi culturali e docente (www.megamega.it). Collabora con riviste di settore e scrive regolarmente di arti visive e cultura. La tendenza è quella di portare avanti l’approfondimento e l’articolazione del pensiero come fari con i quali sviluppare la necessaria capacità d’osservazione e di lettura del mondo.