Auguste Renoir Dance at Le Moulin de la Galette Google Art Project

Tutti gli uomini sono nati uguali – diceva – e non si debbono mandare i negri a caricare le caldaie mentre i bianchi se ne stanno comodi nelle poltrone imbottite delle cabine di lusso…

L’ho incontrato a Montmartre, dove aveva lo studio principale (ora sul posto c’è un Museo), l’ho seguito ad Essoyes, in Borgogna, dove andava d’estate in campagna con la famiglia e a Cagnes-sur- Mer, oggi praticamente Nizza, dove andava a curarsi i reumatismi. Ovunque e sempre con i suoi pennelli, colori e treppiede.

Non sono un critico d’arte e vorrei quindi proporvi una lettura laica della vita di Renoir, centrata soprattutto sulla sua figura, dato che ormai le sue opere sono celeberrime e sparse per il mondo (essenzialmente in Francia Usa e Russia).

Renoir (così veniva chiamato dalla moglie e dai figli) nacque a Limoges, Nuova Aquitania, nel 1841 e si trasferì più tardi a Parigi con tutta la famiglia. Il viaggio in carrozza durò ben due settimane. A quei tempi in Francia l’illuminazione era ad olio; per bere e lavarsi, chi se lo poteva permettere, doveva aspettare che arrivasse il portatore dell’acqua, gli altri andavano alla fontana pubblica; l’acqua sporca si vuotava in un buco nel pavimento che tramite tubi evacuava fuori casa; anche i gabinetti seguivano lo stesso percorso; lo spazzolino da denti così come lo conosciamo noi non era di uso comune e ci si puliva i denti con legnetti a punta e acqua salata. Il riscaldamento nelle case avveniva con stufe a legna e la gente andava a letto presto per risparmiare olio e legna.

Fin da giovanissimo Renoir iniziò a guadagnarsi da vivere dipingendo su porcellane per conto del suo capo bottega, in particolare dipingendo il ritratto di Maria Antonietta che andava a ruba e che in breve gli fece guadagnare, per la sua età, una fortuna. Ma non lo faceva per i soldi. Renoir faceva solo quello che gli piaceva fare e dipingere gli piaceva. Più avanti cominciò a decorare anche muri e pareti di caffè e lo faceva talmente bene che gli ordini fioccavano. Nel frattempo studiava all’Accademia dove terminò brillantemente gli studi. Era pronto per diventare quello che tutti conosciamo. Cominciò a frequentare il Café Guerbois, a Batignolles, allora periferia di Parigi, non lontano da Montmartre che a quell’epoca era solo un villaggio di poche anime, perduto fra siepi di rose canine, vigne e mulini, che potevano campare grazie ai pochi pozzi di acqua potabile (con le tubazioni l’acqua sarebbe poi arrivata in cima alla collina, e la butte , cioè la collina di Montmartre, si trasformò). Conobbe Bazille, Cézanne, Sisley, Pissarro, Degas, Monet, lo scrittore Zola (che poi ebbe modo di disdegnare la loro condizione indigente) che erano soliti frequentare quel luogo e fece gruppo con loro (i suoi figli e quelli di Cézanne rimasero amici) . Le sue idee si composero definitivamente con il soggiorno ad Argenteuil, nella casa di Manet lungo la Senna e, molto tempo dopo, con i suoi viaggi in Italia.

Renoir è stato forse il capostipite dell’impressionismo. Con lui la pittura uscì “all’aria aperta”. Renoir è stato il pittore della natura, della vita, e della bellezza, anche femminile, ma è stato anche il pittore del sentimento migliore della vita, oggi dimenticato, cioè la gioia di vivere. Renoir dipingeva la gioia di vivere, di comunicare, di stare assieme (Bal au mulin de la Galette, Colazione in riva al fiume, La Grenouillére, La colazione dei canottieri…), quella vissuta sino alla fine della Belle Epoque. Per lui i colori e la luce erano la vita, e tutto ciò che era vita era degno di essere ritratto. Anche l’ombra, se c’era luce, aveva un colore. Se non c’era luce c’era solo il buio, e sulla tavolozza di Renoir il nero non aveva molto spazio. Nei suoi quadri lo spirito si liberava della materia non ignorandola ma penetrandola e cambiandola, perché i colori erano quelli che vedeva lui. L’impressionismo imponeva di guardare i quadri da lontano. Non esistevano più i tratti sicuri e i particolari da decifrare. L’Orsa Maggiore non la osservi con il cannocchiale, basta alzare gli occhi al cielo. A quell’epoca la pittura era un fatto di cronaca ed i media si scagliarono con ironia contro quel genere nuovo di pittura che non capivano e disprezzavano. Ma Renoir aveva anche una sua filosofia di vita che l’accompagnava nella pittura. A casa sua ogni oggetto era stato fatto da un artigiano ed aveva un suo scopo. Non c’erano oggetti fatti in serie. «Non avevano anima» diceva. Anche le sedie, benché simili, erano ognuna diversa dalle altre. Odiava gli oggetti di fabbricazione industriale. Ogni oggetto era stato creato per uno scopo così come l’essere umano. E la perdita di un essere umano voleva significare che quello scopo non sarebbe stato raggiunto. Ogni essere umano, si intende, di qualsiasi religione, etnia o colore della pelle. «Tutti gli uomini sono nati uguali – diceva – e non si debbono mandare i negri a caricare le caldaie mentre i bianchi se ne stanno comodi nelle poltrone imbottite delle cabine di lusso, altrimenti non siamo cristiani, ma indù il cui sistema è basato sulle caste». Amava i romanzi di Alexandre Dumas padre, figlio di una schiava afro-haitiana.

Pur avendo passato tanti anni nella indigenza più feroce era un generoso. Chiunque poteva andare a casa sua e, sapendolo prendere, farsi regalare un quadro. Era amato in tutta Montmartre. Insegnava ai figli che certe cose come l’assistenza al nostro prossimo, l’amicizia, l’amore, non sono in vendita. Si operano e basta. D’altra parte diceva che i valori basati sul denaro sono relativi e che l’unica ricompensa del lavoro è il lavoro stesso. «Bisogna essere molto ingenui a lavorare per il denaro. Vi sono più nevrastenici fra i ricchi che fra i poveri…»

Dietro Renoir c’era sempre la presenza della moglie Aline Charigot, già sua musa ed amante, silenziosa, discreta, ma ferma. Aline usava dire che la mania di cullare un neonato appena piange è un delitto, o meglio, un cattivo servizio reso loro «Fa molto piacere cedere a un capriccio ma così facendo quante delusioni si preparano per essi». Quanta saggezza raffrontata ai tempi nostri! Aline gli diede tre figli: l’attore Pierre, il regista Jean (La grande illusione, La regola del gioco…) e Claude, tutti sepolti col padre a Essoyes. Restò a fianco del marito, nonostante i suoi tradimenti, sino alla morte avvenuta nel 1915. 

Renoir giudicava la bruttezza degli edifici costruiti verso la fine dell’800 e la deturpazione della natura come un pericolo maggiore delle guerre. «Quando ci saremo abituati – diceva – sarà la fine di una civiltà». 

Mi domando cosa avrebbe detto se fosse vissuto oggi…

«Per essere un artista – diceva – bisogna imparare le leggi della natura». E per godere di qualcosa di bello bisogna amarlo per se stesso e non perché “è firmato” o perché “gli altri lo apprezzano”.

Parlando dei giapponesi diceva che sanno contemplare, guardare con passione anche un filo d’erba, il volo degli uccelli, il movimento dei pesci, e sanno godere di questo. «Non è dato a chiunque di godere».

Nonostante verso la fine della sua vita non gli mancassero i mezzi, preferiva ancora mangiare fagioli e patate anziché caviale. Dipingeva tutto il giorno per tutti i giorni dell’anno. E anche quando i reumatismi gli rattrappirono le dita si faceva legare i pennelli alla mano. In questo modo dipinse il suo ultimo quadro Le bagnanti.

Della Provenza amava la dolcezza del clima, i colori della natura e la bouillabaisse (la zuppa di pesce). E lì si spense, a Cagnes-sur-Mer nel 1919.

Un grande artista, ma non solo.

 

In apertura: Auguste Renoir Dance at Le Moulin de la Galette

Gli autori di Vorrei
Francesco Achille
Francesco Achille

È nato a Milano, laureato, ha lavorato presso le principali società del settore impiantistico e cantieristico italiano; attualmente imprenditore in semi pensione, si occupa da sempre di politica, economia e ambiente, è appassionato di letture in genere, di collezionismo, di astronomia, e di agricoltura che pratica, quest’ultima, in un piccolo appezzamento di terreno dove coltiva con amore e sacrifici frutta e verdura biologica.

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