Un'intervista a Giuseppe Mariani, già docente e dirigente scolastico, autore di una appassionata e documentatissima Storia della scuola elementare comunale in Italia dal 1815 al 1945. Il caso di Seregno
Quanto importante è la scuola elementare? Quanto lo è stata per ciascuno di noi, quanto lo è per le famiglie e per i bambini di oggi, quanto per i governi che si succedono con progetti sempre diversi di società e di istruzione dei cittadini? L'impressione che non riesco ad allontanare è che oggi essa sia relegata in un ruolo marginale, quasi che il primo grado dell'istruzione fosse il più facile e scontato, o come se oggi fosse reso quasi superfluo dalla diffusione di una presunta “cultura” di massa.
C'è stato un tempo, invece - lo sappiamo, credo, ma ce ne dimentichiamo volentieri - in cui la scuola elementare era per la maggioranza della popolazione l'unica possibilità di istruzione, di acquisizione degli strumenti minimi per potersi orientare come cittadini. Che poi i governi la volessero per “Fare gli Italiani” dopo aver fatto l'Italia, o per educare alle “idealità del Fascismo”, poco importa, se in definitiva attraverso la scuola elementare si raggiunse lo scopo di riscattare dall'analfabetismo le classi popolari.
Ma quanto sia costato il raggiungimento di questo obiettivo ce lo dice una attenta, amorevole ricostruzione della storia della scuola elementare in Italia, vista nella lente d'ingrandimento della storia locale, quella lombarda e in particolare seregnese. Nel suo recentissimo libro Storia della scuola elementare comunale in Italia dal 1815 al 1945. Il caso di Seregno, edito da GWMAX, Giuseppe Mariani, già docente e dirigente scolastico, nonché attualmente autore di manuali per la formazione dei suoi colleghi, ci accompagna a conoscere le difficoltà, le sofferenze, le vicissitudini di quanti nella scuola erano coinvolti a tutti i livelli attraverso quasi un secolo e mezzo di grandi rivolgimenti politico-sociali, dal 1815 al 1945. Il fuoco sulla storia locale permette di seguire da vicino tutti gli aspetti della istituzione e della vita scolastica, ricostruiti attraverso ricerche d'archivio svolte con palese coinvolgimento.
Il fuoco sulla storia locale permette di seguire da vicino tutti gli aspetti della istituzione e della vita scolastica in anni così lontani
Come mai ti ha appassionato tanto questa ricerca?
Le ragioni sono due: la mia esperienza diretta della scuola primaria e una generale riflessione sul modello di autonomia scolastica attuata in Italia oggi nel confronto con l’autonomia delle scuole gestite dai Comuni fino al primo dopoguerra. Con l’anno 2000, entrata in vigore l’autonomia scolastica attuale, scuole medie e scuole elementari sono state aggregate in “istituti comprensivi”: ho avuto così modo di conoscere da vicino il lavoro delle insegnanti della primaria. Mi stupiva il “miracolo” che avveniva nelle loro classi prime: i bambini, dopo pochi mesi di scuola, arrivavano a leggere e a scrivere!
Qualche considerazione più ampia vorrei invece svolgere sul modello di autonomia scolastica attuata in Italia: è un’autonomia “funzionale”, basata sulla delega di funzioni amministrative, dalla quale restano escluse funzioni sostanziali, tipiche dell’autonomia degli enti territoriali (Comuni e Province), delle Aziende della sanità, di tutti gli Enti pubblici (economici e non). Ad esempio, il personale docente viene reclutato tramite concorsi nazionali e le scuole non hanno la possibilità di far valere il loro progetto educativo e di cooptarli sulla base della sua condivisione. Nel 2015 fu approvata la legge n. 107 (riforma della cosiddetta “buona scuola”) che prevedeva il meccanismo della “chiamata diretta” degli insegnanti iscritti nei ruoli territoriali da parte del dirigente scolastico. L’innovazione suscitò la più aspra opposizione sindacale, il governo Renzi decadde e la norma fu abrogata.
Più in generale, rimane immodificabile la cultura amministrativa italiana, frutto del centralismo napoleonico, che ha costruito la pubblica amministrazione nella logica piramidale dell’ordinamento gerarchico.
Così, davanti alle responsabilità educative e culturali, rimangono sullo sfondo atteggiamenti improntati all’adempimento formale. Questo limite appare, spesso in misura macroscopica, nell’impostazione di lavoro dei dirigenti scolastici: il concetto di responsabilità della gestione della scuola è conformato su quello della responsabilità verso la gerarchia ministeriale, più che verso i risultati dell’istituto da loro diretto e verso i risultati nei confronti degli utenti (famiglie e studenti). Non si sentono obbligati verso gli enti territoriali che pure forniscono strutture e finanziamenti e che sono interessati alla buona gestione scolastica (Comuni, Province, Regioni): né questi ultimi possono esprimere gradimento o insoddisfazione nei confronti del loro operato.
Ancora di meno (salva la propria personale sensibilità) sono tenuti alla rendicontazione nei confronti delle associazioni culturali, imprenditoriali, sindacali, del volontariato, che costituiscono l’humus del tessuto sociale ed economico del territorio.
Eppure, sono possibili letture più inclusive della scuola autonoma come scuola del territorio, espressione della comunità del luogo, scuola gestita, sulla base del principio di sussidiarietà, dall’ “autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati” (legge n. 59 del 1997). L’esperienza del sistema scolastico del Regno Unito dimostra che ciò è possibile.
Cartolina d'epoca della scuola comunale Umberto I di Seregno, poi trasformata in uffici comunali
Come mai si tratta di una storia della scuola elementare comunale?
A partire dalla mia esperienza di dirigente di scuola primaria, ho sentito una forte spinta ad indagare su quella fase storica (durata dalla fine del Settecento fino alla riforma Gentile degli anni Venti del Novecento) in cui le scuole elementari erano diretta espressione delle Amministrazioni comunali, che bandivano i concorsi per assumere insegnanti e direttori ed erano responsabili del funzionamento delle scuole davanti alle proprie comunità. È la scuola, che, con tutti i suoi limiti, ha consentito il decollo della comunità nazionale e il superamento dell’analfabetismo di massa, con il relativo corollario di soggezioni ai ceti dominanti, svolgendo una inziale funzione di “ascensore sociale” per le classi degli esclusi.
le scuole elementari erano diretta espressione delle Amministrazioni comunali, che bandivano i concorsi per assumere insegnanti e direttori ed erano responsabili del funzionamento delle scuole davanti alle proprie comunità.
Quali vantaggi e quali difficoltà comportava questo decentramento?
Dalla mia ricerca storica risultano evidenti i vantaggi e le difficoltà (soprattutto le difficoltà) insiti in questo decentramento: e voglio tornarci nelle righe seguenti.
Credo però che non si possano tirare conclusioni sull’applicazione della sussidiarietà nella scuola in base alle condizioni in cui, storicamente, essa è stata attuata nei secoli passati.
In Italia, la scuola elementare era nata come scuola retta dai Comuni e posta a loro carico: la legge Casati (Regio decreto 13 novembre 1859, n. 3725) affermava all’art. 318: “Le Scuole comunali, in cui vien data questa istruzione, sono dirette, a norma della Legge e dei Regolamenti, dai rispettivi Municipii”. Quella scelta nasceva da una sorta di gerarchizzazione delle funzioni: allo Stato l’unità nazionale, l’esercito, le infrastrutture e le Università; ai Comuni i compiti minori, pur ritenuti essenziali, che però lo Stato non era in grado di svolgere per mancanza sia di risorse finanziarie sia di idonee strutture organizzative.
Fu una scelta di necessità, che fu poi gestita nei modi che sappiamo. Al di là di leggi e regolamenti, formalmente validi in tutto lo Stato unitario, la qualità della scuola elementare e la stessa erogazione del servizio sul territorio erano estremamente disomogenei. Nelle aree industrializzate il progresso tecnologico, l’organizzazione del lavoro, la presa di coscienza dei diritti sindacali richiedevano che i lavoratori fossero in possesso di quella minima cultura di base che si esprimeva nella triade “leggere, scrivere, far di conto”.
Ma nella gran parte del Paese, ove l’economia, basata sull’agricoltura e sulla pastorizia, era a livelli di sopravvivenza, la miseria regnava sovrana; i Comuni, gestiti direttamente o indirettamente dai latifondisti locali, non avevano interesse a dare cultura ai figli dei contadini e dei braccianti. Quando poi le scuole venivano aperte, vi si iscrivevano i bambini che appartenevano ai ceti più evoluti, non coloro che vivevano nelle campagne o seguivano le greggi nella ricerca dei pascoli.
Con questa ricerca storica ho voluto riportare alla nostra conoscenza la fatica di generazioni di bambini che a scuola ci sono andati a prezzo di sacrifici immensi, con risultati spesso frustranti, ma nel convincimento che vi avrebbero trovato il riscatto dalla miseria e la promozione sociale per sé e per le proprie famiglie. L’alfabetizzazione, allora, era una conquista quanto mai meritoria.
Abbecedario
Con questa ricerca storica ho voluto riportare alla nostra conoscenza la fatica di generazioni di bambini che a scuola ci sono andati a prezzo di sacrifici immensi.
Delle tante riforme attuate fino al secondo dopoguerra, quale ritieni abbia meglio contribuito a migliorare la condizione dei maestri e degli alunni?
Nei primi decenni del Novecento, a partire dai governi Giolitti, si svolse un processo di profonda revisione della scuola elementare. Le tappe furono segnate da due importanti provvedimenti legislativi: la legge Daneo-Credaro del 1911 e la riforma Gentile degli anni 1923/28. La svolta storica insita nella legge Daneo-Credaro consistette nell’avocazione allo Stato dell’istruzione elementare. Tale intervento comportò il passaggio ai Consigli scolastici provinciali (presieduti dai Regi provveditori agli Studi), dell’amministrazione delle scuole prima gestite dai Comuni; e, ancora, nell’istituzione dei ruoli provinciali dei maestri delle scuole elementari, i quali cessavano così di essere dipendenti comunali per passare ai ruoli dello Stato.
La legge era ispirata ai programmi della Sinistra storica, laica e radical-socialista: tenne però conto anche della sensibilità dei cattolici, che era rivolta al mantenimento della sussidiarietà nel campo educativo e alla tutela delle autonomie locali nel campo dell’istruzione. In questo clima di avvicinamento fra le forze di governo e l’opposizione dei cattolici (lo stesso da cui scaturì il “patto Gentiloni” del 1912), la statalizzazione della scuola elementare fu congegnata in uno spirito di compromesso, aperto a soluzioni intermedie che lasciavano spazio agli orientamenti politici dei Comuni: in tal modo, venivano rimarcate le finalità positive della legge, che erano volte a garantire il diritto all’istruzione dei bambini e non ad usurpare le autonomie locali. Così, poterono restare autonome le scuole dipendenti dai Comuni capoluogo di Provincia o di Circondario. Nei Comuni minori, la statalizzazione poteva essere disattesa in presenza di comportamenti virtuosi, nel caso in cui, ad esempio, il numero degli analfabeti del Comune (accertato col censimento del 1911) fosse risultato non superiore al 25% della popolazione, dai sei anni in su: fu questo il caso di Seregno.
Il nome di “riforma Gentile” viene dato ad un complesso di provvedimenti che tra il 1923 e il 1928 diedero un assetto stabile e coordinato al sistema scolastico ed universitario italiano. Il ministro (e filosofo) Giovanni Gentile si circondò di persone di orientamento diverso, quali Benedetto Croce e Giuseppe Lombardo Radice, il quale scrisse i Programmi per la rinnovata scuola elementare. Lontano da suggestioni ideologiche, nei Programmi espresse il suo amore per la scuola dei bambini, che voleva creativi e sereni, e dei maestri, che voleva colti e appassionati. Il mito della spontaneità infantile trovò la sua valorizzazione negli insegnamenti artistici, canto e disegno, i cui programmi sono ricchi di spunti e di dettagli. In apertura, la Premessa dichiarava la libertà dell’insegnante di adottare la metodologia ritenuta migliore, purché conseguisse il risultato annualmente prefissato: “I programmi di studio, che qui si descrivono, vogliono avere, più che altro, un carattere indicativo. Si addita al maestro il risultato che lo Stato attende dal suo lavoro, in ciascun anno di scuola, pur lasciandolo libero di usare, per ottenerlo, i mezzi opportuni”: un’anticipazione della cultura delle Indicazioni nazionali che, a partire dal 2004, hanno sostituito i “Programmi ministeriali”.
Giudizi
Quali fra le storie emerse da tante carte ingiallite ti hanno colpito di più?
Le vicende forse più eclatanti furono due: nel 1907 la “rivolta delle donne” contro il direttore didattico, accusato di insegnare ai bambini il “catechismo di Garibaldi”; e, dopo la guerra, la vicenda dei “tre maestri socialisti” che impedirono al Parroco di svolgere le lezioni di catechismo.
Prima di fare questa ricerca avevo l’immagine di un mondo scolastico ottocentesco, alla De Amicis, fatto di buoni sentimenti, di dedizione totale dei maestri alla missione educativa, di rispetto della gerarchia (se non di soggezione ad essa). La realtà era molto più variegata, l’impreparazione e l’indisciplina dei maestri erano fenomeni ricorrenti anche per la mancanza di direzione e di guida.
Occorre distinguere fra le città, gli abitati minori e le campagne. A Seregno il primo direttore didattico fu nominato nel 1903; fino ad allora la scuola elementare seregnese faceva capo all’Ispettore scolastico della Provincia, ma, in realtà, ai Sindaci, che sicuramente avevano grandi meriti ma (di solito) non in campo culturale.
Trovai assolutamente sorprendente la vicenda della cacciata del direttore, il cui torto era stato quello di aver imprudentemente manifestato la propria fede garibaldina, ma che certamente non meritava quella rivolta improntata al più ottuso sanfedismo.
Di segno opposto fu la bravata dei tre maestri che, nella primavera del 1922, si misero d’accordo per impedire al Parroco di entrare nelle loro classi a fare catechismo: quasi tutte le famiglie, per protesta, ritirarono dalla scuola i propri bambini, che andarono a frequentare la scuola privata dell’oratorio. Il risultato fu che, a fine anno, i tre maestri li bocciarono tutti, e poterono farlo perché la direttrice, spaventata dalla loro ribalderia, non fece nulla per tutelare questi bambini. Fu il Parroco a prendere in mano la situazione e a fare gli opportuni ricorsi presso il Ministero perché fosse salvato l’anno scolastico di questi innocenti.
La scuola italiana di oggi è frutto di quella straordinaria evoluzione che, a partire dalla fine della guerra e dalla Costituzione del 1948, ha consentito di raggiungere l’attuazione di quei diritti di uguaglianza e di pari opportunità garantiti dagli articoli 2 e 3.
Nonostante tante situazioni disastrose e tanta insipienza educativa, spesso ti ritrovi a considerare positivamente l'azione amministrativa, l'impegno, l'efficacia delle classi dirigenti del passato nei confronti della scuola. Pensi si possa imparare da questo passato?
Quella che prospetti è una sintesi veritiera ed efficace. Quelle Amministrazioni fecero quasi sempre del loro meglio, considerate le condizioni in cui si trovavano: ma non avevano gli strumenti, né culturali né finanziari, per garantire pienamente il diritto alla scuola dei loro piccoli cittadini.
La scuola italiana di oggi è frutto di quella straordinaria evoluzione che, a partire dalla fine della guerra e dalla Costituzione del 1948, ha consentito di raggiungere non solo impensabili livelli di sviluppo economico e tecnologico ma anche (e anzitutto) l’attuazione di quei diritti di uguaglianza e di pari opportunità garantiti dagli articoli 2 e 3.
Mi resta il convincimento, che già prima ho espresso, che l’autonomia scolastica possa diventare espressione di sussidiarietà non solo in senso verticale (verso la piramide ministeriale) ma soprattutto in senso orizzontale, verso le “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost. La riforma costituzionale del 2001 ha introdotto nell’art. 118 il criterio generale della sussidiarietà nel rapporto fra i cittadini e le istituzioni. Mi chiedo perché la conduzione delle scuole non apra, per esempio, l’elaborazione dei propri “Piani triennali dell’offerta formativa” ad un efficace dialogo con gli Enti territoriali che pure ne finanziano strutture e servizi, superando logiche corporative e steccati di appartenenza burocratica.
In questa cornice da profondo conoscitore dell'istituzione scolastica, in realtà Giuseppe Mariani racconta con grande partecipazione le vicende dei protagonisti di quel passato: sindaci, maestri e direttori alle prese con magri bilanci e ancor più magri stipendi, con locali inadeguati e malsani, ma soprattutto bambini costretti in classi affollate in modo per noi inimmaginabile, divisi tra l'obbligo scolastico e le necessità di sopravvivenza delle famiglie, troppo spesso tagliati fuori dall'opportunità di istruirsi dai giudizi impietosi di maestri impreparati o dalle difficoltà della loro dura e talvolta troppo breve vita. Di questi aspetti parlerà al Circolo San Giuseppe di Seregno il prossimo 11 giugno, sabato, alle ore 17,00. Questo è, naturalmente, un invito!